Scritto da © Hjeronimus - Mar, 01/03/2011 - 22:50
Ho male all’anca e all’anima, pensavo. La mia anca è collegata alla mia anima poiché, essendo la testa del femore sinistro nata staccata dalla sua articolazione naturale, dove altro poteva attaccarsi se non all’anima? Così è rimasta appesa lì come un tronco sradicato che cercasse un appiglio ove gettare radici. Tutta la mia vita perciò è cambiata, è diversa, è stata
“deviata” da quel primo menomo sdrucciolamento di millimetri d’anca, avvenuto molto plausibilmente al mio esordio alla luce. E ancora oggi anca e anima si coadiuvano, ritraendomi nella malinconia di quell’ora malinconica di più di mezzo secolo fa, quando nacqui; ancor oggi, con tutta la gravità di ciò che ne è stato dei miei fratelli morti in anticipo, io mi traggo dietro la tristezza della mia anca lussata, con la mia faccia d’anca tronca e tutta la storia di una vita lussata e franta... e sgarrata, poiché indotta da quel minimo impatto del tradimento dell’anca.
Così, la mia vita fatta ad anca, non ha saputo diventare carne né pesce. Così, la mia incarnazione appesa all’anima mercé l’anca dissociata, non è stata capace né di incarnarsi abbastanza in un qualche sembiante borghese che simulasse una propria onorabilità, né tanto meno, o forse tanto più, trasfigurarsi in simulacri contro, anti, in cui la propria differenza rilucesse come oro, come aurora del valore sul proprio claudicante paesaggio.
Certo, è impossibile esibire una propria interpretazione ontologica partendo da un’anca. Lo spirito è certamente altrove, anche se non sappiamo dirlo, dove. Ciò che è consentito è effettuare una ricognizione simbologica dell’essere così come ci si è dato, di questa offerta d’essere che è l’unica opportunità in concessione per contemplarlo e compenetrarlo, e riuscire a percepirne i simboli come simboli di una essenza che ci è propria e che concerne l’unico e solo e vero essere in causa: l’esserci. Siccome questi è sempre “io”, salta all’occhio con evidenza che nascere con l’anca lussata è un simbolo, appunto, una rappresentazione di una modalità specifica dell’esserci che è tale anche in coincidenza di quella lussazione.
La cifra specifica della mia origine è: il disastro. Ero nato dalla implosione “asburgica” di un nucleo umano molteplice. Vi si parlavano tutti i dialetti d’Italia, ma lo zoccolo duro di quell’implosione, di quella decadenza, veniva da un altro mondo, e a testimonianza di ciò era sufficiente la sola introduzione del nome, un nome breve, conciso, ma impronunciabile in italiano. Tutti quei dialetti concernevano una caterva di zii e zie e quello dominante era il triestino (ma c’erano anche il friulano, il bolognese, il “romanaccio” evidentemente, e il napoletano). Ma il “disastro” era appannaggio soltanto nostro, del nostro ridotto famigliare, del nostro microcosmo esiziale facente capo ad un padre, una madre e tre maschietti. In tale ridotto i ruoli erano inesistenti: nessuno di noi sapeva fare il padre, la madre o il figlio. Chiaro che la responsabilità ricadeva evidentemente sui due adulti, ma con la prerogativa però desueta e anzi bizzarra delle radicali attitudini da cui questa responsabilità traeva linfa. Cioè, da un lato la machina paterna che non ingranava mai, che non poteva avviarsi nel calderone romano coi suoi obsoleti automatismi asburgici. Mio padre era debole per presunzione, per alterigia. Non si sarebbe abbassato a spendere la propria forza per fare il padre, o il cameriere- appunto le cose che invece, disastrosamente, faceva (per altro, fuori di ciò, al suo ultimo posto di lavoro era amato e rispettato. In fondo era un povero diavolo, orgoglioso e arrendevole al contempo). Dall’altro lato campeggiava il blasone dell’egoismo assoluto, una alma mater aggressiva e ambiziosa, graffiante, primordiale, che cercava il proprio successo e lo cercava tra le mura del proprio microcosmo, tendendo ad immolare a tal fine prima il padre e poi i figli.
Non c’è quasi più nessuno al mondo di questi recitanti di cui racconto. Sono rimasto quasi solo, solo io e la mia anca dissenziente... e una povera vecchia oramai in delirio...
Ma allora, con queste premesse, con queste credenziali, dove sbattere la testa? In quale vorticosi ideali andare a ficcare uno straccio di aspettativa, un progetto per l’indomani, una speranza?... Niente, nessuna... ero lo sciancato, il malato, lo zoppo che veniva dall’emarginazione: noi non eravamo neanche proletari, eravamo soltanto dei nevrotici, dei nevrotici poveri. Così, in fondo alla mia anima iniziò a prender corpo una sorta di piccolo sogno segreto, un sogno incredibile a me stesso, alla mia stessa anima antiborghese senza esser mai stata borghese: il sogno della normalità. Forse, prima o poi sarei diventato normale... un piccolo sogno la cui impossibilità era ben rimarcato dal simbolo maligno dell’anca. Così la mia anima si divaricò, si spezzò in due, lasciando correre in avanti le mie attitudini elettive, che la innalzavano a tali sommità da farle dispregiare la norma borghese, giù in basso; e tenendo tuttavia al guinzaglio quel bisogno di normalità comunque aborrita dallo spirito. Siccome niente era stato mai normale, a cominciare da quel dissentire della mia anca, io non potevo sapere che la normalità non esiste. Credevo che ci fosse, altrove, lontano da noi, una vita normale coi ruoli normali assegnati a persone normali. E avevo creduto che, seppure non fossi mai giunto al traguardo della normalità, avrei potuto però trovare un equilibrio sano e quasi normale che mi avrebbe lasciato essere ciò che ero: l’eccezione sciancata che avrebbe confermato quel surrogato della normalità. Ahimè, che errori...
La normalità, da me appunto così aborrita senz’averla mai vista, era quella borghese, il cui spirito era del tutto ignoto nella nostra normalità. Vivevamo in una strana stasi fra la nobiltà e la barbarie, totalmente all’oscuro delle virtù borghesi, come il decoro, la responsabilità, la collaborazione, l’igiene persino. Alcune di queste sono sin universali, come la responsabilità per esempio. Ma se ignoravamo la virtù borghese come tale, potevamo mai ravvisarne l’universalità?... Ossia, ci mancava il particolare: come puntare all’universale?.
La nobiltà era il tributo genetico largito da mio padre, a sua insaputa. Lui portava con sé il vento dell’aristocrazia mitteleuropea e nel secondo e terzo nome assegnatigli alla nascita c’era inscritto tutto il suo destino irresoluto, in-decisionista, irrecuperabile alla realtà piccolo-borghese che lo aspettava. Francesco Giuseppe, in onore al sovrano della Kakania (Kaiserlich-Königlich Reich).
L’esser nobili non c’entrava nulla con questo tipo di nobiltà. Il tutto si riduceva all’essere indecisi. E decadenti. E senza saperlo mai. Mio padre si sbatteva dentro la vita senza sapere neanche cosa volerne fare. Era imbevuto di un patetico visibilio sentimentale per il quale gli affetti dovevano essere legati ai ruoli. e quindi indistruttibili. Si sognava perciò magari una “famigliola felice”, dovendo poi invece sbattersi contro la realtà. Il suo sentimento di “gloria”, di superiorità morale, che gli derivava a sua insaputa dall’alterigia sacro-romano-imperiale, ossia asburgica, s’era infine cangiato in un sogno affettuoso in cui tale gloria si sarebbe riversata come un dono virtuoso e artistico sul primogenito, sua reincarnazione e suo riscatto. E questo sogno si ribaltò invece nell’incubo della vita assurda di mio fratello, scaduta nell’ozio, nella depravazione, nella droga e, infine, nella morte precoce. Questo perché non si può esser mai il sogno di qualcun altro, neanche di un padre o di un coniuge. E’ spettrale quest’idea d’essere il sogno altrui, e non il proprio; ha qualcosa di malsano, di macabro, che mette paura.
La barbarie era invece una dote romana, trapassata nel cieco egocentrismo di mia madre. Roma è una città “femmina”, e le ragazze che vi vedono la luce ne sono la sua perfetta metamorfosi. “Mamma Roma”, oltre il celebre film di Pasolini, é Roma stessa, col suo cinismo autocentrico, la sua turpitudine sarcastica e senza scrupoli. Il motore di questo cinismo turpe ed egoista è quello del potere. Se si ha presente la figura dello scienziato pazzo che vuole conquistare il mondo nei film dei vari 007 in circolazione, potrei dire che questa figura esiste, anche se non si tratta del classico scienziato pazzo, ma del soglio pontificio. Sono loro, i papi, gli scienziati pazzi votati alla conquista del mondo... la loro scienza è la dialettica, la loro arma è quella più potente: la pazienza. Il popolo, al disotto, ha lentamente assimilato nei secoli i canoni del decalogo della vittoria e li ha fatti propri, incarnandoseli fin nella lingua. Hanno appreso che sono la corruzione e l’ambizione sfrenata i viacoli della propria affermazione nelle sfere del potere; hanno capito che solo il potere conta davvero e che bisogna esser cinici per arrivarci. Questo è l’humus su cui prolifera la “mamma Roma” della pubblicistica. Una donna acida, determinata al potere, ma nient’affatto tenera e affettuosa coi figli. Questi anzi sono intesi come strumenti per lo sbaragliamento del “nemico”, cioè il mio simile che condivide il mio medesimo obbiettivo, in mia aperta ostilità... Siamo lontanissimi dalla mamma meridionale, tutta casa e famiglia, che si immolerebbe per i figli. Qui siamo a una madre che è come una chiesa, padrona e autoritaria, che impone la propria morale a colpi di crocifisso, esclusivamente per il proprio tornaconto. Ecco, togliamo il crocifisso e mettiamo al suo posto il ricatto affettivo: questo era mia madre. Volitiva, arcaica, primordiale, sembrava esistere soltanto per avere successo, non importa dove o con chi. Era il potere della sua apoteosi che l’affascinava. Se ne fregava perciò dei cosiddetti “valori borghesi”: la casa poteva marcire all’inferno, sporca, trasandata. La famiglia doveva asservirsi ai suoi gusti, apparecchiarle le sue vittorie, fossero anche vittorie da osteria in cui si trionfava su una banda di perdigiorno ubriachi...
Nacque così in me, nato anomalo fin nelle ossa, un anelito alla normalità, una vocazione ad una fantasticheria piccolo borghese che era in sé illusoria, pura utopia nella mia famiglia, e pura contraddizione rispetto alla mia essenza ontologica.
Ora che so finalmente cos’è quell’anelito, quell’illusione, ora che la pletora della normalità è penetrata lentamente fin nelle mie ossa pericolanti, pur senza mai annettermi completamente e piegarmi davvero alla sua promessa, ossia senza farmi mai tagliare il traguardo del benessere acquisito e definitivo, ora vedo solo quanto sia al contempo sciagurata e nulla quella normalità. Non è neanche “normale”, la normalità, è soltanto una spregevole simulazione di un “bene” chimerico, evanescente, falso. Quella della normalità è una recita che riscuote consenso negli ambiti più degradati e dolorosi, ma che dall’interno risulta altrettanto degradante e triste, nella sua menzogna edulcorata, nella sua prosopopea di plastica, del degrado da cui promette di sollevarti. Tanto che oggi dico che non quello era il mio piccolo sogno, non “essere normali”... ma soltanto cercare di resistere...
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