Oltre che da” janua”, una diversa e interessante etimologia di janara potrebbe essere legata al mito della dianara, seguace della dea Diana, cui erano riconducibili riti notturni detti “Giochi di Diana”che si svolgevano attorno ad un noce. Il mito di quest’albero e del raduno delle streghe beneventane attorno alle sue radici, possiamo trovarli nel "Fiore", poema allegorico attribuito a Dante Alighieri, e nella favola del “Gobbo di Peretola” di Francesco Redi. Il noce sorgeva in un luogo imprecisato, lungo le sponde del fiume Sabato. Documenti appartenenti all’antica tradizione del luogo ci riportano con precisione la formula che le streghe recitavano prima del magico volo che le avrebbe condotte al mitico albero:
“Sott’all’acqua e sott’u viento, sott’a ‘u noce e Beneviento”.
Si narra che la storia delle streghe di Benevento si sia protratta almeno un millennio, a partire dal VI secolo d.C. Prima delle guerre sannitiche, la città si chiamava Maleventum. Furono i romani, dopo la vittoriosa battaglia contro Pirro, a cambiarne il nome in Beneventum. Essa fu luogo di un importante culto pagano, quello della dea Iside, dea della magia. Magie e sortilegi erano quelli operati dalla strega Teresa, di Pesco Sannita. Il noce era stato abbattuto circa settecento anni prima, ma nell’incavo del suo tronco si trovavano ancora scheletri di bambini e animali sacrificati.
Nei luoghi dove storia e credenza popolare sono elementi così fortemente intrecciati fra di loro, dove le streghe ancora non si sa se esistano o siano frutto di fantasticherie, si può ancora trovare chi, andando a dormire, chiuda finestre e porta, ma non per paura dei ladri. Il freddo scorrere del fiume sembra portare verso di noi, dalle lontananze dei secoli, le voci di quelle streghe che si riunivano attorno al noce: Teresa, Matteuccia, Uria, Ecate, Zucculara, Manalonga. Ma forse è solo il vento che soffia nella notte. Un semplice fenomeno fisico, semplice e naturale. In certe contrade, ci sono ancora anziani contadini che possono raccontare di aver visto l’ombra sfuggente di una janara, nelle notti ventose. Per loro il vento gelido del fiume è naturale come la presenza della janara.-.
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“C’era una volta una volpe che aveva tanta fame. Avendo avvistato un pollaio presso un casolare, disse: - Mannaggia la fame mia! Tu vedi quanta carne fresca e tenera si trova là dentro, e io son qua a morire di stenti! – “.
Una lampada dal fioco bagliore illuminava la stanza nella quale la giovane donna stava raccontando la fiaba al piccolo Krahamal. Era costei di età compresa tra i venticinque e trent’anni, dalla folta capigliatura bionda, bella di viso e di corpo. La scena sarebbe stata quella soave e placida di una mamma che cerca di far addormentare il suo bimbo, se non fosse stato per il fatto che il piccolo era imbavagliato e legato mani e piedi alle barriere del letto, e che, poco più in là, giaceva il corpo di Sumah, sua vera madre, con il cranio sanguinante e scalpato. L’appartamento, dal quale si poteva intravedere l’antico Teatro Romano, era situato in un palazzo nel centro storico, alla Via Port’Arsa. Si trattava di un edificio vetusto, le cui origini si erano perse nel tempo.
Il piccolo Krahamal guardava la donna con gli occhi strabuzzati, quasi fuori dalla orbite. Le sue fosche pupille giravano come impazzite nella speranza di avvistare qualcuno che venisse ad aiutarlo, e per questo voltava la testa verso il corpo inerme della madre. Ma che cosa era accaduto prima? Come mai il piccolo era legato a letto e la mamma morta?
E proprio in ottemperanza a quel credo, Sumah era di carattere mite e gentile, onesta e laboriosa. Pur devotamente rassegnata al suo stato, ella coltivava in sé il desiderio di una vita migliore per il figlio: intendeva farlo studiare in una scuola italiana, affinché divenisse, poi, un valente medico. Per questo la sua più grande ambizione era di poter rimanere nel nostro paese in regola con le leggi vigenti. Era pronta, quindi, a conquistare la sua nuova padrona.
- Siiii? – disse, dando la netta sensazione di sapere già chi fossero e cosa volessero l’indiana ed il piccolo. Con un’italiano stentatissimo, Sumah rispose: - Io saputo tu cerca colf…-
- Io…Madras su Coromandel. Io…Union Indiana. Saputo, tu cerca donna no cristiana…Io induista…Karma, Visnu, Siva, Brama…-
- Lui, Krahamal, si, figlio…- rispose, sorridendo, Sumah.
- La casa è composta da cinque stanze ed uno stanzino più piccolo, un vero e proprio stambugio nel quale, comunque, ci vanno comodamente due lettini. Vi ci adatterete.- disse donna Teresa:- Ogni stanza ha due balconi. Tu, donna, ti occuperai delle faccende domestiche, e tu, piccolo, baderai alle commissioni esterne che via via ti affiderò. C’è una sesta stanza in cui sono custoditi effetti prettamente personali. Essa è sempre chiusa a chiave. Girate pure liberamente per la casa, ma non osate avvicinarvi alla sesta stanza! -
Krahamal e sua madre l’ascoltavano incantati da tanta conoscenza, anche se, per la verità, ci capivano ben poco. Essi restarono particolarmente impressionati quando la donna, alzando le braccia al cielo, pronunciò con voce cupa: - “Acorus Calamus”!- poi, vedendo la faccia sbigottita dei suoi ascoltatori, proruppe in una lunga risata di scherno e continuò: - No, non è una formula magica. L’ ”Acorus” è il “Calamo Aromatico”, un erba che cresce in aree umide e paludose, adatta a trattare numerosi malanni, tra cui l’artrite reumatoide l’epilessia e la gastrite. Ma fra tutte, la più fantastica è certamente la “Serenoa repens”, un arbusto palmato che cura, pensate, l’ipertrofia prostatica.-Donna Teresa manifestò loro anche una non comune conoscenza di chimica, aritmetica, geografia e storia, in particolar modo dell’area beneventana. Così la vita dei due indiani trascorreva felice e beata tra l’apprendimento delle guerre romane contro i Sanniti, della scissione dell’atomo, della regola di Ruffini, finché una notte…
Erano da poco passate le due, quando Krahamal fu svegliato da strani e continui gemiti che provenivano dalla camera della padrona. Si alzò dal letto, diede uno sguardo alla mamma che dormiva nel lettino accanto e, scalzo, si avviò nel corridoio. Nell’attraversare al buio, mise il piede su un chiodo che doveva essergli caduto il mattino prima, quando aveva fissato un quadro da una parete. Puntosi, per il dolore cominciò a saltellare, poi, poggiando l’arto solo sul calcagno, raggiunse la camera di donna Teresa. Ella dormiva in un letto più grande di un comune talamo matrimoniale. Pur avendo a disposizione diversi cuscini sparsi qua e là, non poggiava la testa su nessuno di essi. Una vestaglia nera, trasparente le copriva appena il corpo giovane, flessuoso, sexy, ammaliante. Era bellissima! Si girava e rigirava tra le coltri ansimando:- Omne male percusiccio, omne male stravalcaticcio, omne male fantasmaticcio, d’eco el toglia et l’arecoglia et non noccia ad Cristiano…- Poi, madita di sudore, urlò freneticamente:- No! La “forca dell’eretico”, no! – Si contorceva come in preda a spasmodico dolore:- Confesso! Confesso d’aver amato Lucibello unta di grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini! Confesso!- Si svegliò di soprassalto con un grido tremendo che fece sobbalzare Krahamal. Subito si ricompose, si asciugò il sudore con un fazzoletto di seta e, senza preoccuparsi minimamente di coprire la nudità dei seni, che nell’agitazione erano balzati fuori dalla vestaglia, attirò il bambino a sé, lo fece sedere sul letto e disse:- Krahamal, dolcezza, sei venuto a trovare la padrona? Hai sentito la mia voce? Hai ascoltato le mie parole? Sognavo, sai. Sognavo di gente che mi faceva del male, uomini in nero, incappucciati, terribili! Servi di Santa Romana Chiesa che, nel nome del loro dio, commettevano nefandezze innominabili, e devastavano ed ammazzavano e violentavano! Hanno annientato intere popolazioni nel nome della loro fede. Oggi, qualcuno ha chiesto perdono ai morti. Ma non può esservi perdono per chi ha torturato! Per chi ha depredato! Per chi ha calunniato ed ucciso deliberatamente!- Strinse la testa del bambino contro il suo seno:- Tu non sei cristiano, Krahamal. Non sei, dunque, figlio del peccato. Nessuno si è immolato per la tua redenzione. Sei libero da ogni preconcetto, sei…- S’avvide che il piede del bambino sanguinava:- Oh, povero piccolo! Ti sei fatto male! E’ l’anima che sgorga col sangue! E’ il presente che addiviene futuro e si tramuta in fondamento senza tempo, luogo e forma divenendo “non essere” senza principio e senza fine.- Così dicendo, si chinò ai piedi del bambino come in preda ad una lieve crisi epilettica, e cominciò a succhiargli il sangue.
Una notte il sonno di Krahamal era particolarmente agitato. Fuori pioveva a catinelle ed il lampeggiare delle saette si alternava con il rotolare del rombo dei tuoni. Il rumore continuo dello scroscio della pioggia copriva quello delle fronde mosse dal vento forte ed insistente. Il bambino fu di schianto svegliato da una folata che di colpo aprì il finestrino della stanzetta: qualcuno o qualcosa si aggirava per quel piccolo ambiente. Era una figura indistinta, quasi invisibile, della quale riusciva solo a scorgerne i contorni appena percettibili in un linfatico e spettrale alone. Quando avvertì il tatto di una mano gelida che gli carezzava il viso, lanciò un urlo che svegliò di soprassalto Sumah. Da quella notte il bambino deperiva giorno per giorno, come in preda ad una misteriosa malattia. Era sempre più pallido, anemico, anoressico e svogliato, tanto che la madre decise di farlo visitare da un medico, e proprio donna Teresa le fornì l’indirizzo di uno specialista dal quale recarsi a sue spese.
Nei giorni che seguirono, anche Sumah fu vittima di strani sintomi, effetti di una causa che le procurava un progressivo disfacimento della capigliatura, sempre più esigua ogni mattina per la caduta o lo spezzamento dei capelli. Ad ogni levar del sole la donna notava ciocche dei suoi capelli sparsi sul letto e nello stanzino dove dormiva.
Un giorno, durante una delle assenze della padrona, Sumah aveva incaricato suo figlio di spolverare mobili e suppellettili nella stanza della signora. Il ragazzo, nel passare uno straccio sopra un comò, urtò inavvertitamente un cofanetto, un grosso portaoggetti d’argento, che, nel cadere, perse il coperchio e lasciò scorgere all’interno l’incisione di una scritta in latino volgare: “Unguento, unguento, mandame alla noce de’ Benevento, supra acqua et supra ad vento et supra ad omne maletempo.” All’interno del cofanetto c’erano un barattolo di grasso scuro e maleodorante ed una grande chiave di ferro. Krahamal intuì che doveva essere quella che serviva aprire la porta della sesta stanza.
vi son due fiumi molto rinomati:
Si dicono locali indemoniati.
Un vecchio noce di grandezza immensa
Sotto di questa si tenea gran mensa
“ Santo Barbato diede l’ordine a ché lo noce, ritenuto de grande periglio, fosse deleto, e ciò fu cosa fatta. Ma quando, di poscia, il mattino in appresso, si andiede per svellare le radici, le medesime non furon più ritrovate. Qualcheduno narrò che avea veduto lo spirto dannato di Teresa di Pesco Sannita, giustiziata anni prima co’ “la forca de lo eretico” de la Inquisizione Santa, trar fora co’ la magia la gran massa intricata di radici e portarla via in volo.”
Voltò ancora una pagina e, quando vide raffigurata in un vecchio disegno l’esatta immagine della sua padrona, ebbe un sobbalzo e lasciò cadere il libro che andò a sbattere su un piede del simulacro. Scattò, allora, un meccanismo segreto: la statua, lentamente si spostò rivelando sotto di essa una stretta botola circolare che sembrava inghiottire una lunga scala di ferro di cui non si riusciva a vederne la fine, tanto lungo ed oscuro era il passaggio. Il bambino,nonostante fosse impaurito, fu vinto dal suo naturale spirito d’avventura e cominciò a scendere. Andava giù, passo dopo passo, senza mai arrivare; il rumore delle sue scarpe sui pioli di ferro echeggiava sinistramente. Doveva certamente essere sceso sottoterra, quando vide un tenue bagliore provenire dal fondo: era la luce di una fiaccola che, collocata in un supporto infisso nel muro, rischiarava un ampio vano nel quale il piccolo indiano balzò con un ultimo salto. Il suo respiro era affannoso, il passo era incerto. Ciononostante egli procedeva, seppur cautamente, nella sua magica esplorazione. Dall’ampio vano penetrò in un cunicolo, anch’esso rischiarato da torce. Qui, alle pareti di destra e sinistra erano fissati dei grandi anelli dai quali pendevano catene arrugginite, e grande fu lo sbigottimento del bambino quando vide che, accostate ai lati del passaggio sotterraneo c’erano delle strane macchine di legno e ferro. Erano ordigni di tortura: la ruota, la gogna, la forca dell’eretico… Essi giacevano ossidati, finalmente inermi, tremulamente rischiarati nel ricordo di immani sofferenze. Krahamal non riusciva a distogliere lo sguardo da quei marchingegni, ne avvertiva il loro muto orrore, anche se non capiva cosa essi fossero veramente. Intanto, piano,piano il cunicolo si allargava sempre di più, fino a divenire un ambiente vasto ed alto. Qui il piccolo indiano lanciò un grido di terrore, quando scorse, all’interno di nicchiette scavate nei muri, scheletri di bambini, piccoli teschi, femori, clavicole, mucchi di minuscole ossa ammassate in siti stretti e polverosi, sorvegliati, di fronte, da animali imbalsamati: corvi, gufi, civette, pipistrelli con le ali inchiodate alle pareti. Il suo passo divenne, allora, più spedito, la sua incredibile ricerca più spasmodica. Cominciò addirittura a correre, finché non giunse in un vano ancora più grande, nel quale si trovava un altro simulacro. Era una statua di Diana, dea della caccia. Ella reggeva con la destra un arco e sul suo braccio sinistro era appollaiato uno strige[5]. Sulla base della statua c’era incisa un’altra scritta:
“MATER DIANA
ET CORPORES NOSTRI
TENET”[6]
Dopo l’ultima nicchia, Krahamal scese una serie interminabile di scalini, dal fondo si scorgeva una luce intensissima che rischiarava a giorno l’ambiente. Alla fine della scalinata si ritrovò in un largo corridoio, e su un lato di questo scorse altre cinque nicchie, questa volta vuote. Alla base di ognuna di esse, scolpito nella pietra, c’era inciso un nome: Zucculara, Manalonga, Uria, Ecate, Matteuccia[7]. Il corridoio sboccò in una gigantesca piana sotterranea rischiarata al centro, e tutto intorno, da centinaia di candele accese; il calore era soffocante; la puzza dell’umido che si scontrava col caldo era intensa; la cera, fusa in gran quantità, colando in terra, aveva delineato dovunque bizzarre figure che sembravano sorgere dal sottosuolo. Dal soffitto, invece, pendevano, intricate e pietrificate, come un’enorme, orrenda e scheletrica mano dalle cento dita, le radici del noce di Benevento citate nel libro trovato da Krahamal. Egli restò esterrefatto dinanzi a tanta mistica grandiosità, poi la sua attenzione fu attirata da battiti d’ali che provenivano da uno dei siti attraversati nel cammino precedente. Erano quegli orribili pipistrelli imbalsamati che, incredibilmente, pian piano, riprendevano vita. Con essi cominciarono a muoversi, roteando le teste ed agitando le ali, i corvi, i gufi e le civette. In breve ridivennero padroni dei loro corpi e del loro movimento. I pipistrelli staccarono violentemente le nere estremità che erano inchiodate ai muri e cominciarono a svolazzare minacciosamente, subito seguiti dagli altri volatili. Sfrecciavano ripetutamente a pochi centimetri dal volto del bambino, che cercava di difendersi con le mani, ed emettevano terrificanti stridii. Poi presero ad attaccarlo, beccandolo sul collo, sulla testa, sul viso, e quando sembrò che egli stesse per cedere, si fermarono e volarono via, scomparendo nell’oscurità dei cunicoli. Fu allora che quelle figure di cera presero forma e divennero cinque bellissime donne che circondarono il piccolo indiano e, tenendosi per mano in girotondo, intonarono la filastrocca: “ Sott’all’albero e sott’’o viento, sott’’a ‘o noce ‘e Beneviento.” Mentre cantavano, pian piano si tramutarono in orrende megere, il cui corpo cominciò a levitare in aria.
Il suono dolce e pacato di una voce lo risvegliò: era legato sul grande letto della padrona che gli stava raccontando la favola della volpe, mentre il corpo della madre giaceva nei pressi: - “Il fattore, vedendo la volpe nel pollaio, prese un’accetta e la fece a pezzi. Dopo la scuoiò, ne diede la carcassa ai porci ed appese al muro la sua pelle.”-
Fu allora che lo sferragliare sulle rotaie di un treno in corsa svegliò di schianto Krahamal. Egli si era addormentato sulla panchina della stazione ferroviaria di Benevento. Accanto a lui, la madre lo rassicurava con un dolce sorriso. Aveva sognato tutto! I due, giunti in nottata, avevano pernottato all’addiaccio nella stazione sannita. Erano, ormai, le sette del mattino, quando Sumah, esprimendosi nel linguaggio Pali[8], disse a suo figlio:- Ora è tempo di muoversi. Andremo a casa di certa Teresa di Pesco Sannita, nobildonna beneventana, che cerca una “colf”, e speriamo che mi dia lavoro.-
Prima di uscire dalla stazione, l’attenzione di Krahamal fu attirata da una donna bellissima che parlava dolcemente ad un bambino. Riconobbe, allora, nelle sue sembianze quelle di Teresa Di Pescosannita sognata durante la notte. Tirato per mano dalla madre, fece appena in tempo ad ascoltarne le parole. Ella diceva al piccolo:
[1] Importante scalo sul Golfo del Bengala
[2] L’induismo ha come testo fondamentale un poemetto inserito nel “Mahabharata o “Canto del beato” secondo il quale solo lo spirito è reale ed eterno. L’anima è costretta ad incarnarsi ripetutamente nella materia finché non si sia purificata (dottrina del Karma), sia mediante la contemplazione ascetica, sia obbedendo ai doveri della propria condizione. Una volta raggiunta la purificazione. l’anima potrà liberarsi dalla serie delle reincarnazioni e ricongiungersi con Dio (Visnu) che insieme ad altre due divinità: Siva e Brahma, da origine alla Trimurti o Triade divina.
[3] Divinità egizia simboleggiante la natura generatrice, moglie di Osiride, madre di Horus.
[4] Testo scritto da Pietro Piperno, protomedico beneventano, nel 1639
[5] Notturno essere alato che si riteneva succhiasse il sangue dei bambini.
[6] Si tratta chiaramente di latino “maccheronico” ( Oh, madre Diana, fa che il nostro volo sia leggero e appropriati dei nostri corpi secondo tua volontà).
[7] Reali nomi di leggendarie streghe beneventane.
[8] Lingua pracritica o popolare dell’Unione Indiana.
- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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