Scritto da © Antonio Cristof... - Mar, 08/01/2013 - 07:05
Dopo la seconda guerra mondiale, Napoli era una città distrutta materialmente e moralmente, e le crudeltà della guerra avevano impoverito lo spirito popolare anche se non avevano però scalfito la speranza che albergava nei cuori sotto le bombe alleate. Americani ed Inglesi avevano concentrato la loro opera devastatrice in special modo sul porto e sulla stazione ferroviaria dove non c’era palazzo che avesse ancora pietra su pietra, ma solo un ammasso contorto di macerie dalle quali spuntavano qua e là quelli che una volta erano comuni oggetti di vita quotidiana: un mestolo, una sedia, una bambola…
La città, si sa, dal golfo s’inerpica ad est su per la collina dei Camaldoli ed a nord per quella di Posillipo ed è suddivisa in quartieri. Tra quelli più vicini al mare c’è il quartiere Chiaia così chiamato perché una volta si estendeva su una zona interamente ricoperta di ghiaia: praticamente era una spiaggia.
Oggi, invece, è un abitacolo di gente danarosa, vip dell’alta borghesia partenopea, ed è costellato di negozi alla moda e ritrovi. Fino a qualche anno fa, però, dove oggi sorgono “boutique” e “pub”, vi erano i “bassi”, piccole e squallide abitazioni che ricettavano intere famiglie di povera gente. Affacciavano direttamente sulla strada ed erano costituiti da una sola stanza nella quale si combinavano diversi ambienti dove si mangiava, si dormiva, si faceva l’amore, si litigava, si nasceva e si moriva. Chi si inoltra ancora oggi nei quartieri Spagnoli o nei vicoletti di Montesanto, o in quelli della Duchesca e di Forcella può facilmente sbirciare, anche solo passando, la struttura di codeste “ favelas” metropolitane. In uno di questi “bassi”, al vico Belledonne, abitava mio nonno, imbianchino, con la moglie e due figli. Il nonno aveva un aspetto imponente e i capelli biondissimi tanto da essere soprannominato “’O Tedesco”. Dati i tempi che correvano c’era ben poco di che imbiancare. La città era in rovina e la gente non aveva denaro per abbellire quei muri o quelle pareti che erano rimaste miracolosamente illese.
Anche vico Belledonne era stato risparmiato dall’orrore delle bombe, ma un ordigno esploso in via Carducci, a qualche centinaio di metri, aveva scosso dalle fondamenta tutti i palazzi circostanti, e in quello dove abitava il nonno le autorità competenti accertarono lesioni tanto gravi da ordinarne l’immediata evacuazione.
Il “soppigno” non era dissimile dal “basso”; anche qui si trattava di una sola stanza multiuso. L’unica differenza era che mentre il “basso” affacciava direttamente sulla strada, il soppigno, invece, altro non era che il soffitto di un palazzo adattato ad alloggio. I nonni trovarono casa in uno di questi “soppigni”, in un edificio ubicato al numero 16 di vico Bausan a Chiaia. La “casa” affacciava, facendo quadrato con altre dello stesso tipo, su una loggetta lastricata di pece con un lavatoio sul lato destro e, poco più in là, un “gabinetto” il cui uso era condiviso tra tutti gli abitanti del posto. C’era tutta brava gente: un fotografo, due manovali ed un falegname con le mogli, due pensionati, uno stormo di bambini e due sposini. Tutte persone semplici che, sia pure tra mille stenti, sopravvivevano con quella dignità morale tipica del popolo napoletano la cui filosofia eleva la comune povertà a ricchezza spirituale. Non era questa gente, tuttavia, immune a quella superstizione che spesso costituisce parte intrigante della vita dei partenopei e ne alimenta la fantasia. A tal proposito correva voce che quell’antico palazzo fosse infestato dagli spiriti. Più di un abitante giurava, infatti, di aver udito sinistri scricchiolii fra le scale o di aver visto strani luccichii negli scantinati. Proprio mia nonna fu testimone e protagonista di un avvenimento tanto particolare da segnarne per lungo tempo la permanenza in quella casa. Il “soppigno” era stato abitato, prima di lei, da una coppia di anziani coniugi: lui fu fatto a pezzi sotto un bombardamento al largo Celebrano; lei, rimasta vedova, si arrangiava rammentando camicie e pantaloni. Non potendo neanche pagare la pur esigua pigione, ebbe l’intimazione di sfratto, e tanto fu lo sconforto che si suicidò precipitandosi dall’alto della loggia giù in vico Bausan. Questo tragico avvenimento suscitò un tale scalpore che tutti ne parlarono per diverso tempo ed il palazzo al numero 16 accrebbe ancor di più la sua fama di luogo sinistro infestato dagli spettri.
Una notte d’autunno le luci nei “bassi” e nelle case, per l’ora tardi, erano già tutte spente ed il cielo era coperto di nuvole nere. Solo qualche vecchio lampione rischiarava a malapena il vicoletto ed i riflessi serpeggiavano sulle lastre di pietra martellata della strada. Don Luigi il falegname stava rincasando stancamente dopo un’intensa giornata di lavoro nella sua bottega, quando, un attimo prima di infilare il chiavino nella toppa del portone al numero sedici, udì come un sussulto affannoso. Si girò a destra ed a sinistra: niente! D’improvviso, delle gocce d’acqua gli piovvero addosso, alzò la testa ed il suo sguardo fu allora attratto da qualcosa che volteggiava nell’aria qualche metro sopra di lui:- Madonna mia santissima!- esclamò terrorizzato quando scorse nella massa nera che pareva svolazzare nel vento i chiari tratti di un volto pallidissimo nel quale erano scavati due occhi arrossati da lacrime che venivano giù a catinelle: era il volto della vedova suicida! Lasciò il chiavino nella toppa e cominciò a correre, correre, correre. Il cuore sembrava scoppiargli in petto e dalla bocca emetteva lamenti incomprensibili, forse invocazioni d’aiuto, forse preghiere. Quando ormai non ce la fece più a correre, si fermò esausto, ed, ansimando, si appoggiò con la mano sinistra ad un muro. Si voltò indietro con la schiuma alla bocca che tolse via con la manica destra, ingoiò un paio di volte la sua stessa saliva, poi alzò la testa per vedere che cosa fosse accaduto alle sue spalle. Solo quando si accertò che nel vicolo non c’era presenza alcuna né di persone né di cose, allora finalmente si tranquillizzò.
Lentamente e con molta circospezione rifece la via e, giunto che fu all’altezza del portone, scoprì con grandissimo stupore che il chiavino si era fuso nella toppa. Quando andò a raccontare l’accaduto molti non gli credettero ed attribuirono il fatto a qualche bicchiere di troppo scolato in osteria. Certo fu che mia nonna, suggestionabile già per natura, provava sollievo al pensiero che difficilmente, anzi mai, si sarebbe trovata a passare nel vicolo nottetempo. Ma non poteva immaginare la poveretta che un episodio quasi analogo le sarebbe capitato di lì a poco in pieno giorno senza neanche muoversi di casa.
Erano le sette di una splendida mattinata di sole d’inizio primavera. Nel “soppigno” aleggiava quel magico odore di caffè che conforta quotidianamente il palato e rallegra il cuore dei napoletani. Il nonno versò il liquido in due tazzine: una la portò alla moglie ancora a letto e l’altra la tenne per sé.
- Oggi devo uscire per un lavoro – disse sorseggiando il caffè bollente. Si rase, si vestì in gran fretta, infilò la giacchetta ed uscì. I ragazzi dormivano e la nonna, ritenendo che fosse presto per donarsi alle faccende domestiche, rimase ancora a letto. Nonostante la bella giornata faceva freddo e le lastre di vetro della porta del “soppigno” che, come già detto, affacciava direttamente sulla loggia, erano ben bene appannate. Dal letto, con la porta aperta, si sarebbe potuto vedere all’esterno, ma la porta era chiusa e col vetro appannato la visibilità risultava molto ridotta, anzi si concretizzava in deformate macchie dai contorni sfumati che sembravano colorate a pastello. Ad un tratto l’attenzione della nonna fu attratta da una massa scura che cominciò ad ondeggiare fuori, come se un drappo nero portato dal vento fosse andato ad impigliarsi sulla pensilina dell’uscio. Poi parve come se il vento scemasse di colpo. D’improvviso, come se sollevato da un ascensore, un volto ceruleo si levò dietro la vetrata sulla quale la condensa cominciò rapidamente a sbrinarsi in mille goccioline che, precipitando giù, sembravano rincorrersi l’una dietro l’altra lasciando via via scoprire le sembianze della vedova suicida. La nonna avrebbe voluto gridare, ma non riusciva ad emettere alcun suono. Non poteva muoversi per lo spavento, ed ancorchè la porta del “soppigno” si aprì come sbattuta da un’improvvisa folata di vento, la poveretta fu talmente invasa dal terrore che cominciò a tremare tutta. Fuori sembrava che il tempo fosse repentinamente cambiato: da sereno qual era a buio e tempestoso. La figura, ora completamente distinguibile, rimase qualche istante immobile sulla soglia. Poi sporse il capo all’interno della casa, si guardò intorno, sorrise ed annuì alla nonna, ospite gradita in quel vecchio “soppigno” di vico Bausan.
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- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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