Scritto da © Antonio.T. - Lun, 04/02/2013 - 20:45
Nacqui una trentina di anni fa in un piccolo paese non troppo distante dal mare da una famiglia di antica stirpe e di nobilissima genealogia, ma umile anche se non povera. Mia madre era molto, molto giovane, mio padre, al contrario, era molto più vecchio di lei. Lei mi amò dal primo sguardo, mi amò come mai nessun’altra donna fece dopo di lei ed ebbe una grande influenza nella mia formazione. A mio padre devo invece la mia professione, visto che anche io, come lui, sono un piccolo artigiano.
La mia infanzia non fu molto diversa da quella di tutti i bambini. Giocavo, aiutavo mia madre – ma qualche volta la facevo arrabbiare – mangiavo, e andavo a letto addormentato dal dolce suono della voce della mamma che mi raccontava tante, tante belle favole.
Quando divenni un po’ più grande, anziché la mamma, cominciai ad aiutare il papà ed a seguirlo nei lavori dell’impresa di famiglia anche se, a dirla tutta, non mi suscitavano un grande entusiasmo. Ero molto più attratto ed interessato alla scuola…in questo, forse, ero un po’ diverso dai miei coetanei. Certo, allora la scuola era molto diversa dalla scuola di oggi. Infatti erano soprattutto gli adulti, i genitori ed i parenti che se ne occupavano. Ed io ascoltavo sempre con grande piacere ed attenzione le storie che mi raccontava la mamma.
Il mio paese è un piccolo paese. Ci si conosce un po’ tutti e quando crebbi, non più bambino, ma certamente non ancora adulto, appena vedevo accendersi qualche discussione nella piazza, non perdevo occasione per infilarmici. Non so come, ero decisamente attratto ed incuriosito da tutto quanto dicessero gli adulti, specie quelli che a me parevano essere più istruiti. Ormai, dopo qualche mese, avevano imparato a conoscermi ed accettavano dunque di buon grado la mia muta ma attenta presenza.
Gli anni passavano, scanditi dal lavoro presso l’officina del papà, le visite ai parenti, le feste e la mia quotidiana, pubblica istruzione. Mi ero fatto un gruppetto di amici che condividevano con me l’interesse e la passione per tutto ciò che riguardava la vita pubblica, il governo della città e del paese e, più in generale, le sorti dell’uomo, i motivi della ricchezza e della povertà, della salute e della malattia.
Ero ormai adulto ed ero diventato, pur continuando a lavorare presso la ditta di mio padre, un assiduo frequentatore delle osterie del paese ed ero spesso invitato a feste e banchetti. Ero molto richiesto a questo genere di convivi poiché, pur non avendo fatto, come si direbbe oggi, le “scuole alte”, grazie alla mia naturale eloquenza, riuscivo sempre a rendere le serate brillanti e piacevoli anche se mai frivole. Amavo anche ballare, cantare, mangiare e, in quanto al bere, non ero certo astemio anche se non ero di certo un “beone”. L’unica cosa che di questi banchetti non gradivo, era l’ipocrisia che vi serpeggiava. Molte volte infatti, intonata una canzone allegra e spensierata, mi chiedevano di cambiar registro e suonare musiche più tristi, profonde, lamentazioni quasi per poi nuovamente invertire la richiesta.. Mai contenti. Fu così che decisi di prendermi una pausa di riflessione. Del resto ne avevo proprio bisogno per capire chi io veramente fossi. Così mi ritirai in un luogo appartato e deserto per pensare e riflettere sul senso della vita, sulle miserie dell’uomo e sul suo destino. Molte volte fui sul punto di mollare. Non ero abituato a tutta quella solitudine, alla fame, alla sete…
Quella esperienza cambiò per sempre il corso della mia vita. Mi rinsaldò nei miei propositi, fece luce sul mio compito e sul mio destino. Quando tornai tra gli uomini non sembravo più uno di loro, ero come sfigurato o, se preferite, trasfigurato. Ritrovai vecchi amici e nuovi se ne aggiunsero. Con loro viaggiavo di città in città, di paese in paese. E cominciai a parlare. Cominciai a parlare con tutti e di tutto, presso quegli stessi luoghi ove per anni avevo solamente pazientemente e umilmente ascoltato. Chi mi conosceva faceva ora fatica a riconoscere in me il figlio discreto e un po’ schivo di quell’artigiano tanto bravo ed onesto ma da sempre avulso dalle discussioni ed i dibattiti nelle pubbliche piazze. Io invece ora ne ero diventato il centro, il fulcro. Molta gente accorreva, anche da luoghi molto distanti, per ascoltare le mie parole. Tanti mi chiesero addirittura di metterle per iscritto, di scrivere libri, di dare forma ai miei discorsi. Ma io non volli mai farlo perché la parola, disgiunta dal gesto che la giustifica e la fonda, non vale nulla. Divenni anche un bravo guaritore e molte volte mi presentarono i loro malati, e storpi e ciechi ed indemoniati affinché io li guarissi. E lo feci. Facevo solo del bene, in quel mare di povertà, di miseria e di disperazione. E l’invidia nei miei confronti crebbe con la mia fama. Eppure non ero certo una “testa calda” e tantomeno un rivoluzionario. Una volta dissi addirittura in modo molto chiaro ed inequivoco che le tasse vanno pagate a prescindere e così mi alienai la stima di molti falsi amici. Insomma, non volli mai criticare le leggi, ma semmai completarle, ricordando che le leggi prendono origine dalla giustizia e che le leggi devono servire l’uomo e all’uomo e che la legge suprema è la legge dell’amore. Dissi anche che preferivo la misericordia al sacrificio ma non già per allontanare la gente dai luoghi di culto e dai sacerdoti che li officiavano, quanto piuttosto per ricordare che molte volte il perdono e la misericordia costano molto di più di qualche passero o di qualche colomba. Ma fui frainteso e da qui cominciarono i miei guai. Intellettuali, sacerdoti e benpensanti, in pratica tutta l’”intellighenzia”, mi diede contro e mi osteggiò. Dissero che parlavo con i demoni e addirittura che scacciavo i demoni in nome di Belzebù e che infrangevo la legge del Sabato. Io risposi che le feste sono per l’uomo e che nessun pedissequo rispetto della legge deve produrre sofferenza. Alla fine, stanco di essere continuamente frainteso, dissi esplicitamente che i posti di comando del mio paese erano occupati da uomini di poco conto, di nessun valore, ipocriti e sepolcri imbiancati. Fu così che ebbe inizio la mia fine. Poco o nulla contò il grandissimo seguito che avevo tra il popolo e tra gli umili. I potenti mi scagliarono contro l’anatema più grande e fui accusato, in un processo farsa, di blasfemia. Come Prometeo anch’io effettivamente rubai qualcosa…ma non agli dei bensì a quella casta di ipocriti benpensanti che mi condannarono a morte. Ripresi la dignità di cui si ritenevano unici depositari e la donai a tutti. Ed ora sono qui, inchiodato a questo legno piantato nel Cranio e sono per voi e per tutti un cortocircuito della mente. Venni tra voi come contraddizione, non venni a portare la pace ma il fuoco dell’amore e della verità, non venni per puntellare le vostre sicurezze, ma per interrogarle. E questa croce è uno specchio ove le vostre domande riflettono le verità del vostro cuore e in me ciascuno di voi continua e continuerà a vedere solamente ciò che vuole vedere. Io sono il mistero, ma chi crede in me sarà salvo. Ed ora muoio perché dissi che ero il figlio di dio, ma ditemi, io che non conosco menzogna, cos’altro avrei potuto rispondere alle loro puntigliose domande? Mi chiesero se ero il figlio di dio ed io risposi di sì. Pensate alla mia genealogia, alla genealogia di ogni uomo, a vostro padre, al padre di vostro padre e così via, all’infinito. Cosa avrei dovuto rispondere, che discendevo dalle scimmie? Forse voi, oggi, vi accontentereste di questa risposta, ma qui si separano le nostre strade..io sono il figlio di dio e voi, di chi volete essere figli?
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