Scritto da © Fulvio - Ven, 10/09/2010 - 09:39
Reperti archeologici:
una volta, quando in testa –e nei capelli–
avevo più pepe che sale, scrivevo così.
Le avevo guardate a intermittenza nelle luci lampeggianti del “Sombrero” e impiegai un’intera macareňa per comporne il puzzle nella rètina. Due tette enormi che, in quel momento non lo sapevo, si stavano innamorando di me.
Ebbene, non erano nulla rispetto alle due bombe che lei mi esplose addosso qualche notte dopo. Tette così grandi che poteva far l’amore solo in determinate posizioni dopo avermele depositate intorno con sorvegliata cura.
Sembravano quelle delle copertine porno tipo Tetton-club le cui foto, si dice, vengono gonfiate col computer. Palle.
A dire il vero, le tette grosse non m’hanno mai attratto più di tanto. Ma quelle non erano tette grosse, non erano nemmeno tette. Erano glutei… erano un’ammucchiata… erano Biancamaria.
Sua madre s’era talmente impegnata nel costruirle tutti quegli ormoni che, quando arrivò al cervello, aveva ormai finito la gravidanza. Così, il giorno in cui mi fece capolino l’idea di paragonarla a una bambolona gonfiabile, l’incanto finì, poverini noi!
Delle tette rigorosamente medie e perfettamente clonate sul genere Barbie o “missitalia”, non m’è mai fregato niente.
Il fatto è che le opere ciclopiche, come le miniature, hanno sempre affascinato l’uomo che, si sa, propende agli eccessi. Del resto, il segreto dell’universo sta appunto nell’infinitamente piccolo e nell’immenso, continuamente rincorsi con microscopi e sonde spaziali.
In questo bizzarro mondo ci sono persino coloro che rincorrono la misura media chiamandola equilibrio e se ne fanno una meta. In realtà hanno solo ravvicinato lo striscione del traguardo perché il medio è più agevole dell’estremo.
A proposito di miniature, forse per la logica degli opposti e dei contrari, nei due mesi successivi frequentai il letto di una smilza totalmente priva di mammelle e la cosa mi eccitava. Insieme, era donna, lolita, efebo: un’altra ammucchiata.
La mamma della smilza, al contrario di quell’altra, non aveva potuto farle le tette perché aveva speso tutta la gravidanza per costruirle la materia grigia. Meno male, pensai.
Citando Shaw, Smilza definiva equilibristi gli uomini equilibrati per la loro tendenza ad adattarsi al mondo che li circonda e plaudiva gli squilibrati che pretendono, invece, di adattare il mondo all’uomo regalandoci il progresso. Smilza trovava persino una ragione su quel mio ciucciare tette mostruose o efebici capezzoli, non adattandomi, mi spiegava, al grigiore di un mondo codificato rappresentatomi dalle mammelle clonate. Una bella testa, mi dicevo soddisfatto.
S’era al nostro terzo incontro e Smilza, che aveva letto tutto Nietzsche, mi spiegava, sempre a proposito di tette, che gli uomini hanno sempre tracciato graffiti, nelle caverne e nei metrò, raffiguranti donne e gnu con grandi mammelle perché bramano l’abbondanza e lo sviluppo.
“Del seno?” chiedevo io per chiudere il cerchio del ragionamento e lei, stettata com’era, s’offendeva e se la legava al capezzolo perché era una donna preparata su tutto tranne che all’ironia.
Al nostro quarto meeting, soltanto un registratore avrebbe potuto riferire i suoi soliloqui ormai irraggiungibili per me e, guardandola mentre si rivestiva, m’assalì improvvisa la desolazione di quel suo petto vuoto come una gelateria in gennaio.
Allora ricordai le risate che mi facevo con Biancamaria quando, fra una tettata e l’altra, cercavamo di stabilire, senza scomodare Nietzsche, quale tetta fosse bianca e quale Maria.
Così me ne tornai, contrito, al “Sombrero” dove mi ci vollero le intermittenze luminose di un’intera merengue per inglobare le due incredibili bombe che lei si portava addosso come una kamikaze e quella notte stessa, lo leggevo nella brace dei suoi occhi, si sarebbe fatta esplodere con me.
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