La naturale inclinazione che avevo sempre avuto per lo studio, per la ricerca e per il fantastico, ma soprattutto la mia grande curiosità mi spinsero a saperne di più circa l’attaccapanni. Così cominciai ad acquistare ogni libro che potesse riguardare il Settecento francese ed il suo libertinaggio, ma non solo: nei ritagli di tempo libero mi recavo spesso alla Biblioteca Nazionale di Palazzo Reale proprio per consultare qualunque testo avesse a che fare con il periodo che m’interessava. In quelle splendide sale settecentesche trovai qualcosa che si rivelò davvero interessante: “La rivoluzione in interiore homine” di Antoine Dumont, un trattato sull’occulto fenomeno del pensiero contro-rivoluzionario, la sua empietà, l’odio contro Dio cagionato dall’orgoglio e dalla sensualità. Fu tra queste pagine che mi si palesò il sinistro fascino di alcuni personaggi dell’epoca.
Gli avvenimenti politici militari d’inizio Settecento miravano a neutralizzare ogni iniziativa di supremazia da parte di qualunque stato. A tal proposito le alleanze tra diversi governi europei posero fine al predominio politico della Francia determinando così un equilibrio di forze che accelerò il disfacimento della monarchia e permise l’avanzata della borghesia (ceto moderno dinamico ed operoso) che assunse una grossa forza d’urto.
Nel Settecento, definito “Il secolo dei lumi” per il vivo intellettualismo che schiarì “le tenebre dell’ignoranza”, le scienze, la tecnica, il pensiero politico e giuridico trovarono straordinari impulsi: vi furono grandi fermenti, grandi scienziati, economisti, tecnici politici ed ideologici. Il nuovo pensiero, le nuove scoperte diedero grande spinta all’idea di terrenità e materialità diffondendo, in special modo in Francia, un incontrastato libertinaggio, il cui massimo esponente fu certamente il marchese De Sade “capolavoro di infamia e vizio”, fautore di un programma di ascetica sovversiva che mirava a raggiungere l’apatia nella vita terrena attraverso un’ossessionante e monotona sequela di peccati. Costui concepì nell’ambito stesso del libertinaggio tutto ciò che vi si poteva concepire.
Andando avanti nelle mie ricerche scoprii un fatto del tutto particolare a proposito di Saint-Fond, il dissoluto ministro di giustizia francese, e cioè che De Sade aveva idealizzato le sue perversioni ergendolo a protagonista di una favola erotica “Justine”, in cui, sotto forma di orco, era preda di un maleficio scatenatogli contro dalla fata Natura e mediante il quale egli era schiavo del suo membro (un pugnale “saldato in modo tanto stretto al suo ventre da non potersi più staccare”). Sarà poi la fata Jiuliette a liberarlo dall’incantesimo facendosi “scivolare” l’arma tra le labbra e staccandola dal ventre con un morso.
Pare che Saint-Fond non gustasse banchetti se non vi si commettessero almeno tre omicidi: cruento piacere rivoluzionario che portava ad adorare allo stato puro Thanatos, capo di piccoli e terribili demoni mai attratti da alcuna cosa lieta, ma immersi unicamente nel male che veniva identificato nei loro volti metà umani e metà animaleschi. Nella mitologia greca Thanatos era il dio della morte, della guerra, del suicidio, della filosofia, della cultura e della letteratura. Egli era quasi sempre citato accanto ad Eros: entrambi erano poli di un meccanismo che regolava l’intera esistenza. Eros creava la vita e Thanatos la distruggeva, l’uno avvicinava ed univa e l’altro allontanava e separava per sempre.
Paragonai subito quei piccoli demoni alle mascherine del mio attaccapanni, e non ebbi più dubbi che esso fosse appartenuto a Saint-Fond, ma chi lo aveva costruito? Quanto tempo prima? Come e perché?
Questi pensieri si affollavano nella mia mente una mattina in Biblioteca. La giornata era splendida e dal mio cantuccio guardavo fuori il chiarore del sole baciare l’azzurro del mare nel porto brulicante di gente. Alla banchina era accostata una grossa nave, mentre al largo, spinte dai capricci di un dolce venticello, navigavano, silenziose, decine di barche a vela. Il silenzio governava anche all’interno della Biblioteca dove poche persone leggevano ingobbite sui libri. Un uomo anziano che inforcava un paio di occhiali da miope se ne stava con la testa letteralmente immersa in un testo dal titolo lungo e strano “Astrnomical…” e qualcos’altro. Poco distante c’era un altr’uomo: costui era di corporatura robusta, testa con radi capelli buttati in avanti alla rinfusa per coprire un’incipiente calvizie. Aveva il volto marchiato sulla guancia sinistra da una “voglia” violacea ed era intento a leggere un libro dal titolo in latino: “Speculi arcanum”, (“Il mistero dello specchio”) molto indicativo per me che ero andato in quel luogo proprio per cercare notizie circa il mio mobile con specchio. Costui, pur immerso nella lettura, sembrava altresì interessato a me e mi scrutava di tanto in tanto con la coda dell’occhio. Dall’altra parte vi era seduta ad una scrivania accanto alla mia, una ragazza giovane e bella. Aveva i capelli lunghi tirati all’indietro a coda di cavallo e, tormentando una matita con la bocca di un color rosa vivo naturale, era tutta intenta a leggere un libro dal titolo breve e conciso: “Zen”.
Ad un certo punto il mio sguardo fu attirato da un altro libro depositato su uno scaffale proprio di fronte a me: “Il simposio”. Così, in quell’atmosfera solenne, infusa di sacro silenzio, spinto da curiosità, mi alzai, lo tirai fuori dallo scaffale e cominciai a sfogliarlo.
“Il simposio” era un’opera di Platone in cui l’autore discuteva sulla tendenza dell’organismo a ripristinare il suo stato precedente: “Ab nihilo venimus et in nihilo redimus” Fu tra queste pagine che ritrovai il nome di Thanatos.
La ragazza con i capelli a coda di cavallo aveva seguito con una certa attenzione i miei movimenti:
- Legge “Il simposio”? – mi chiese.
Ed io: - Leggo di Thanatos…-
Un improvviso colpo di vento fece aprire di botto la vetrata di una finestra, le pagine dei libri adagiati aperti sulle varie scrivanie cominciarono vorticosamente a girare, i fogli preposti per scrivere appunti volarono via. L’uomo con la “voglia” non si mosse, mentre il vecchio miope si chinò per raccattare i suoi fogli e mi guardò con occhio torvo come se il fatto fosse avvenuto per colpa mia.
Tornai con il libro al mio posto. La ragazza, dopo qualche secondo, si alzò, mi si avvicinò e mi chiese:
- Posso sedermi qui con lei?-
- Prego…-
- Thanatos – spiegò – era inizialmente un giovane bellissimo, forse il più bello dell’Olimpo, ma disubbidì a Giove che lo tramutò in un vecchio libidinoso e con le ali di pipistrello.-
- Le mitologie si somigliano tutte. - feci io - Sembra di risentire la storia di Lucifero…-
- Thanatos divenne uno dei tanti mostri della mitologia greca, metà uomo e metà bestia. – Continuò la ragazza: - E’ un mito negativo. In Platone è in continua lotta con Eros, due esseri celesti che rappresentano le pulsioni e reggono le fila dei destini dell’uomo.-
Lei è molto erudita…- Le dissi.
- Studio filosofia!-
- Una donna che pensa? E’ raro!-
- Come tutti gli uomini, lei è un essere di debole intelligenza dominato da istinti e destinato alla perenne insoddisfazione! – fece la ragazza indispettita. Poi andò a sedersi di nuovo alla sua scrivania.
- Cos’è lo “Zen”?- Le chiesi a voce alta a proposito del libro che stava leggendo.
Il mio tono di voce disturbò il vecchio miope che immediatamente portò l’indice al naso per indicarmi di fare silenzio.
- Lo “Zen” – rispose la ragazza con aria di tolleranza – consiste essenzialmente di “Zazen”.
” Zen” è realizzare un qualcosa e metterlo in opera nella propria personale esistenza. E’ una vera rivoluzione interiore, capisce? E’ ritrovare le proprie radici e penetrare la realtà della propria vita. Attraverso questa pratica i valori che danno un senso alla vita umana si basano sull’esperienza del corpo e della mente.-
Ci avevo capito poco, tuttavia chiesi qualche ulteriore notizia: - E cos’è lo” Ze…” “Zazen”? –
Il mio tono di voce disturbò ancora una volta il miope che pensò bene di alzarsi ed allontanarsi mormorando: - Zezan…Zaze…Zazà…Ma quando se ne stanno zitti?!-
- “Zazen” è la pratica dello “Zen” – fece la ragazza venendosi di nuovo a sedere alla mia scrivania.
- Seduti nella corretta posizione, con una respirazione leggera e lo spirito libero ci si concentra su un soggetto che può essere un addobbo floreale o un quadro o qualunque altra cosa.” Zazen” non è altro che il ritorno alla condizione normale del corpo e della mente.-
Quando poi mi parlò della respirazione, non so perché, provai un certo senso di grande fastidio, tuttavia, non senza un pizzico di ironia da parte mia, discutemmo a lungo sullo “Zazen” e perfino sullo “Shiatsu”[1]. Mi accorsi così che Anna (il nome della ragazza) era affascinata da tutto quanto sapeva d’Oriente: dalle arti marziali a quelle pittoriche, dalla musica alla danza, alla delicatezza delle donne ed alla gentilezza degli uomini, per questo scherzai tirandomi gli occhi a mandorla con entrambi gli indici delle mani e cominciai a darle del tu.
Lei parlava, ma io ero distratto da quel fiore rosa che era la sua bocca, dalla profondità dei suoi occhi verdi, dalla grazia delle sue movenze da geisha. Mi dimenticai così del motivo per cui mi recavo in Biblioteca ed accantonai in un angolo recondito della mia mente Thanatos con i suoi diavoli, De Sade e Saint-Fond.
Uscimmo dalla Biblioteca che ormai era pomeriggio inoltrato ed andammo a mangiare insieme in una “tavola calda” che si trovava nei pressi. Devo dire che rimasi colpito dalle fattezze di Anna, dalla sua straordinaria intelligenza e dalla sua dialettica scorrevole. Tra un boccone e l’altro le raccontai di me e di Ada e degli strani avvenimenti che mi erano accaduti. Fatto strano: l’uomo con la “voglia” violacea notato in Biblioteca si era venuto a sedere poco distante da noi e sembrava ascoltare con attenzione i nostri discorsi.
- La parapsicologia – disse Anna – studia tutte quelle manifestazioni che non abbiano alcuna relazione con i cinque sensi.-
Quando le parlai del mio attaccapanni ella si accigliò, le parve di ricordare che un mobile con uno specchio del genere avesse avuto a che fare nel passato con uno scrittore, ma le sue nozioni erano imprecise e frammentarie.
Intanto si era fatta quasi sera; ad Ada che mi chiamò sul cellulare per chiedermi dov’ero e cosa stessi facendo, le risposi che ero con un amico che non vedevo da tanto tempo e per questo mi ero trattenuto con lui a pranzo. Ad Anna che aveva ascoltato dissi con un certo imbarazzo:
- Era mia moglie. Sai è apprensiva ed abitudinaria, basta un nonnulla per metterla in agitazione…-
- Sei felice con lei? – Mi chiese sorridendo.
- Certo! -
- Io non ho di questi grilli per la testa. Non ho alcuna intenzione di legarmi con qualcuno, di limitare la mia libertà.-
- Non vedo perché legarsi con qualcuno significhi limitare la propria libertà.-
Significa dividere.- rise.
- Perché ridi?-
- Sta a sentire: “dividere” si dice in un'unica parola, mentre “restare uniti” sono due parole separate. Buffo, no?- Continuò a ridere a più non posso.
Anna si offrì di aiutarmi nelle ricerche in Biblioteca, così ci demmo appuntamento per un giorno della settimana successiva. Durante il tempo in cui non la vidi, non feci altro che pensare a lei, ai suoi occhi, alla sua bocca, ai suoi capelli, alla sua intelligenza. Mi era rimasto impresso nella mente il suo ridere, la sua voce, il suo profumo, ma mi erano rimaste incancellabili anche le sue parole circa quello scrittore che avrebbe avuto a che fare in passato con un mobile con uno specchio. Proprio in quel senso furono indirizzate le nostre ricerche quando ci rincontrammo in biblioteca. Passammo in rivista decine di testi nell’intento di trovare una traccia di ciò che stavamo cercando. Anna si spostava su e giù per i corridoi con quel suo aspetto da secchiona e quel suo andamento sbarazzino con la coda di cavallo che gli volava di qua e di là.
Ad un tratto la vidi ferma presso uno scaffale con il naso all’insù e le mani nei fianchi:
- Forse ho trovato…- mi disse.
- Cosa ? risposi.
- “Alice nel paese delle meraviglie.”-
- Una fiaba? E che c’entra?-
- Staremo a vedere.- disse. Si alzò sulla punta dei piedi e tirò fuori dallo scaffale l’opera di Lewis Carroll[2]: - Mi pare di ricordare che Alice avesse avuto a che fare con uno specchio…- Sfogliò le pagine del libro per qualche secondo, poi si fermò e lesse: - Ecco: “Prima di tutto v’è la stanza che si vede attraverso lo specchio: è precisa come il salotto dove stiamo, però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la veggo tutta…Tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe vedere quella parte! Chissà se in inverno c’è il fuoco acceso, chissà se il focolare fa fumo come il nostro. Ti piacerebbe stare nella casa dello specchio, Frufrù? Chissà se ti darebbero il latte là dentro? Forse il latte della casa dello specchio non è buono da bere…” - Poi girò qualche pagina e lesse ancora: - “Se si lascia aperta la porta del nostro salotto si vede un pezzettino del corridoio della casa dello specchio: somiglia molto al corridoio nostro, ma chissà se più in là non è diverso. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella casa dello specchio. Guarda, lo specchio è diventato morbido come un velo. To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia…”.-
- Sembra che Carroll ci dica che si può attraversare uno specchio. – dissi io.
Ed Anna, molto pensierosa, rispose: - Entrare in uno specchio vuol dire iniziare a conoscere l’altro, prima che noi stessi. Significa confrontarsi con la dissimmetrica realtà che è il mondo. Il comunicare visivo è speculare nel senso che è ascoltato e veduto, ma bisogna vedere se è anche compreso e percepito. Nel fiabesco c’è sempre mimetizzata la realtà, seppure esasperata. Il lupo, l’orco, il drago, la strega rappresentano le paure che l’uomo ha dell’occulto e che realizza con la materializzazione di esseri che ha sempre temuto: il lupo che ne minaccia i greggi, l’orco che ne insidia la prole, il drago che ne imprigiona la donna, la strega che ne inganna l’anima.-
- E’ probabile, quindi, che Carroll non si sia inventato tutto a proposito della casa dello specchio?- chiesi io.
- Bisognerà fare altre ricerche su Carroll; che so, trovare delle lettere, sapere qualcosa di più circa la sua vita privata, leggere nel suo pensiero.- rispose Anna.
Presi da questi discorsi non ci accorgemmo che l’uomo con il volto marchiato sulla guancia sinistra da una “voglia” violacea ci stava osservando. Era quello stesso che una settimana prima stava leggendo “Speculi arcanum”.
Intanto fuori cominciò a piovere e l’acqua prese a cadere in modo incessante ed uguale ferendo la terra col suo pianto di gocce. Si era fatto quasi buio ed i lampioni per le vie si erano accesi di una luce che appena rischiarava le strade invase dalla pioggia che veniva giù ad avvolgere vicoli e palazzi in un manto di tristezza. Mentre fuori tutto affondava ormai nelle tenebre, dentro la mia anima, anch’essa tempestosa e combattuta, cominciò a risplendere il sole: mi ero vergognosamente innamorato di Anna.
All’uscita della Biblioteca i tuoni rotolavano possenti nell’aria, i lampi solcavano l’orizzonte che era di fuoco laggiù a mare, mentre su a San Martino incombevano nuvole nere. La pioggia cadeva a catinelle su noi due che, quando riuscimmo a prendere un autobus, eravamo ormai bagnati fino al midollo. Anna scese dal pullman qualche fermata prima di me e solo allora mi accorsi che su quel mio stesso mezzo era salito anche l’uomo dalla “voglia” violacea. Costui, anch’egli completamente inzuppato, rimase in piedi sul fondo del pullman. Le gocce gli colavano giù dalla testa e sulla guancia marchiata sembravano assumere una straordinaria brillantezza. Lì per lì non diedi molto risalto alla cosa, ma cominciai a preoccuparmi seriamente quando costui scese alla mia stessa fermata e cominciò a seguirmi.
Aveva ormai smesso di piovere, ma l’acqua defluiva ancora copiosa sotto i marciapiedi ed andava ad intasare con impeto i tombini per strada dove, sotto la luce dei lampioni, i “sampietrini” brillavano in modo singolare.
In preda ad un’indicibile angoscia allungai il passo e la mia inquietudine aumentò quando mi accorsi che fece lo stesso anche l’uomo che mi seguiva. Cominciai allora a camminare sempre più velocemente, fino a correre addirittura, ma l’altro non desisteva e prese a correre anche lui. Ormai ero giunto al portone del mio palazzo, lo aprii, m’infilai subito dentro e lo richiusi appoggiandomi con le spalle sopra. Ascoltai col cuore in gola il rumore dei passi dell’uomo che si fermò proprio davanti all’ingresso. Rimasi, allora, in attesa che se ne andasse, e non so quanto tempo trascorse senza che dall’altra parte si percepisse alcun rumore. Ad un certo punto decisi di aprire e fu allora che mi accorsi con grande meraviglia, ma anche con grande sollievo, che di quel tale non c’era più alcuna traccia.
Quando entrai in casa, ero ancora in preda a grande eccitazione ed ero talmente inzuppato d’acqua che le gocce dalla testa mi rigavano il collo, e dalle spalle scendevano giù fino in terra. Ada stava apparecchiando la tavola ed allorché mi vide depose le stoviglie che aveva in mano, mi guardò per qualche istante in silenzio, poi mi chiese:
-Un altro amico? -
- Cosa?
- Hai incontrato ancora un amico che non vedevi da tempo?- aggiunse andando in cucina.
Nel mentre riusciva con una zuppiera che depose sul tavolo, dissi con qualche imbarazzo che mi ero trattenuto a scuola per una riunione.
- Ti ho chiamato al cellulare, ma non eri raggiungibile, così ho telefonato a scuola… Non rispondeva nessuno.- disse ella portandosi le mani ai fianchi per togliersi il grembiule.
- Non so…Forse in quella stanza…Forse nessuno ha sentito…Si, nessuno avrà sentito squillare il telefono o forse…Forse lo avranno sentito ma non hanno risposto. Non è la prima volta, sai…- risi forzatamente – Certi giorni squilla per ore, ma nessuno…-
- Cambiati e mangia da solo. Io non ho fame. – rispose Ada ed andò via lasciandomi in una pozza d’acqua che si era formata ai miei piedi.
La vita a due non è un qualcosa che va bene solo perché due persone si amano: è un processo molto più complesso, che interessa i due partner e che richiede un continuo investimento in energie. Con mia moglie ero sempre andato d’accordo, eravamo complici in tutte le nostre azioni. Eravamo un solo corpo nel quale, però, ognuno di noi conservava la propria libertà, la propria sicurezza, nessuno di noi due aveva la presunzione di farcela da solo. Sentivamo il bisogno ogni volta di riprendere l'analisi del rapporto dall'inizio e svilupparla poco alla volta cercando di guardare cosa c'era di buono e da lì ripartire per riappropriarsi delle situazioni che tendevano a sfuggirci di mano. Eravamo convinti che ripensare con attenzione ai vari aspetti che contraddistinguevano la vita intima di due persone poteva aiutare a trovare il bandolo della matassa. Ma quella sera Ada mi lasciò solo e restò sola; non mi rivolse più la parola e se ne andò a letto. Quando vi andai anch’io, mi accorsi che lei, girata di spalle, in realtà non dormiva. Il suo respiro era ansimante ed era intervallato da leggeri e soffocati singhiozzi di pianto. L’ascoltai gemere senza intervenire. La perniciosa spina del sospetto si era insinuata nella sua anima ed io non potevo fare nulla per alleviare il suo dolore anche se, in realtà, non avevo ancora fatto niente che potesse generarlo. Ada non aveva avuto il coraggio di chiedermi con chi fossi stato, e se lo avesse fatto io non avrei avuto il coraggio di risponderle ed avrei continuato a mentire inventandomi incontri con improbabili “Poggiolini”[3] e falsi goliardici “amarcord”[4]. La stetti a guardare per alcuni minuti, poi anch’io mi girai, spensi la luce e mi addormentai. In sogno provai un’emozione pura, certa espressione dei miei pensieri, nel rivedere quell’uomo che mi aveva seguito. Egli mi seguiva ancora cambiando continuamente forma come in un gioco di specchi: prima alto e magro, poi basso e grasso, poi ancora piccolo col collo lungo e la testa a cipolla, infine enorme ed ingobbito. Correvo e cercavo di distanziarlo, ma per quanto facessi non riuscivo a spostarmi di posto, né tanto meno colui, pur più veloce di me, riusciva mai a raggiungermi. Quando mi girai per vedere dove fosse, mi accorsi che non ero più inseguito e tirai un sospiro di sollievo, ma al primo passo me lo ritrovai davanti ed incredibilmente ne attraversai il corpo come se fosse di gelatina.
D’improvviso mi trovai in un’altra dimensione, in un mondo dove tutto era capovolto, con la terra che stava in alto ed il cielo in basso. Migliaia di gente passeggiava avanti e indietro senza sosta, a testa in giù, misurando i propri passi, condannata a muoversi da una forza oscura e incrociandosi continuamente nel loro andare ramingo. Tra tutti costoro, che non mi degnavano di alcuno sguardo come se fossi invisibile, io ero l’unico a camminare nella normale posizione eretta. In quello spazio, senza tempo né luogo, riconobbi, prima mio padre e mia madre che deambulavano sottobraccio, poi mio nonno e mia nonna che discutevano tra di loro. Mi avvicinai a loro inutilmente perché non mi vedevano, né avvertivano in qualche modo la mia presenza. Dalla loro bocca uscivano parole senza suono, i loro occhi emanavano sguardi rivolti nel vuoto e le loro orecchie ascoltavano solo un ineffabile silenzio che governava dappertutto. D’un tratto, avvolta in una nebbia che andò poi via via scemando, vidi la figura di don Paolo, il cocchiere vicino di casa ai tempi della mia infanzia. Era completamente vestito di bianco, più giovane e più magro di quando lo avevo conosciuto. Sembrò fosse l’unico a vedermi. Avanzò verso di me con passo lento e felpato, volteggiando un bastone di canna nell’aria che s’illuminò di una luce straordinariamente intensa, quasi accecante, proveniente da uno specchio lontano. Allorché mi fu vicino si fermò e disse:
-Guè guagliò, vedo che vai camminando…E’ piacevole muoversi è overo?E’ bello essere liberi di girare come ti pare. Vuoi fare un passo in avanti? Lo fai. Vuoi fare un passo indietro? Lo fai. Tutte “piccolezze” che passano inosservate, che facciamo automaticamente nella vita di tutti i giorni, ma che diventano “grandezze” quando, invece, ti accorgi di non poterle fare più.-
Non capivo.
- Ma tu non capisci è overo? Non capisci come quando eri bambino e ti parlavo del pensiero di quel tale ministro francese. Cerca di capire quello che ti dico mò: questa è la casa dello specchio dove comincia tutto ciò che finisce e finisce tutto ciò che non è mai cominciato.-
Sorrise ed indicò un'altra figura che, dapprima prese ad avanzare verso di me come ombra indistinta, poi man mano rivelò le sue sembianze: ero io stesso, con un solo particolare diverso, il neo che avevo sulla guancia destra, la figura lo aveva su quella sinistra.
Questo me stesso mi si avvicinò in maniera tale da portare la sua faccia sulla mia, e, solo quando sfiorò il mio volto, proruppe in una risata tanto fragorosa che mi svegliai in preda ad enorme agitazione.
Il sogno è l’effetto di un macchinoso processo di pensiero attraverso il quale vengono elaborate informazioni composte da due principali modalità cognitive: una linguistica ed una legata ad immagini e percezioni. Queste due caratteristiche compaiono sotto forma di “immagini sensoriali” che, secondo il loro ordine sequenziale, esprimono un significato. Ma io non seppi dare alcuna interpretazione al mio sogno, non riuscivo a trovare per esso alcuna spiegazione, se non un certo senso di colpa. Avevo sentore di essere stato fautore di un’azione riprovevole e criticabile ed ero cosciente della mia colpa, me ne assumevo le responsabilità. Avevo commesso un atto che offendeva mia moglie Ada, ed il fatto di lederne gli interessi, i bisogni ed i suoi elementi vitali rendevano la mia azione biasimevole a tal punto da farmi schernire in sogno da me stesso e da persone che avevo conosciuto ed amato. Ero reo di essermi ormai innamorato di un’altra donna, colpevole ed incolpevole allo stesso tempo di qualcosa che era accaduto, ma che non avrei voluto che avvenisse, spettatore inerme di un avvenimento che coinvolgeva il mio corpo e la mia mente.
Per un po’ vissi in una condizione di impasse che presto si tradusse nella perdita della
possibilità stessa di decidere e di agire in vista di una meta che producesse soddisfazione; impasse che mi impediva di attuare qualunque cosa e generava in me una tristezza di fondo, determinata proprio dal non poter realizzare i miei desideri e i miei progetti. Mi rasserenai solo quando, qualche tempo dopo, rividi Anna. Mi chiamò sul cellulare per invitarmi a visitare una mostra di quadri che a suo dire avrebbe suscitato in me particolare interesse. Si trattava, infatti, di una singolare esposizione di diversi autori famosi avente come titolo unico: “Le case con gli specchi”. Nella Quadreria della Pinacoteca della Reggia di Caserta, dove sono raccolti i ritratti della famiglia Borbone, erano stati esposti dipinti di Velazquez, Van Eyck, Petrus Christus, Metsys, Caravaggio, Gris ed Anselmo. L’originalità di quella mostra era caratterizzata dal fatto che in ogni opera compariva in maniera più o meno preponderante uno specchio, la cui presenza era ritenuta quasi un mito non solo nella poesia e nel romanzo, ma anche nell’arte figurativa.
Al centro del dipinto “Las meninas” del Velazquez c’era appunto uno specchio che, racchiuso in una cornice molto scura, rimandava l’immagine di una coppia di reali che l’artista stava dipingendo.
- Dentro la nera cornice vi è la prova dell’illusione. – disse Anna affascinata dal ritratto: - Noi crediamo che il riflesso spieghi il reale, mentre invece è proprio questa falsa testimonianza a scatenare il mistero del quadro, ciò che lo rende così difficile da interpretare. -
- Cosa c’è da interpretare? - chiesi io.
E lei:- Da una parte c’è uno specchio che non dice nulla del dipinto in atto e di ciò che compare nell’intera stanza; dall’altra c’è un retro, un dietro al di qua della tela. Noi siamo in questo spazio dove passa il nostro tempo. Guarda bene il quadro…- Mi prese per mano.
- Guardo…-
- Ecco! Ora siamo immersi nel tempo! Perdersi nel quadro è perdere il tempo, superare il tempo, sfuggire, dunque, alla morte…- Vacillò e mi strinse più forte la mano.
- Vedo quella coppia di reali. – dissi con grande partecipazione emotiva: - Essi, guardandosi allo specchio, ci guardano.- Restammo per qualche minuto davanti a quel quadro incantati da tanta magia artistica, poi fummo attratti dalla “ Conversione della Maddalena” di Caravaggio esposto proprio accanto.
In quell’opera erano raffigurate le Sante Marta e Maddalena accanto ad uno specchio. Marta, vestita modestamente, stava elencando alla bella ed elegante sorella, enumerandoli con le dita, i miracoli di Cristo. La decisione di convertirsi era grave, la scelta cambiava la vita. Il salto era tra la voluttà dei sensi e dei beni materiali e la virtù dello spirito, ma la scelta sembrava già avvenuta: lo specchio, simbolo di tradizionale vanità, rifletteva una luce misteriosa, un riquadro quasi abbagliante verso il quale si tendeva la mano sensuale di Maddalena. Lo specchio convesso rivelava la luce di Dio facendo scomparire ogni altra immagine riflessa. Era una luce che prendeva letteralmente fuoco, una pura luce che non proiettava altro che l’immagine di se stessa, astratta, spirituale. Mentre ci tenevamo per mano ci guardammo, ed i nostri sguardi sembravano consumarsi nel desiderio di un impossibile amore, la nostra immagine si rifletteva nella lucentezza di quella tela, in quella luce misteriosa e, come essa, sembrava irreale ed immateriale.
- “Mi prometti non so che speranza con volto amichevole e quando ti tendo le braccia anche tu me le tendi”- recitò Anna. Un istante dopo ci abbracciammo e ci baciammo.
Wayne W. Dyer[5] afferma che : “Il senso di colpa è un piccolo strumento di precisione che si può usare quando non si vuole assumere la responsabilità della propria vita”, ma io, pur arrabbiato con me stesso, pur deluso dal mio comportamento e pieno di una collera rivolta all’interno della mia mente e del mio animo, assunsi, tuttavia, la piena responsabilità dei miei atti nel momento in cui, per la prima volta, ebbi un rapporto intimo con Anna. Sapevo bene che la mia passione mi avrebbe arrecato felicità e sofferenza, ma sapevo altresì che il desiderio sessuale per quella donna mi avrebbe dato una grande possibilità di piacere e di esplorazione di me stesso di inaudita portata.
La “prima volta” non fu certo romantica. Accadde in ascensore, e galeotto fu un improvviso ammanco di energia elettrica che nelle prime ore della notte sospese la cabina dell’ascensore del suo palazzo tra un piano ed un altro. Rimanemmo completamente al buio senza dir parole, le nostre mani cominciarono, prima timidamente a sfiorarsi, poi a toccare i nostri corpi. Sentii il suo alito profumato sul mio volto e l’umido della sua bocca sulla mia, poi “ascoltai” le sue mani scivolare giù in basso e la mia anima innalzarsi in un’estasi stupenda durante la quale, per qualche attimo, il mio pensiero volò a mia moglie Ada, a cosa stesse facendo in quel momento ed a cosa le avrei poi detto, ma tutto svanì nel profumo inebriante di Anna, nel suo e nel mio piacere.
Da quel giorno i nostri incontri furono più frequenti ed il mio senso di colpa nei confronti di mia moglie si accrebbe sempre di più per effetto delle continue menzogne alle quali dovevo ricorrere e per i continui sotterfugi che dovevo mettere in pratica.
Per avere la coscienza pulita avrei dovuto confessare, ammettere a me stesso il reale fallimento del mio matrimonio, ma come avrei potuto se Ada era assolutamente incolpevole e tale fallimento era dovuto esclusivamente ad una straordinaria infatuazione che avevo di Anna? Così lasciai le cose come stavano, senza particolari confessioni, ma senza neanche ignorare i miei errori, nella consapevolezza di trovarmi in una situazione inappropriata e sbagliata: Ada ignara, ma sospettosa ed infelice da una parte ed Anna conscia, e per questo infelice, dall’altra. Ed io? Infelice e disorientato in mezzo!
[1] Pratica riequilibratrice di massaggio giapponese
[2] Lewis Carroll ovvero Charles Ludwige Dodgson 1832-1898
[3] Compagni di tanti anni fa. Da una poesia di Marino Moretti (“Poggiolini”)
[4] “Io mi ricordo” Dal titolo di un film di Federico Fellini .
[5] Wayne W. Dyer (Detroit 1940), psicologo
- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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