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Caro Settembre

 
Caro Settembre
compagno da sempre d'inizio autunno, ti racconto la storia che mi ha condotto qui, in questo luogo bellissimo, ma abitato da gente, a dir poco, originale. Divento depresso, in questo periodo, come sai. Il mio metabolismo è più lento, quasi dovessi andare in letargo; dormo malissimo ma faccio sogni, anche allucinanti, quasi incubi.
Una notte, in un sogno, scoprii di possedere una capacità paranormale, inquietante.
In autunno appunto, quando ho sempre dispute verbali col mio vicino di casa perché le foglie del mio fico cadono nel suo giardino, sebbene avessi tagliato i rami sporgenti, cominciai a desiderare di non averlo mai piantato. Il fico mal sopporta le potature, s'ammala e il ramo marcisce dove viene tagliato e mi inquieta il pensiero di doverlo, prima o poi, abbattere o capitozzare. Mi crea stati d'ansia e ... lo sognai: il fico.
Mi rividi più giovane di trent'anni, nel giardino, davanti ad una buca nel terreno limitrofo a quello del vicino. Steso a terra, in attesa di essere piantumato, un giovane fico. Seppi subito cosa fare: presi la pala e ricoprii la buca; con l'ascia feci a pezzi la pianta e la gettai nel cassonetto. La notte dormii profondamente, come un bambino stanco.
Il mattino, svegliandomi, fui grato a quel sogno che m'aveva così sollevato da sentirmi in forma smagliante.
Mentre sorbivo il caffè fumante davanti alla finestra, guardai nel giardino e trasecolai ... Il mio grande fico era scomparso. Il prato era perfetto come un tappeto, come l'albero non ci fosse mai stato: come avevo sognato, desiderato, fantasticato.
Non lo raccontai e il mio vicino, che era diventato cortesissimo, non fece mai cenno al fico che non c'era più.
Poi capitò anche con la motocicletta. Si guastava un giorno sì e l'altro pure, costandomi in riparazioni come una Harley Davidson. Mi ci misi d'impegno. In sogno, tornai dal rivenditore, revocai l'acquisto, stracciando materialmente il contratto. La moto sparì dal garage e non trovai più neppure i documenti di circolazione, non in casa né alla motorizzazione, dov'ero sconosciuto. Nessuno mi chiese che fine avesse fatto anzi, il vicino, mi disse che aveva intenzione di comprarsene una, senza fare cenno alla mia che aveva visto tante volte.
Non nego che tutto ciò mi spaventava ed ero incredulo, ma era eccitante, sebbene non sapessi catalogare il fenomeno.
Mi domandavo se funzionasse allo stesso modo per qualunque cosa.
Così mi venne in mente Joan. Una giovane donna dell'est, clandestina, che si prostituiva nella periferia più lontana, per il timore di essere arrestata. Conviveva con un giovane tossicodipendente che la sfruttava economicamente. Era bellissima ed ebbi rapporti intimi mercenari con lei e li vivevo come un amore proibito. Fu uccisa dal compagno omicida-suicida e insieme furono inceneriti dall'incendio dell'appartamento che seguì la tragedia.
Ne ero rimasto sconvolto e m'aveva lasciato affettivamente impenetrabile. Non aveva documenti, certamente in mano a qualche contrabbandiere di uomini o organizzazione della prostituzione. Era socialmente inesistente e la pratica per la sua identificazione post mortem giacerà per sempre in qualche archivio di polizia. Dai giornali seppi che non trovando elementi di riscontro per collegarla ad altri, le indagini furono chiuse, almeno ufficialmente, come caso di omicidio-suicidio.
Erano tante notti che cercavo di sognarla. Tenevo nel letto la sua fotografia in desabillé che m'aveva regalato, ma non mi stava aiutando. E stava diventando una ossessione: perché Joan no? E non dormivo quasi più, per reazione. Non andavo al lavoro, mi dichiarai malato. Mi credevano sempre.
Una notte, i melensi programmi tv finirono con l'addormentarmi.
Cominciai a sognare ...
Era settembre inoltrato, quella notte, quella fatidica, nello squallido monolocale dove vivevano Joan e il suo compagno. Ci arrivai non so come, letteralmente di colpo, sulla scena della tragedia. Trovai i due corpi: quello di lui bocconi, con il cranio esploso per il colpo di pistola sparatosi in bocca, esanime, cadavere. Quello di lei supino colpito al petto a destra del cuore, sanguinava, le toccai la gola, aveva pulsazioni appena percettibili e un flebile respiro. C'erano dei moccoli di candela aromatica sul pavimento, che stavano sciogliendosi e la fiammella stava bruciacchiando un pullover che c'era vicino, troppo vicino.
Tamponai la ferita alla meglio, la presi sulle braccia fino al parcheggio; ruppi il vetro dello sportello e rubai una macchina. Di gran carriera verso un ospedale di provincia lì vicino, che sapevo chiuso a quell'ora. Lasciai il corpo senza conoscenza davanti all'ingresso, suonai il campanello e mi allontanai nel buio della campagna.
Mi svegliai madido di sudore e non chiusi più occhio, quella notte, aspettando il giorno dopo.
Scesi di buon mattino al bar dell'angolo, per visionare i quotidiani appena usciti e a caratteri grandi, vidi senza neanche leggere : UNA SCONOSCIUTA SPARATA E ABBANDONATA IN FIN DI VITA... stanotte, alla porta di ingresso dell'Ospedale Civile di Torrevecchia. Si indaga su un'autovettura abbandonata, che risulta rubata, ma il proprietario non è coinvolto.
Mi sentii svenire, non so se dallo sgomento o dall'eccitazione.
Febbrilmente cominciai a pensare a cosa avrei dovuto fare, ora. Mi fossi in qualche modo scoperto, mi avrebbero sospettato di tentato omicidio, probabilmente indagato. Non sapevo della reazione di lei a quello che le era accaduto e certo, ora, lei non poteva sapere di essere stata già uccisa dal compagno, cinque anni addietro, carbonizzata, morta e sepolta. Adesso era viva. Optai per lasciare calmare le acque, che si ristabilisse e poi ...
Con la mia vecchia e scaduta tessera di apprendista giornalista e una buona mancia, seppi da un infermiere che l'intervento era andato a buon fine, che era uscita dal lieve coma, che fisicamente si riprendeva, ma era preda di uno shock psicologico fortissimo con amnesia totale. Alcuni esperti la stavano aiutando. Nessuno si era presentato come parente ed essendo palesemente straniera lo trovavano comprensibile, ma neppure conoscenti o amici, sino ad allora. Seguivo, attraverso la mia fonte interna, come evolveva la salute di Joan e seppi che, ancora, non riusciva a rendersi conto di come, quando e dove tutto le fosse accaduto. Era assistita da uno psichiatra forense.
Avevo una paura fottuta a manifestarmi. La polizia, anche se non l'aveva identificata ancora, certo s'era fatta una idea di chi potesse essere e chiunque la conoscesse o l'avesse frequentata, rientrava preliminarmente, nella categoria dei sospettabili o sospettati.
Tenni d'occhio le sue vicissitudini. La convalescenza presso un istituto religioso vigilatissimo dalla polizia, il suo procedere verso la guarigione fisica ma, psicologicamente, mi diceva un altro mio contatto, era ancora in stato di confusione mentale; aveva preso a parlare nella sua lingua di origine, si supponeva, e solo con poche corrette espressioni in italiano. Mi pareva di attendere un segno, non sapevo bene quale, per farmi avanti e rivelarmi. Trascorsero molti giorni e notti.
Dovevano essere riusciti a ricostruire la sua identità, in qualche modo, perché seppi che gli era stato intimato di lasciare il paese con foglio di via obbligatorio. Ma nulla sulle indagini per scoprire l'autore del ferimento. Ignoto ancora, si leggeva sui giornali.
Mi sembrò il segnale che aspettavo.
Fu accompagnata al treno per il Brennero, da due agenti di polizia femminile. Le consegnarono dei documenti e una borsa da viaggio. La salutarono, anche militarmente e lei salì sul vagone che le avevano indicato.
Salii a mia volta sulla vettura, avrei fatto il biglietto durante le corsa e, stando nel corridoio, attesi che il treno partisse.
Quando fu ben lontano dalla stazione, mi avvicinai allo scompartimento dove Joan si era accomodata e passando davanti ad altri due passeggeri, mi andai a sedere direttamente di fronte a lei, vicino al finestrino. In cuor mio avevo pochi dubbi che non mi avrebbe riconosciuto, per non dire che ne ero certo, ma ...
Sfogliava distrattamente i documenti ed io la guardavo fissa finché alzò il capo e incontrò il mio sguardo. Abbozzò un sorriso di cortesia, come penso avesse fatto con gli altri. Nessuna reazione apparente. Continuavo incredulo a fissarla e notai che aveva certi segni del tempo che non conoscevo, come piccole rughe agli angoli degli occhi, seppure non fossero trascorsi che pochi anni dall'ultima volta che l'avevo vista da vicino. Aveva ancora, però, quell'aria malinconica che mi piaceva tanto. Alzò di nuovo il capo e, questa volta, il suo sguardo mi parve interrogativo. Come cercasse nella memoria.
Ora, visto che il riconoscimento non era stato immediato, non sapevo se fare la prima mossa o attendere che potesse ricordare. Non capivo e forse, non c'era nulla da capire. Poi ...
- ma io la conosco? eppure mi sembra soltanto un viso conosciuto? disse a bassa voce.
- sono Bruno, Joan. Non ricordi?
- sì, certo Bruno. Quanto tempo è passato ... e perché ci siamo persi di vista?
Parlava discretamente l'italiano, come ricordavo, sebbene fortemente accentato da lingue slave. Stavo riprendendo il controllo di me.
- una lunga storia che ti racconterò, se vorrai. Tu ricordi quello che c'era tra di noi, vero?
- eri uno dei tanti clienti, anche se più gentile e dolce degli altri; rispose.
- ti proposi di venire a vivere con me. Ricordi? Ma avevi paura di lasciare ... lui.
- dici davvero? Ho come un buco nella memoria e - sorridendo - ne ho uno anche nel petto, senza sapere chi devo ringraziare. Un angelo m'ha aiutato, sono salva per miracolo.
- io so tutta la storia. Ti ho seguita sempre e ti ripeto l'offerta. Tengo tantissimo a te, dico veramente o non sarei qui.
Mi guardava incredula, quasi infastidita dal problema che le stavo sottoponendo. Incerta su cosa dire e si torturava la dita.
- se almeno ricordassi qualcosa ... qualcosa di concreto. Tu dici di sapere, io credo tu sia stato mio cliente, nulla di più. Devo tornare in Bulgaria, non vorrei ma non so come fare. Ho il foglio di via, se non vado mi arrestano. Non voglio andare in prigione, ci sono stata, è brutto.
- posso aiutarti io. Verrai da me e inizierò le pratiche di assunzione come domestica, per il momento, poi vedremo.
Si convinse, ma era spaventata, incerta, si guardava attorno in cerca di chissà quale segno.
Tornare al suo paese, m'aveva sempre detto, sarebbe stata una vera iattura. Scacciata dalla famiglia, da parenti e amici, senza denaro, sarebbe stata in balia di una vera miseria e con nessuna possibilità di andarsene per mancanza di mezzi economici. Prostituirsi al suo paese era impensabile.
Scendemmo dal treno a Udine, presi in affitto un'autovettura e facendo strade provinciali, ci avviammo verso la Toscana. Davvero era frastornata. Nulla della prima tragedia la sfiorava. Sapeva di essere stata sparata, ma non da chi e perché ed io non avevo ancora trovato la forma migliore per raccontarle tutto.
La macchina faceva strani rumori al treno anteriore e lo sterzo tremava tutto ad ogni curva. Incrociammo un autobus, dovetti accostarmi al margine destro della carreggiata, quello sullo strapiombo. Il ciglio franò sotto il peso della macchina che si inclinò su un fianco e cominciò a rotolare. Urlavamo entrambi, poi a seguito di un urto più forte, fui sbalzato fuori ma l'auto continuava a precipitare. Un boato e una vampata enorme si levò dal burrone. Tutto bruciato, carbonizzato.
Caro Settembre
ora devo andare, l'infermiere mi aspetta per la terapia e se non sono puntuale e sottomesso, mi mette quella camicia legata che mi soffoca.
Domani ti racconterò il resto della storia.
 
 
 
Bruno Amore
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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