Scritto da © fabiomartini - Gio, 21/01/2010 - 21:56
Avrebbe voluto anche lui un applauso scrosciante. Di quegli applausi dedicati e straordinari. Di quelli che spellano le mani a chi li offre e riempie le orecchie di chi li riceve tanto da non voler smettere d’ascoltarli e non sentirli cessare.
E lui nonostante i suoi anni e i viaggi percorsi e chissà quali emozioni, vittorie e sconfitte, non li aveva mai ricevuti neppure una volta, neppure una stramaledettissima unica volta.
Magari quell’unica volta, ai tempi d’oro, quando in piedi sopra la cattedra all’università urlava come un ossesso per chissà quali motivi e smuoveva emozioni.
Oppure quell’altra volta che, da bimbo, era uscito indenne da una caduta improvvisa tra gli scogli finendo in una pozza d’acqua e ricomparendo qualche metro oltre, in mare aperto un po’ più in là e la felicità nei presenti aveva fatto esplodere l’applauso. Ma non erano la stessa cosa.
Il primo era un applauso di claque, qualcosa di mansueto che avvolge i partecipanti alla stessa minestra e li fa sentire accomodati alla stessa tavola. Il secondo di chi improvvisamente si sente sollevato da una tristezza che poteva sconvolgere in un solo istante e per infiniti istanti a venire.
Avrebbe desiderato un applauso scrosciante di un pubblico ostile, sino a diventarne l’amico intimo e profondo, che contro tutto e tutti aveva dimostrato il talento e quei tutti avevano dovuto riconoscere in mezzo alla contrarietà della sorte avversa. Anche quel mattino non arrivò l’applauso.
In ufficio la mattina sembrava come tante altre. Un passivo ingresso di saluti sempre identicamente uguali a quelli del giorno prima e a quelli che sarebbero stati identici il giorno dopo.
Era entrato in ufficio e aveva acceso il computer automaticamente ancor prima di levarsi la giacca ed appenderla all’appendiabiti a stelo che si trovava vicino alla finestra.
Quel mattino intorno alle dieci lo avrebbero chiamato al telefono interno e gli avrebbero chiesto di recarsi nell’ufficio di uno dei titolari.
Si era alzato dopo aver emesso un va bene alla cornetta posandola dove l’aveva trovata prima di rispondere e sapeva che quel momento sarebbe dovuto arrivare e forse l’aveva anche atteso. Comunque si dava il caso che fosse avvenuto come doveva accadere. Glielo avevano detto tra le righe di un discorso.
“Sai che sei nella lista?”
“Ah si?” Aveva risposto, come non dando peso alla cosa.
Eppure sapeva che una voce di popolo vale tanto quanto quella di Dio e cominciò a pensare cosa avrebbe dovuto dire il giorno in cui fosse stato chiamato.
E ci aveva pensato molto, anzi moltissimo. Probabilmente era necessario alzare il prezzo e vender cara la pelle oppure si sarebbe ridotto il tutto ad essere un normale passaggio di informazioni considerandoti da quel momento già fuori dell’azienda.
Quel mattino mentre percorreva il corridoio per bussare alla porta in fondo, prima della sala riunioni, non fece neppure mente locale. Arrivò davanti al vetro satinato, bussò quei tre colpetti di chi già gira la maniglia per aprire, sapendo d’essere atteso senza neppure attendere il permesso e all’interno della stanza dopo aver salutato si sedette sull’unica poltrona disponibile tra i cenni dei presenti.
Davanti a tre persone che lui considerava zero si accomodò accavallò le gambe con naturalezza pose gli avambracci sui braccioli a lato percorse un quarto di giro sul pistone sotto alla seduta e sorrise alla ragazza che stava dietro la scrivania. Lei rispose al sorriso.
Chi cominciò a parlare fu uno dei due uomini seduti di fianco a lui al di qua della scrivania.
Ripose lo sguardo verso chi stava rivolgendogli la parola e bastarono solamente alcuni sguardi per capire che era nella lista. Nella lista ufficiale insieme ad altri diciassette.
“Sai, i tempi cambiano. L’azienda necessita di un cambiamento, bisogna sfoltire l’organico e poi bisogna capire che non c’è più il fatturato di prima. Insomma nonostante che noi si sia convinti che tu sei il meglio, purtroppo il settore nel quale lavori è quello che abbiamo deciso debba essere abbandonato. Lasciamo il settore e appoggeremo all’esterno questa produzione.”
La frase si fermò lì. Lui non fece neppure un cenno. Il viso rimase impassibile e rispose: “Quindi?”
“Quindi, ti vorremmo proporre la mobiltà. Sempre se tu accetti ovviamente, perché non sei costretto. Noi te la proponiamo e tu volontariamente la puoi accettare”.
La ragazza seduta dietro la scrivania pareva a volte assente, pur guardando sempre la scena pareva che non le interessasse particolarmente l’argomento o forse dal momento che la fatidica frase era stata detta, poco importava il resto.
La tensione era passata, la frittata fatta, ora si trattava solo di definire la tecnica. Pura formalità.
Quello che non aveva parlato era rimasto fermo guardando per terra, ciondolandosi sopra la sedia quasi annoiato dal trovarsi in un posto che in fondo interessava poco trovarcisi. Quello che aveva parlato l’aveva fatto quasi imbarazzato. Lentamente aveva espresso le necessità, poi si era distaccato pure lui.
Il coinvolto rimase praticamente da solo nel silenzio generale. Fuori dalla finestra si vedeva il piazzale dell’azienda. Ormai i camion entravano di rado e ne partiva uno al giorno. I rappresentanti non andavano e venivano come una volta e anche i clienti arrivavano di rado. Si vedevano, un po’ più spesso di prima, i direttori delle banche che tentavano di capire come stavano le cose. Insomma la situazione non era sicuramente rosea e forse quella lì poteva essere veramente l’occasione per levarsi da lì ancora con due soldini in tasca, visto che si era parlato di un incentivo alla mobilità di una decina di mila euro.
Sicuramente non accettare sarebbe stato folle, considerato che prima o poi l’azienda non avrebbe avuto altro che un destino segnato.
Quando l’azienda aveva cominciato la sua avventura erano tempi di denaro che arrivava direttamente dallo stato e le aziende nascevano dal nulla su campi brulli che fino all’anno precedente avevano coltivato a bietole. L’anno dopo c’era l’ingresso ad un capannone da parte di un centinaio di operai e impiegati.
Oggi erano finiti i tempi buoni e dove ieri c’era stato un padre che aveva avuto l’arguzia e le capacità quasi naturali di costruire un piccolo impero i figli a distanza di una morte avvenuta 5 anni prima erano riusciti a distruggere tutto e ridurre tutto, a un pugno di operai e un gruppo di impiegati pronti a sbranarsi tra loro pur di non perdere il posto di lavoro.
Che schifo pensò Cleviz, anche quel nome che si portava dietro non aveva nulla a che fare con quel mondo nel quale si era trasferito anni prima.
Lo avevano sempre visto come uno che andava in giro a rovinare la piazza, solo perché abituato a lavorare. Che strano quel mondo così pieno di piccole invidie che non fanno esplodere le aziende e quei titolari da quattro soldi, convinti che per fare andare le cose come devono andare, basti girare per i corridoi bestemmiando, oppure entrare in azienda senza salutare facendo sempre l’aria truce.
Che schifo pensò mentre si alzava appoggiato ai braccioli leggermente spostato verso i suoi interlocutori.
Disse: “Va bene, fatemi pensare, ne riparliamo in questi giorni”.
E uscì nell’immobilità generale.
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