La sesta stanza - horror . | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La sesta stanza - horror .

- Leggenda beneventana è quella delle cosiddette “janare”, poiché nel dialetto sannita non esiste la strega. Quest’ultima è una figura letteraria, nata in età classica e giunta alla sua odierna definizione soprattutto in età moderna, grazie ai contributi della Chiesa e dell’Arte. Strega deriva etimologicamente da “stryx”, strige, notturno essere alato che si riteneva succhiasse il sangue dei bambini. Ad essa è associato il commercio col demonio. Tuttavia la strega possiede anche doti positive, come la conoscenza delle virtù curative delle erbe.
La janara nasce nella tradizione popolare, e deve etimologicamente il suo nome al latino “ianua” (porta), giacché essa è insidiatrice delle porte, attraverso le quali s’introduce nelle case. Proprio dinanzi alle porte, narra la leggenda popolare, era necessario collocare una scopa, o un sacchetto di grani di sale, così da costringere la janara a contare i fili della scopa, o i grani di sale, sino allo spuntare del sole, la cui luce le era mortalmente nemica.

Oltre che da” janua”, una diversa e interessante etimologia di janara potrebbe essere legata al mito della dianara, seguace della dea Diana, cui erano riconducibili riti notturni detti “Giochi di Diana”che si svolgevano attorno ad un noce. Il mito di quest’albero e del raduno delle streghe beneventane attorno alle sue radici, possiamo trovarli nel "Fiore", poema allegorico attribuito a Dante Alighieri, e nella favola del “Gobbo di Peretola” di Francesco Redi. Il noce sorgeva in un luogo imprecisato, lungo le sponde del fiume Sabato. Documenti appartenenti all’antica tradizione del luogo ci riportano con precisione la formula che le streghe recitavano prima del magico volo che le avrebbe condotte al mitico albero:

 

“Sott’all’acqua e sott’u viento, sott’a ‘u noce e Beneviento”.

 

Si narra che la storia delle streghe di Benevento si sia protratta almeno un millennio, a partire dal VI secolo d.C. Prima delle guerre sannitiche, la città si chiamava Maleventum. Furono i romani, dopo la vittoriosa battaglia contro Pirro, a cambiarne il nome in Beneventum. Essa fu luogo di un importante culto pagano, quello della dea Iside, dea della magia. Magie e sortilegi erano quelli operati dalla strega Teresa, di Pesco Sannita. Il noce era stato abbattuto circa settecento anni prima, ma nell’incavo del suo tronco si trovavano ancora scheletri di bambini e animali sacrificati.

Pietro Piperno (protomedico beneventano del XVII° secolo), autore del libro “Della superstiziosa noce di Benevento”, fa risalire il mito delle streghe di Benevento alla dominazione longobarda di Romualdo che, salvato dall’invasione bizantina di Costante II grazie alle preghiere di San Barbato, convinse il proprio popolo a convertirsi alla religione cristiana. Malgrado San Barbato avesse ordinato l’abbattimento del noce, le sue radici sopravvissero, e diedero continuità alla leggenda delle streghe di Benevento, che nel tempo si arricchì di nuovi motivi, fino a giungere all’età barocca, quando si narrava che ai riti orgiastici partecipassero oltre duemila streghe, ciascuna guidata da un demone, in qualità di servo ed amante.

Nei luoghi dove storia e credenza popolare sono elementi così fortemente intrecciati fra di loro, dove le streghe ancora non si sa se esistano o siano frutto di fantasticherie, si può ancora trovare chi, andando a dormire, chiuda finestre e porta, ma non per paura dei ladri. Il freddo scorrere del fiume sembra portare verso di noi, dalle lontananze dei secoli, le voci di quelle streghe che si riunivano attorno al noce: Teresa, Matteuccia, Uria, Ecate, Zucculara, Manalonga. Ma forse è solo il vento che soffia nella notte. Un semplice fenomeno fisico, semplice e naturale. In certe contrade, ci sono ancora anziani contadini che possono raccontare di aver visto l’ombra sfuggente di una janara, nelle notti ventose. Per loro il vento gelido del fiume è naturale come la presenza della janara.-.

 

Ñ

 
 

“C’era una volta una volpe che aveva tanta fame. Avendo avvistato un pollaio presso un casolare, disse: - Mannaggia la fame mia! Tu vedi quanta carne fresca e tenera si trova là dentro, e io son qua a morire di stenti! – “.

Una giovane donna raccontava questa fiaba a Krahamal, un bambino indiano di sette anni dalla pelle scura e dai capelli corvini con due occhi piccoli dal taglio tipicamente orientale. Narrava con toni ora dolci, ora accesi ed incalzanti, secondo l’andamento del racconto, così come farebbe una madre premurosa nell’intento di far addormentare il suo piccolo. Era una sera d’estate, con il fiume Calore quasi in secca. All’orizzonte il sole era ormai tramontato lasciandosi dietro una scia di colori. Nel magenta del cielo, che verso oriente, pian piano, sfumava in arancione, poi giallo, azzurro, celeste, ed infine blu, si stagliavano dritte le ombre di pali della luce, lampioni, cartelloni pubblicitari e, più in alto, sui tetti delle case, di un fitto bosco di antenne televisive con i loro fili intricati tra parafulmini e comignoli. Qua e là si accendevano luci che illuminavano i vari interni, dove qualcuno mangiava, qualche altro guardava la TV, altri ancora leggevano o scrivevano o erano intenti a mille usuali faccende quotidiane.

Una lampada dal fioco bagliore illuminava la stanza nella quale la giovane donna stava raccontando la fiaba al piccolo Krahamal. Era costei di età compresa tra i venticinque e trent’anni, dalla folta capigliatura bionda, bella di viso e di corpo. La scena sarebbe stata quella soave e placida di una mamma che cerca di far addormentare il suo bimbo, se non fosse stato per il fatto che il piccolo era imbavagliato e legato mani e piedi alle barriere del letto, e che, poco più in là, giaceva il corpo di Sumah, sua vera madre, con il cranio sanguinante e scalpato. L’appartamento, dal quale si poteva intravedere l’antico Teatro Romano, era situato in un palazzo nel centro storico, alla Via Port’Arsa. Si trattava di un edificio vetusto, le cui origini si erano perse nel tempo.

“Allora la volpe si avvicinò al pollaio, che era interamente recintato con una rete metallica, e vi girò intorno, finché non riuscì a trovare un piccolo varco.Appena fu dentro, cominciò ad inseguire le galline e le oche che starnazzavano in un fuggi-fuggi generale. E tante ne divorò che, quando andò per uscire, era così ingrassata da non poter più attraversare il varco nel reticolato. Il fattore che era nei campi, avendo sentito il gran trambusto fatto dal pollame, giunse di corsa e, vedendo l’animale prigioniero nel recinto, prese un’accetta e lo fece a pezzi. Dopo lo scuoiò, ne diede la carcassa ai porci, ed appese al muro la sua pelle.”

Il piccolo Krahamal guardava la donna con gli occhi strabuzzati, quasi fuori dalla orbite. Le sue fosche pupille giravano come impazzite nella speranza di avvistare qualcuno che venisse ad aiutarlo, e per questo voltava la testa verso il corpo inerme della madre. Ma che cosa era accaduto prima? Come mai il piccolo era legato a letto e la mamma morta?

Krahamal e Sumah venivano da Madras, porto dell’Unione Indiana sulla costa del Coromandel[1], dove Raisurh, suo padre, caricava sui mercantili in partenza per l’Europa sacchi di caffè, tè, cotone e grano, per due Rupie al giorno. Ma il poveretto si ammalò di polmonite, e dopo pochi mesi morì. Sumah vendette la casa che le aveva lasciato il padre e riuscì ad imbarcarsi per Palermo, e di lì a Napoli, dove rimase a fare la “colf” presso una famiglia per circa due anni. In seguito agli effetti della nuova legge sull’immigrazione, non avendo intenzione quella famiglia di regolarizzare la sua posizione, fu costretta ad andarsene e si spostò nel beneventano. Un suo connazionale le aveva riferito che in un antico palazzo del centro della città sannita, una ricca signora cercava una collaboratrice domestica extraeuropea, ed aveva raccomandato con insistenza che questa non dovesse essere di religione cristiana. Sumah e Krahamal erano, come l’80% della popolazione indiana, di fede induista.[2]

E proprio in ottemperanza a quel credo, Sumah era di carattere mite e gentile, onesta e laboriosa. Pur devotamente rassegnata al suo stato, ella coltivava in sé il desiderio di una vita migliore per il figlio: intendeva farlo studiare in una scuola italiana, affinché divenisse, poi, un valente medico. Per questo la sua più grande ambizione era di poter rimanere nel nostro paese in regola con le leggi vigenti. Era pronta, quindi, a conquistare la sua nuova padrona.

Quando bussò alla porta dell’appartamento sito al primo piano del civico n. 1 di Via Port’Arsa, il cuore le balzava in gola. Teneva per mano Krahaml e guardava fisso la targa in ottone inchiodata sul legno della porta. C’era inciso un nome che ella non riusciva ancora bene a leggere: “donna Teresa di Pesco Sannita”. Bussò più forte, ma non le fu aperto. D’improvviso, un grosso topo sbucò dabbasso, salì velocemente la rampa di scale provocando un sordo rumore sul marmo dei scalini, e s’infilò in un buco proprio sotto la porta. La donna esclamò qualcosa nella sua lingua e istintivamente tirò indietro Krahamal. Madre e figlio si guardarono in faccia, poi, Sumah, avendo udito dei rumori provenire dall’interno dell’appartamento, avvicinò l’orecchio alla porta, ma subito si ritrasse, perché questa, di colpo, si aprì. Apparve sull’uscio donna Teresa, bionda, bella, affascinante, dallo sguardo morboso ed ammaliante. Ella si muoveva con grazia e con una lentezza innaturale, misurando pacatamente ogni suo gesto. Era tutta vestita di nero, con un abito lungo, merlettato, che le scendeva, sfaldato, fin sopra le caviglie.

- Siiii? – disse, dando la netta sensazione di sapere già chi fossero e cosa volessero l’indiana ed il piccolo. Con un’italiano stentatissimo, Sumah rispose: - Io saputo tu cerca colf…-

- Oh, si! Ho proprio bisogno di una collaboratrice! Da dove vieni?

- Io…Madras su Coromandel. Io…Union Indiana. Saputo, tu cerca donna no cristiana…Io induista…Karma, Visnu, Siva, Brama…-

- Bene, bene…- disse con enfasi la signora e poi, rivolta al bambino, aggiunse:- Questo bel bambino è tuo figlio?-

- Lui, Krahamal, si, figlio…- rispose, sorridendo, Sumah.

- Bello, gentile e grazioso! – E così dicendo, donna Teresa accarezzò i capelli del piccolo, poi, lentamente, con morbosità, quelli di Sumah, che sfiorò con la punta delle dita, come se si trattasse di una stoffa rara.

- La casa è composta da cinque stanze ed uno stanzino più piccolo, un vero e proprio stambugio nel quale, comunque, ci vanno comodamente due lettini. Vi ci adatterete.- disse donna Teresa:- Ogni stanza ha due balconi. Tu, donna, ti occuperai delle faccende domestiche, e tu, piccolo, baderai alle commissioni esterne che via via ti affiderò. C’è una sesta stanza in cui sono custoditi effetti prettamente personali. Essa è sempre chiusa a chiave. Girate pure liberamente per la casa, ma non osate avvicinarvi alla sesta stanza! -

Nei giorni che seguirono, donna Teresa si dimostrò sempre comprensiva e premurosa nei riguardi dei due indiani, che, pur sentendosi a loro agio, non poterono fare a meno di notare certe stranezze della nobildonna, come ad esempio le vivande di cui ella si cibava: sempre ed esclusivamente carne di vitellino da latte, senza sale, appena, appena rigirata sulla griglia o, addirittura, cruda con il conforto di erbe aromatiche, delle quali si rivelò essere ottima conoscitrice, in special modo di quelle medicamentose. Un giorno disse: - Le piante riescono a sintetizzare un numero enorme di sostanze complesse riproducibili solo a volte in laboratorio. I loro poteri terapeutici erano già noti molti secoli prima di…- avrebbe voluto pronunciare il nome di Cristo, ma esitò e continuò in altro modo il discorso: - Possiamo alleviare i nostri malanni con le piante. Siamo praticamente circondati da piante terapeutiche. L’ ”Achillea Millefoglie”, ad esempio, è una tra le più comuni. Le sue false ombrelle bianche, talora rosse, fioriscono da maggio alla fine dell’autunno lungo le strade, nei terreni incolti, nei coltivi, nelle sodaglie. E’ utile nei mal di stomaco acuti e cronici, nelle dispepsie con fermentazioni, negli stati di atonia generale.-.

Krahamal e sua madre l’ascoltavano incantati da tanta conoscenza, anche se, per la verità, ci capivano ben poco. Essi restarono particolarmente impressionati quando la donna, alzando le braccia al cielo, pronunciò con voce cupa: - “Acorus Calamus”!- poi, vedendo la faccia sbigottita dei suoi ascoltatori, proruppe in una lunga risata di scherno e continuò: - No, non è una formula magica. L’ ”Acorus” è il “Calamo Aromatico”, un erba che cresce in aree umide e paludose, adatta a trattare numerosi malanni, tra cui l’artrite reumatoide l’epilessia e la gastrite. Ma fra tutte, la più fantastica è certamente la “Serenoa repens”, un arbusto palmato che cura, pensate, l’ipertrofia prostatica.-Donna Teresa manifestò loro anche una non comune conoscenza di chimica, aritmetica, geografia e storia, in particolar modo dell’area beneventana. Così la vita dei due indiani trascorreva felice e beata tra l’apprendimento delle guerre romane contro i Sanniti, della scissione dell’atomo, della regola di Ruffini, finché una notte…

 

            Erano da poco passate le due, quando Krahamal fu svegliato da strani e continui gemiti che provenivano dalla camera della padrona. Si alzò dal letto, diede uno sguardo alla mamma che dormiva nel lettino accanto e, scalzo, si avviò nel corridoio.  Nell’attraversare al buio, mise il piede su un chiodo che doveva essergli caduto il mattino prima, quando aveva fissato un quadro da una parete. Puntosi, per il dolore cominciò a saltellare, poi, poggiando l’arto solo sul calcagno, raggiunse la camera di donna Teresa. Ella dormiva in un letto più grande di un comune talamo matrimoniale. Pur avendo a disposizione diversi cuscini sparsi qua e là, non poggiava la testa su nessuno di essi. Una vestaglia nera, trasparente le copriva appena il corpo giovane, flessuoso, sexy, ammaliante. Era bellissima! Si girava e rigirava tra le coltri ansimando:- Omne male percusiccio, omne male stravalcaticcio, omne male fantasmaticcio, d’eco el toglia et l’arecoglia et non noccia ad Cristiano…- Poi, madita di sudore, urlò freneticamente:- No! La “forca dell’eretico”, no! – Si contorceva come in preda a spasmodico dolore:- Confesso! Confesso d’aver amato Lucibello unta di grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini! Confesso!- Si svegliò di soprassalto con un grido tremendo che fece sobbalzare Krahamal. Subito si ricompose, si asciugò il sudore con un fazzoletto di seta e, senza preoccuparsi minimamente di coprire la nudità dei seni, che nell’agitazione erano balzati fuori dalla vestaglia, attirò il bambino a sé, lo fece sedere sul letto e disse:- Krahamal, dolcezza, sei venuto a trovare la padrona? Hai sentito la mia voce? Hai ascoltato le mie parole? Sognavo, sai. Sognavo di gente che mi faceva del male, uomini in nero, incappucciati, terribili! Servi di Santa Romana Chiesa che, nel nome del loro dio, commettevano nefandezze innominabili, e devastavano ed ammazzavano e violentavano!  Hanno annientato intere popolazioni nel nome della loro fede. Oggi, qualcuno ha chiesto perdono ai morti. Ma non può esservi perdono per chi ha torturato! Per chi ha depredato! Per chi ha calunniato ed ucciso deliberatamente!- Strinse la testa del bambino contro il suo seno:- Tu non sei cristiano, Krahamal. Non sei, dunque, figlio del peccato. Nessuno si è immolato per la tua redenzione. Sei libero da ogni preconcetto, sei…- S’avvide che il piede del bambino sanguinava:- Oh, povero piccolo! Ti sei fatto male! E’ l’anima che sgorga col sangue! E’ il presente che addiviene futuro e si tramuta in fondamento senza tempo, luogo e forma divenendo “non essere” senza principio e senza fine.- Così dicendo, si chinò ai piedi del bambino come in preda ad una lieve crisi epilettica, e cominciò a succhiargli il sangue.

            Da quella volta, tutte le notti, Krahamal faceva un sogno strano nel quale si ritrovava a camminare lungo le sponde del fiume Sabato, ad un certo punto attraversava una gola, si trattava dello stretto di Barba, che realmente si incontra sulla strada per Avellino, terra magica, attorno a Benevento, dove tutt’oggi storie e mito si fondono nelle credenze popolari, secondo le quali i folletti infestano questo luogo. Ad un certo punto il bambino giungeva in una piccola radura nel cuore di un boschetto, qui troneggiava un antico noce dai rami spogli e rinsecchiti. Intorno all’albero danzavano una moltitudine di donne giovani e belle, tutte completamente nude. Esse si tenevano per mano e gridavano parole incomprensibili per Krahamal, ma che in realtà erano volgari bestemmie e indicibili rimbrotti. Ad un tratto zittivano tutte: in mezzo ad esse, volteggiando su un manico di scopa, scendeva donna Teresa che, prima, le esortava a dire in coro: “Sott’all’albero, sott’’o viento, sott’’o noce ‘e Beneviento”, poi, ripartiva, seguita dalle altre, tutte a cavallo di manici di scopa. Le loro ombre sfrecciavano veloci sul grande disco di una pallida luna piena, per poi sparire nell’oscurità.

            Una notte il sonno di Krahamal era particolarmente agitato. Fuori pioveva a catinelle ed il lampeggiare delle saette si alternava con il rotolare del rombo dei tuoni.  Il rumore continuo dello scroscio della pioggia copriva quello delle fronde mosse dal vento forte ed insistente. Il bambino fu di schianto svegliato da una folata che di colpo aprì il finestrino della stanzetta: qualcuno o qualcosa si aggirava per quel piccolo ambiente. Era una figura indistinta, quasi invisibile, della quale riusciva solo a scorgerne i contorni appena percettibili in un linfatico e spettrale alone. Quando avvertì il tatto di una mano gelida che gli carezzava il viso, lanciò un urlo che svegliò di soprassalto Sumah. Da quella notte il bambino deperiva giorno per giorno, come in preda ad una misteriosa malattia. Era sempre più pallido, anemico,   anoressico e svogliato, tanto che la madre decise di farlo visitare da un medico, e proprio donna Teresa le fornì l’indirizzo di uno specialista dal quale recarsi a sue spese.

-Apparentemente questo bambino non ha nulla di particolare. Le analisi effettuate ci dicono che è microcitemico, ma il suo organismo è forte. Deve esserci qualcosa che lo turba, che lo tiene in ansia. Forse ha sentito o veduto cose che ne hanno sconvolto la fragile mente. – disse il medico.

Nei giorni che seguirono, anche Sumah fu vittima di strani sintomi, effetti di una causa che le procurava un progressivo disfacimento della capigliatura, sempre più esigua ogni mattina per la caduta o lo spezzamento dei capelli. Ad ogni levar del sole la donna notava ciocche dei suoi capelli sparsi sul letto e nello stanzino dove dormiva.

Trascorsero due anni, durante i quali la buona salute di Krahamal era molto alterna ed incerta. Egli aveva undici anni, e frequentava, ora, la quinta elementare in una scuola del centro beneventano, nella quale aveva imparato a scrivere, leggere e parlare abbastanza bene l’italiano. Sua madre Sumah continuava a perdere i capelli; ciononostante, la sua chioma era ancora bella e folta. Donna Teresa, spesso, andava via per lunghi periodi, e la casa era completamente affidata ai due indiani.

            Un giorno, durante una delle assenze della padrona, Sumah aveva incaricato suo figlio di spolverare mobili e suppellettili nella stanza della signora. Il ragazzo, nel passare uno straccio sopra un comò, urtò inavvertitamente un cofanetto, un grosso portaoggetti d’argento, che, nel cadere, perse il coperchio e lasciò scorgere all’interno l’incisione di una scritta in latino volgare: “Unguento, unguento, mandame alla noce de’ Benevento, supra acqua et supra ad vento et supra ad omne maletempo.” All’interno del cofanetto c’erano un barattolo di grasso scuro e maleodorante ed una grande chiave di ferro. Krahamal intuì che doveva essere quella che serviva aprire la porta della sesta stanza.

La curiosità fu ben più forte del senso civico del bambino, così, dopo averci pensato un solo istante, si diresse verso quella camera che non aveva mai veduto. Vi giunse, ebbe ancora un attimo di esitazione, poi infilò il ferro nella toppa e, facendo scattare con uno sforzo la robusta serratura, aprì la porta. Si trattava di un vano completamente spoglio, al centro del quale troneggiava una statua di Iside[3], dea della magia, donna bellissima raffigurata nel gesto di allattare Horus, suo figlio. Scolpita con addosso un abito lungo e stretto ai seni, portava in testa il disco solare ed un paio di lunghe corna bovine. Ai piedi della statua, all’interno di una piccola nicchia, Krahamal, vide che c’era un vecchio e consunto libro. Lo tirò fuori (si trattava di “Della superstiziosa noce di Benevento”)[4] , lo aprì e notò che sul retro della spessa copertina c’erano autografate queste parole:
“Vicino alla città de Benevento

vi son due fiumi molto rinomati:

uno Sabato, l’altro Calor del vento.

Si dicono locali indemoniati.

 

Un vecchio noce di grandezza immensa

fiorìa d’estate e fiorìa d’inverno.

Sotto di questa si tenea gran mensa

da streghe, stregoni e diavoli d’inferno,”
Sulla prima pagina lesse:

“ Santo Barbato diede l’ordine a ché lo noce, ritenuto de grande periglio, fosse deleto, e ciò fu cosa fatta. Ma quando, di poscia, il mattino in appresso, si andiede per svellare le radici, le medesime non furon più ritrovate. Qualcheduno narrò che avea veduto lo spirto dannato di Teresa di Pesco Sannita, giustiziata anni prima co’ “la forca de lo eretico” de la Inquisizione Santa, trar fora co’ la magia la gran massa intricata di radici e portarla via in volo.”

 

Voltò ancora una pagina e, quando vide raffigurata in un vecchio disegno l’esatta immagine della sua padrona, ebbe un sobbalzo e lasciò cadere il libro che andò a sbattere su un piede del simulacro. Scattò, allora, un meccanismo segreto: la statua, lentamente si spostò rivelando sotto di essa una stretta botola circolare che sembrava inghiottire una lunga scala di ferro di cui non si riusciva a vederne la fine, tanto lungo ed oscuro era il passaggio. Il bambino,nonostante fosse impaurito, fu vinto dal suo naturale spirito d’avventura e cominciò a scendere. Andava giù, passo dopo passo, senza mai arrivare; il rumore delle sue scarpe sui pioli di ferro echeggiava sinistramente. Doveva certamente essere sceso sottoterra, quando vide un tenue bagliore provenire dal fondo: era la luce di una fiaccola che, collocata in un supporto infisso nel muro, rischiarava un ampio vano nel quale il piccolo indiano balzò con un ultimo salto. Il suo respiro era affannoso, il passo era incerto. Ciononostante egli procedeva, seppur cautamente, nella sua magica esplorazione. Dall’ampio vano penetrò in un cunicolo, anch’esso rischiarato da torce. Qui, alle pareti di destra e sinistra erano fissati dei grandi anelli dai quali pendevano catene arrugginite, e grande fu lo sbigottimento del bambino quando vide che, accostate ai lati del passaggio sotterraneo c’erano delle strane macchine di legno e ferro.  Erano ordigni di tortura: la ruota, la gogna, la forca dell’eretico…   Essi giacevano ossidati, finalmente inermi, tremulamente rischiarati nel ricordo di immani sofferenze. Krahamal non riusciva a distogliere lo sguardo da quei marchingegni, ne avvertiva il loro muto orrore, anche se non capiva cosa essi fossero veramente. Intanto, piano,piano il cunicolo si allargava sempre di più, fino a divenire un ambiente vasto ed alto. Qui il piccolo indiano lanciò un grido di terrore, quando scorse, all’interno di nicchiette scavate nei muri, scheletri di bambini, piccoli teschi, femori, clavicole, mucchi di minuscole ossa ammassate in siti stretti e polverosi, sorvegliati, di fronte, da animali imbalsamati: corvi, gufi, civette, pipistrelli con le ali inchiodate alle pareti. Il suo passo divenne, allora, più spedito, la sua incredibile ricerca più spasmodica. Cominciò addirittura a correre, finché non giunse in un vano ancora più grande, nel quale si trovava un altro simulacro. Era una statua di Diana, dea della caccia. Ella reggeva con la destra un arco e sul suo braccio sinistro era appollaiato uno strige[5]. Sulla base della statua c’era incisa un’altra scritta:

 

“MATER DIANA

NOSTRO VOLO LEGIO FACE

ET CORPORES NOSTRI

SECUNDO TUA VOLUNTADE

TENET”[6]

 

Dopo l’ultima nicchia, Krahamal scese una serie interminabile di scalini, dal fondo si scorgeva una luce intensissima che rischiarava a giorno l’ambiente. Alla fine della scalinata si ritrovò in un largo corridoio, e su un lato di questo scorse altre cinque nicchie, questa volta vuote. Alla base di ognuna di esse, scolpito nella pietra, c’era inciso un nome: Zucculara, Manalonga, Uria, Ecate, Matteuccia[7]. Il corridoio sboccò in una gigantesca piana sotterranea rischiarata al centro, e tutto intorno, da centinaia di candele accese; il calore era soffocante; la puzza dell’umido che si scontrava col caldo era intensa; la cera, fusa in gran quantità, colando in terra, aveva delineato dovunque bizzarre figure che sembravano sorgere dal sottosuolo. Dal soffitto, invece, pendevano, intricate e pietrificate, come un’enorme, orrenda e scheletrica mano dalle cento dita, le radici del noce di Benevento citate nel libro trovato da Krahamal. Egli restò esterrefatto dinanzi a tanta mistica grandiosità, poi la sua attenzione fu attirata da battiti d’ali che provenivano da uno dei siti attraversati nel cammino precedente. Erano quegli orribili pipistrelli imbalsamati che, incredibilmente, pian piano, riprendevano vita. Con essi cominciarono a muoversi, roteando le teste ed agitando le ali, i corvi, i gufi e le civette. In breve ridivennero padroni dei loro corpi e del loro movimento. I pipistrelli staccarono violentemente le nere estremità che erano inchiodate ai muri e cominciarono a svolazzare minacciosamente, subito seguiti dagli altri volatili. Sfrecciavano ripetutamente a pochi centimetri dal volto del bambino, che cercava di difendersi con le mani, ed emettevano terrificanti stridii. Poi presero ad attaccarlo, beccandolo sul collo, sulla testa, sul viso, e quando sembrò che egli stesse per cedere, si fermarono e volarono via, scomparendo nell’oscurità dei cunicoli. Fu allora che quelle figure di cera presero forma e divennero cinque bellissime donne che circondarono il piccolo indiano e, tenendosi per mano in girotondo, intonarono la filastrocca: “ Sott’all’albero e sott’’o viento, sott’’a ‘o noce ‘e Beneviento.” Mentre cantavano, pian piano si tramutarono in orrende megere, il cui corpo cominciò a levitare in aria.

Spaventato a morte, il piccolo Krahamal rifece a ritroso forsennatamente il percorso che lo aveva portato in quella piana sotterranea.  Le cinque janare lo inseguirono volteggiando in un volo irregolare, simile a quello di alcune specie di coleotteri. Si adocchiavano, si spingevano, si pestavano e si sorpassavano ripetutamente per poter afferrare per prime il ragazzino che giunse nel cunicolo con la scala a pioli ormai stremato dalla fatica. La disperazione gli diede la forza di risalire rapidamente e spingere di colpo la porta per uscire dalla sesta stanza. Si trovò improvvisamente di fronte la figura della madre. Per un istante credette che fosse venuta a soccorrerlo, ma poi si avvide che la sua testa era stata completamente scalpata ed era tutta coperta di sangue che, a rivoli, le rigava il volto. Sumah cascò giù come un sacco di patate, scoprendo dietro di lei Teresa di Pesco Sannita che stringeva ancora tra le mani un coltello e la cotenna strappata alla donna. Fu l’ultima immagine che il bambino vide prima di perdere i sensi.

            Il suono dolce e pacato di una voce lo risvegliò: era legato sul grande letto della padrona che gli stava raccontando la favola della volpe, mentre il corpo della madre giaceva nei pressi: - “Il fattore, vedendo la volpe nel pollaio, prese un’accetta e la fece a pezzi. Dopo la scuoiò, ne diede la carcassa ai porci ed appese al muro la sua pelle.”-

Le cinque janare che avevano inseguito il bambino erano lì ad ascoltare il racconto, accovate sui mobili della stanza. Quando la narrazione ebbe termine, esse proruppero in un fragoroso sghignazzare ed in un lungo, disordinato applauso: - Bravo, bene! Bravo il fattore! – urlò Zuccolara: - L’ha squartata! L’ha squarciata! - sbraitò Manalonga. E Matteuccia, leccandosi le dita: - Cosa ne dite? Come sarà la carne di un bambino indiano? -. –E’ carne orientale, d’importazione.- intervenne Uria, lanciando occhiate d’intesa ad Ecate che ripetutamente cacciava la lingua lunga ed affinata fuori dalla bocca, come di chi sa di star per assaggiare una leccornia. Teresa guardò il bambino, gli accarezzò il corpo. Nel passare sulla pelle, le sue mani, da lisce e belle, divennero via, via orride e rugose, con unghie affilate e taglienti come lame. Tutto il suo corpo cominciò a trasformarsi fino ad assumere anch’ella le sembianze di una vecchia, decrepita arpìa.  Aprì, allora, la bocca in maniera sproporzionata, mostrando due zanne enormi e bavose che, sogghignando, avvicinò al volto del bambino. I suoi occhi pompavano sangue ed il suo sguardo: bramosia ed odio.

Fu allora che lo sferragliare sulle rotaie di un treno in corsa svegliò di schianto Krahamal. Egli si era addormentato sulla panchina della stazione ferroviaria di Benevento. Accanto a lui, la madre lo rassicurava con un dolce sorriso. Aveva sognato tutto! I due, giunti in nottata, avevano pernottato all’addiaccio nella stazione sannita. Erano, ormai, le sette del mattino, quando Sumah, esprimendosi nel linguaggio Pali[8], disse a suo figlio:- Ora è tempo di muoversi. Andremo a casa di certa Teresa di Pesco Sannita, nobildonna beneventana, che cerca una “colf”, e speriamo che mi dia lavoro.-

Prese il bambino per mano e si avviò.

Prima di uscire dalla stazione, l’attenzione di Krahamal fu attirata da una donna bellissima che parlava dolcemente ad un bambino. Riconobbe, allora, nelle sue sembianze quelle di Teresa Di Pescosannita sognata durante la notte. Tirato per mano dalla madre, fece appena in tempo ad ascoltarne le parole. Ella diceva al piccolo:

- C’era una volta una volpe che aveva tanta fame…-


[1] Importante scalo sul Golfo del Bengala

[2] L’induismo ha come testo fondamentale un poemetto inserito nel “Mahabharata o “Canto del beato” secondo il quale solo lo spirito è reale ed eterno. L’anima è costretta ad incarnarsi ripetutamente nella materia finché non si sia purificata (dottrina del Karma), sia mediante la contemplazione ascetica, sia obbedendo ai doveri della propria condizione. Una volta raggiunta la purificazione. l’anima potrà liberarsi dalla serie delle reincarnazioni e ricongiungersi con Dio (Visnu) che insieme ad altre due divinità: Siva e Brahma, da origine alla Trimurti o Triade divina.


[3] Divinità egizia simboleggiante la natura generatrice, moglie di Osiride, madre di Horus.

[4] Testo scritto da Pietro Piperno, protomedico beneventano, nel 1639


[5] Notturno essere alato che si riteneva succhiasse il sangue dei bambini.

[6] Si tratta chiaramente di latino “maccheronico” ( Oh, madre Diana, fa che il nostro volo sia leggero e appropriati dei   nostri corpi secondo tua volontà).


[7] Reali nomi di leggendarie streghe beneventane.

[8] Lingua pracritica o popolare dell’Unione Indiana.

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