Scritto da © Antonio.T. - Dom, 09/02/2014 - 22:07
Francesco si infilò furtivo nello studio del nonno Priamo. La libreria era gonfia di libri stipati su mille mensole, vari quadri in lavorazione, e tanti fogli, tante pagine scritte. Al ragazzo tutto questo interessava ben poco. Stava cercando altro... più esattamente cercava le matrici in piombo dell'Opera la Rosella, musicata dal nonno e da poco rappresentata presso il teatro di Ozieri. Dopo una lunga e pericolosa ricerca, giacché se il nonno l'avesse trovato a curiosare nel proprio studio sarebbero stati guai seri, trovò finalmente quello che cercava. In quei tempi - gli anni trenta - il Regime aveva infatti già imposto l'autarchia e il piombo e i metalli in genere avevano un gran valore. Ma a Francesco non interessava nulla del valore commerciale del piombo e neanche, trattandosi appunto di matrici di un'opera, del valore culturale e artistico, ma unicamente del suo valore d'uso. Francesco aveva allora poco più di 15 anni ed era sempre stato affascinato dai racconti di caccia del padre, dei nonni e dei parenti in genere. Stava ore ad ascoltarli descrivere le varie battute di caccia, le descrizioni dei luoghi, le tecniche, i periodi, i richiami, le armi, i cani. Molti di quei posti, quelli più vicini, li conosceva bene, anzi molto bene, forse addirittura meglio dei parenti più anziani che a caccia ci andavano a cavallo. Lui, non avendone ancora uno, quei luoghi li percorreva a piedi e ne conosceva ogni aspetto, ogni anfratto, ogni cespuglio, ogni roccia. Non aveva poi ancora un cane suo. Molto più tardi mi confessò che non ne aveva neppure bisogno, visto che appunto quei luoghi li conosceva meglio delle proprie tasche e che il cacciatore sa dove si nasconde la preda. Lo sa perché lo vede nel sogno, lo sa perché ne fiuta la presenza, lo sa perché, mi diceva, in battuta, una forza misteriosa conduce preda e cacciatore a confronto, uno di fronte all'altro...ma questo solo se lo scontro è leale, ad armi pari. E per Francesco, a quei tempi ed alla sua età, la caccia era ancora questo: conoscenza del territorio, forza fisica per attraversarlo in lungo e in largo, e occhio, cchio per vedere, occhio per scovare, occhio per mirare, occhio per uccidere. Non aveva un cavallo, non aveva un cane, non aveva un fucile, ma sapeva costruire delle fionde magnifiche e micidiali. Il legno non mancava e gli elastici neppure. Del resto suo fratello Giannino, di vent'anni più vecchio di lui, aveva una splendida moto Guzzi Falcone 500 e qualche vecchia camera d'aria bucata faceva esattamente al caso suo. Come proiettili non si accontentava però di normali sassi, troppo irregolari e con peso specifico non ottimale. L'ogiva doveva penetrare bene nell'aria ma nel contempo possedere un peso notevole, in modo da offrire poca resistenza all'aria ma avere un impatto devastante. Il piombo faceva al caso suo...e le matrici dell'opera musicata dal nonno erano in piombo. Ecco perché si trovava nel suo studio. Trovate le matrici le tagliò con abilità una ad una, in varie grandezze, fino a formare un'infinità di proiettili, selezionati in varie grammature per le diverse prede cui erano destinate. L'arma letale era pronta, ma in realtà l’arma letale era proprio Francesco. Ora non gli mancava più nulla per dimostrare al mondo che lui, l'ultimo di sei fratelli, era ormai grande. E a quei tempi e in quei luoghi la raggiunta maturità, rito apotropaico quasi, si dimostrava anche così, mostrando di saper uccidere, mostrando di sapersi procurare il cibo anche se di cibo lui non ne aveva di certo bisogno essendo l'ultimo rampollo di una famiglia di antica nobiltà. Così, armato di fionda, piombo, conoscenza, volontà e determinazione, si incamminò, in una fredda e luminosa alba di dicembre lungo le pendici attorno a Suergiu, ove l'acqua non mancava e dove, allora, ancora si posava il germano reale. Durante il percorso fulminò due incaute lepri, avendo così modo di saggiare la potenza devastante dei suoi micidiali proiettili. Ma il bello doveva ancora venire... dopo un'altra ora di cammino giunse finalmente nel luogo da lui prescelto e da lui ben conosciuto e si acquattò in un anfratto, sottovento a quella semplice pozza d'acqua ove moltissime anatre starnazzavano ignare. Nel silenzio tese l'elastico fino quasi a piegare la forcella di legno che aveva temperato nel fuoco e sibilò il primo colpo... era piombo in musica, era un si-do-la morte diretto, preciso, senza dieresi o bemolli e fulminò il primo palmipede. Lo stormo non si accorse di nulla, nessun rumore, solo delle splendide piume giacevano ora immote in pochi centimetri d'acqua. Francesco ricaricò ancora e fu l'inizio di un crescendo, di una sinfonia, un veloce susseguirsi di acutissime e ferali crome che stamparono innumerevoli Requiem sulle teste di altrettante anatre. Continuò così per un'ora, fino a quando finì l'opera sua, cioè fino a quando non ebbe più il piombo ricavato dalle matrici dell'opera del nonno. Quel giorno suonò solo il suo strumento, e volava la musica e il piombo, le note e la morte. Scoprì così inconsapevolmente ma simbolicamente, l'unità di eros e thanatos, il significato dell'arco di Apollo e della sacra pipa-tomahawk dei Sioux. Fu così che mio padre divenne uomo. Francesco oggi, a novantatré anni, è ancora vivo e preferisce la musica alla caccia. Quella lontana sua prima esperienza, così profondamente allegorica ma reale, insegna ancora che così come la musica è accordo anche la caccia deve continuare ad essere accordo tra l'uomo e il suo territorio. Un accordo è però sempre anche un ricordo, cioè un accordo di presente e passato. Questa terra è l'unità reale del tempo.
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