Filino, spirto gentil | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Filino, spirto gentil

 FILINO, SPIRTO GENTIL   - brano tratto dal mio romanzo  LA CASA DELLO SPECCHIO
 
 
           L’esistenza di una Napoli sotterranea fu determinata dalla conformazione morfologica e geologica del territorio, composto da una roccia di tufo particolarmente leggera, friabile e stabile.
Sulla sorte del sottosuolo napoletano incise fortemente il fatto che tra il 1588 e il 1615, per evitare l’espansione incontrollata di Napoli, furono emanati alcuni editti che proibivano l’introduzione in città di materiale da costruzione. Fu allora che i cittadini pensarono bene di estrarre il tufo dal sottosuolo, dove, con tecniche particolari che ne garantivano la stabilità, aprirono ampie volte ed interminabili cunicoli sui cui muri sono ancor oggi graffite pagine di storia, nomi e caricature di personalità di varie epoche, soldati di diverse nazioni, date ed esternazioni di chi, costretto a restare in quei luoghi, tramandò ai posteri le sue considerazioni, alcune delle quali, scritte con una matita, appartengono nientemeno che all’anziano usciere della Vicarìa don Michele Diddio.
           Costui (la cui personalità definivo emblematica e per la cui immagine, non so perché, provavo un’arcana ripugnanza) abitava proprio in via Tribunali, in un palazzo adiacente la chiesa di San Lorenzo sotto la quale si trovano resti di mure greche. Da ragazzino entrò nei sotterranei spinto dall’idea di poter così penetrare nel regno dei morti ed incontrarvi il padre e la madre prematuramente scomparsi:
- ‘A gente scendeva sotto terra pe’ trovà cose preziose. – ci raccontò quella volta che lo incontrammo in pizzeria: - Io, no. Io non volevo trovare né ricchezze e né antichità. Io tenevo bisogno di scavare dentro l’anima mia pe’ capì, pe’ vivere meglio. Per questo mi pensavo che scendendo là sotto avesse pututo trovà a mammà e papà che me spiegassere chelle che nun avevano avute ‘o tiempo ‘e me dicere!-
           Si perse nei meandri della Napoli sotterranea e fu ritrovato dopo quattro giorni in buone condizioni fisiche. Ai soccorritori apparve confuso e disse che era stato in compagnia dei “monacielli”, veri signori del mondo sotterraneo che avevano libero accesso a tutte le case partenopee nelle quali penetravano mediante i pozzi e i canali di scolo. Raccontò: - Si preoccupavano di salire nelle case e portarmi da bere e da magnà. Erano gentili, franchi, sfrangiusi[1], tenevano tutti lo stesso vestito fatto co’ ‘no sacco de iuta, sandali con fibbie d’argento, erano ammantati d’azzurro e coperti co’ ‘na scazzettella[2] rossa che, guai se ce la levavi da’ capa! E correvano, pazziavano, andavano di sopra, di sotto, me circondavano co’ girotondi e cantavano buttando le scazzettelle pe’ ll’aria e zompando: - “Quanto è bello il mondo, lo devo  meritare, ci voglio ritornare…” Ma…ma, accanto a questi dolci, buoni e belli ce ne stavano pure di brutti e cattivi, e uno lo incontrai proprio l’ultimo giorno che rimanetti là sotto. Era tutto ‘ngrifato di peli neri e puzzolenti[3], co’ due occhi che parevano palle di fuoco e ‘na bocca larga e dentuta comme ‘na bestia maculata e feroce. Teneva ‘na panza gonfia e sotto la panza teneva...Si, teneva ‘nu...Comme v’aggia dicere mò? Co’ licenza parlando, teneva ‘nu cazzo irsuto che faceva ‘mbressione! Si presentò qual’onda do’ mare quando ‘o cielo è scuro, ombra nera di tempesta che avanza e affonda tutto quello che si trova davanti. ‘O vedette corrermi incontro co’ la cattiveria segnata sulla faccia e la bocca schiumosa da dove uscivano solo bestemmie, e chillu coso se lo sbatteva da qua e da là. Io rimanetti fermo per la paura e isso, dint’’a ‘nu lampo, mi fu addosso. Non mi potevo più muovere, né respirà. Me mettette co’ la panza sotto. Sentivo il suo peso sopra di me e per la  puzza che lui mannava, quasi me  sbummecavo.[4]Allora gli domandai perché mi faceva tutto quello e lui mi rispose: “Solo pe’ te fa male e pe’ te fottere!”. Mi salvarono i monacielli buoni che venettero in mio aiuto e co’ tutta la loro bontà menaieno mazzate ‘a cecate[5] e lo fecero andare via.-
           Considerando i particolari ed oscuri fenomeni ai quali avevo assistito nel corso di tutta la mia vicenda, questa pur mirabolante storia di don Michele non riuscì a meravigliarmi più di tanto, tuttavia destò grande interesse in me la vicenda di Filino, il folletto che a suo dire infestava la sua casa
 Raccontava che quella sua casa era assai vecchia e che già c’era durante l’epoca del colera del 1884.
I primi sintomi della terribile malattia in Europa provennero dalla Francia. Raccontò che l’undici di luglio sul “Piccolo”[6] i napoletani che lo sapevano fare lessero questa notizia: “ Il morbo ha colpito nei giorni passati a Tolone e a Marsiglia. Tutti i francesi scappano. Ne partono settecento al giorno”.
Il colera cominciò a diffondersi in un niente, e i napoletani, che già nel 1836 erano stati colpiti da una terribile epidemia che aveva fatto diciottomila morti, cercarono qualche difesa. Ma che fare? Per le vie le autorità facevano spargere acido e segatura, ma inutilmente. Il 27 agosto ci fu la prima vittima di quel disastro: Raffaele D’Angelo di 10 anni. – Sapite vuie addò abitava? – disse Diddio – Proprio dentro casa mia!-
           Raccontò che Filino (così era chiamato il ragazzo) era il primo di tre figli di una poverissima famiglia. Il padre faceva l’aiutante tipografo per due lire al giorno, la madre, licenziata dalla fabbrica di tabacco perché incinta del terzo bambino, era serva di casa per dieci lire al mese. Alla mattina faceva due o tre miglia di cammino dal suo basso fino alla casa dei suoi padroni, scendeva le scale quaranta volte al giorno, cavava dal pozzo profondo venti secchi d’acqua, compiva fatiche tanto estenuanti che alla sera si trascinava come ombra affranta al suo basso dove il figlio più piccolo l’aspettava seduto sullo scalino dell’uscio. La mamma, non avendo altro di che sfamarlo, a due anni gli dava ancora il suo latte, e per questo, col passare del tempo, il bambino si ammalò e morì.
“Figlio mio, io t’aggio acciso! – sussurrava la mamma – Che mamma so’ stata! Figlio! E chi m’aspetta più ‘a sera ‘ncopp’’a porta?-.
Di fronte a questa morte, Filino apparentemente non ebbe alcuna reazione. Egli in un primo momento sembrò non comprendere quello che era successo, così il giorno in cui avvenne il luttuoso evento si allontanò di casa e se ne andò a giocare con una palla  di pezza nel vicolo. Nei giorni che seguirono, però, si rifiutò di accettare quello che era successo e non fece altro che piangere perché il ricordo del fratellino deceduto stimolava il suo desiderio di averlo accanto proprio ora che non era più possibile. Il suo piccolo cuore si stringeva e soffriva sempre di più e ogni tanto andava a consolare la madre accarezzandole i capelli. Ma la donna, che aveva subito l’esperienza più devastante cui una mamma possa andare incontro, entrò in depressione e poco tempo dopo morì anch’essa.  Nessuno, come i bambini, è messo da parte in modo così totale e assoluto dal dramma della morte. I bambini, spesso fino ai 10-12 anni, sono poco informati della malattia e della sua gravità, né vengono affatto preparati quando le condizioni del genitore iniziano a peggiorare. Ma è con il procedere della malattia, quando proprio i genitori diventano dei morenti, che ha luogo la definitiva estromissione del bambino. Con l’avvicinarsi della morte del padre o della madre, dovrà lasciare la propria casa e i propri affetti per essere ospitato da zii o amici affinché gli venga evitato il trauma della morte, non potrà vedere il corpo del genitore né tantomeno potrà salutarlo.  Ma per Filino non fu così: egli partecipò alla morte della madre, la vide consumarsi e finire giorno per giorno e ne raccolse l’ultimo respiro:
- Figlio mio bello…- disse la donna nel suo estremo momento di lucidità – Quello che ti ho dato è solo questa vita povera…Non tengo più nulla da lasciarti se non chesta  meraglia de ramme.[7]  Nun vale niente…ma tu portala sempre con te in ricordo di mamma tua…-Il bambino prese la medaglia appesa ad una collanina di ferro e se la mise al collo giusto un attimo prima che la donna spirasse.
In quel momento avrebbe voluto gridare: aprì la bocca nella quale confluivano copiose le lacrime dagli occhi, ma non emise alcun suono. Il suo strazio fu sordo e lungo un tempo interminabile. Qualche giorno dopo, il papà, un po' per allontanarlo da casa, un po’ per garantirgli almeno il pasto giornaliero, grazie ad un cocchiere che conosceva, lo mise a lavorare come sguattero in una casa signorile su a Capodimonte dove in cambio dei suoi servizi gli davano solo da mangiare. Ma, ahimè, il bambino, pensando al padre che intanto aveva perduto il posto di aiuto tipografo e si era messo a vendere caldarroste, ed all’altro fratellino più piccolo,  si privava di sostentamento portando quasi tutto a casa. Contribuendo a sfamarli con un piatto di maccheroni o con un cacio piccante di Crotone o ancora con ritagli di maiale, pezzi di coratella[8]o patate cotte.
            Una sera al ragazzo fu dato ordine di portare dalla strada fino in cucina una grossa cesta di pomodori. La trascinò faticosamente per terra, ma, giunto che fu, nello scendere degli scalini, il canestro sobbalzò ed alcuni pomi, cadendo, andarono ad infilarsi dietro una cassapanca  costituita da un cassone, che fungeva da sedile e da ripostiglio, e con un dorsale completato da braccioli.
Filino per recuperarli spostò leggermente e faticosamente il grosso mobile e vi sparì dietro. Proprio in quell’istante entrò una giovane serva seguita a ruota da un infoiato padrone di casa. Costui le si avvicinò, le circuì la vita con le sue braccia, la spinse su un tavolo, le alzò la gonna, le abbassò le mutande ed abusò di lei senza che questa opponesse la benchè minima resistenza.
- Ma,- raccontò don Michele – Nun ce sta inganno che nun se scopre, né tradimento che nun vene a luce! Proprio mentre tutti e due si lamentavano di piacere, ecco che un altro servo trasette nella cucina. Questo rimanette prima un poco sorpreso, ma po’ dovette pensare: “’Na vota passa Cristo annante ‘a porta!”[9]. Accussì pigliaie curagge e dicette a ‘o signore: - Belli festine che facite di nascosto de la moglie vostra! Mò, si è overo che ‘e diebbete ‘e carnevale ‘e paga ‘a quaresema[10], vuie, al massimo domani, pe’ ve’ comprà ‘o silenzio mio, mi pagate a me.-
- E quante t’avesse da’ da’?- dicette ‘o signore.
- Vedite quanta piacere ne avite avute e cuntate tanta  denare, ma nun me scuntentate…- rispunnette ‘o servo.
Allora ‘o padrone le s’avvicinaie, all’improvviso pigliaie ‘nu curtiello ‘a copp’’a tavula e alluccanne[11]: - Vedimme si ‘sta paga t’accuntenta!- Ce ‘o chiavaie ‘mpiette e le spaccaie ‘o core. Po’, cu l’aiuto da serva, pigliaie ‘o cuorpo do’ muorto, ‘o facette a piezze e ‘o menaie dint’’a ‘na fornace.-
Filino, non veduto, seguì la scena da dietro la cassapanca preso da intensa paura e da assoluto senso di impotenza. Poi, appena poté, sgattaiolò fuori, ma inavvertitamente perse la medaglietta che gli aveva dato la mamma e che  portava sempre al collo. Si trattava di una coniatura su rame battuto che rappresentava l’Arcangelo Michele che insorge contro Satana e i suoi angeli. Il trauma gli provocò un tale danno psicologico ed emozionale da fargli addirittura perdere la favella, cosicché si chiuse in un mutismo psicologico oltre che fisico e, quando a notte fonda tornò al suo “basso”, non fece capire in nessun modo al padre quel che gli era capitato. Non toccò cibo e, sentendo la sua vita minacciata dal tragico evento al quale aveva assistito, si rannicchiò in un angolo senza più muoversi neanche per andare a letto. Durante la notte non fece altro che lamentarsi e piangere, e trovò pace solo quando il fratello più piccolo lo coprì con una coperta e vi si infilò sotto con lui.
Quella notte fuori si scatenò una tempesta forte come non mai. Il vento fischiava a tutte le porte delle case del vicolo, sembrava che volesse entrare con prepotenza. Le ante di legno sbattevano violentemente  e i vetri vibravano al rombo dei tuoni. I fulmini rischiaravano con i loro bagliori la miseria di quelle stanze, piene solo d’immagini sacre. I volti dei santi s’illuminavano d’improvviso nei bui anfratti degli altarini, poi tornavano nel nulla. I due fratellini si fecero vicini vicini, uniti dal timore e dalle sofferenze. Il più piccolo cercava di parlare, di farsi coraggio, ma ad ogni rumore il suo cuore si fermava per qualche attimo.
Don Michele raccontò che Filino tornò nella casa signorile a Capodimonte solo dopo qualche settimana e solo dietro continue insistenze dell’ignaro padre.
- Sei tornato? – gli chiese il cocchiere nel cortile. – E come mai non sei più venuto? Ch’è stato? Che hai visto? Che hai sentito?- Filino lo guardava senza rispondere: - Ma che de’, hai perduto la lingua?- disse, allora, quello. Dall’alto si affacciò il padrone tutto vestito di bianco, con movenze pacate,e pacato, abbronzato nel volto, taciturno.  Appoggiò entrambe le mani alla ringhiera del balcone e diede un’ occhiata in basso incrociando lo sguardo del ragazzo.
Più tardi, in uno dei corridoi, Filino incontrò la servetta che se la intendeva con il signore e che aveva assistito all’omicidio collaborando alla scomparsa del cadavere del giovane. Questa gli si parò innanzi e gli fece ciondolare davanti agli occhi la medaglietta che aveva trovato dietro la cassapanca:
- Guarda, guarda…Quant’ è bello San Michele che combatte contro lo diavolo! Combatte contro ‘o serpe che ammalia tutta la terra!-
Poi avanzando minacciosamente verso il ragazzo, recitò a memoria:
-  “Allora sentii una voce nel cielo che diceva: - Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio poiché hanno disprezzato la vita fino a morire.”-  
In conclusione aggiunse:
- Né, bello guagliò, ma non è mica tua ‘sta meraglietta?-
Non finì neanche di parlare che si aprì una porta dalla quale uscì il padrone. Costui scrutando il ragazzo, si avvicinò alla serva, le strinse la vita con un braccio, le prese la medaglietta dalle mani, le diede un occhiata e, facendola ciondolare con un dito, esclamò: - Quanto è bello questo Arcangelo che scaccia lo diavolo co’ la lingua lunga!-  Filino fece qualche passo indietro, poi fuggì via terrorizzato.
- Anche se non ci ha più la favella, questo puo’ essere pericoloso…- Fece l’uomo.
- E come, se non po’ parlà?- rispose la donna.
- Meglio essere sicuri! – Concluse l’uomo prima di andar via.
Da quel giorno la vita di Filino  in quella casa fu un vero inferno poiché egli temeva che il padrone e la serva avessero deciso di sopprimerlo quale scomodo testimone dell’orrendo delitto perpetrato ai danni del giovane che li aveva scoperti ad amoreggiare, ed infatti non si sbagliava. Una sera  la donna lo attirò con un tranello in una stanza della casa, dicendogli che era sua intenzione restituirgli la medaglietta, ma quando il ragazzo fu nella camera trovò ad aspettarlo il padrone che lo colpì alla testa con un candelabro.
            Si risvegliò disteso in un posto buio e stretto. Non percepiva alcun rumore e a malapena riusciva a muovere le mani, con le quali cominciò istintivamente a frugare per capire dove mai potesse trovarsi. Con il pugno destro e quello sinistro urtò contro una parete di legno, così si accorse che era stato rinchiuso in una cassa e realizzò di essere stato seppellito vivo!
Fu allora che dalla sua bocca uscì un urlo tremendo: aveva riacquistato la voce e senza averne coscienza, cominciò a gridare ciò che l’istinto gli suggeriva: - Mamma! Mamma!­- Mentre era sempre più difficile e faticoso muoversi, prese a tossire e a sputare. Nella disperazione, soffocando convulsamente, provò a liberarsi tendendo i muscoli delle braccia e facendo leva sul coperchio della cassa, ma sfinito, sembrò abbandonarsi a quella orribile morte, quand’ecco che d’improvviso udì la voce lontana di qualcuno che lo chiamava: - Filino…Filino…-.
Sentì i colpi sordi di una vanga che scavava nel terreno, poi vide schiodarsi le assi della cassa che lo teneva prigioniero e vide apparire la figura del cocchiere:
- Ti ho seguito. Aggio sentito tutto e aggio  visto quello che ti hanno fatto. – disse – Io songo ‘o pate do’ giovane che hanno acciso senza pietà. Ma quanto è vero Iddio gliela faccio pagare a tutti e due!­- Lo aiutò a sollevarsi e gli disse ancora: - Mò va a casa e scordati di questa squallida storia di morte. Resto io a m’allicurdà!-[12]
- Capite? – raccontò don Michele – Filino scampò a una morte orribile per essere poi preso da un’altra altrettanto terribile. Mo si lamenta appena appena co’ ‘no filo ‘e vucella pe’ dint’’o ‘e mure della casa mia. Vervesia[13]’na canzone co’ ‘no motivo bello assai che fa:
 
“Quanto è ‘ngrato l’ommo
che nun sape preggià[14]
‘n’attimo ch’è la vita soia
dint’’a ‘st’eternità!
E quanto falla
Chi dice pe’ paure:
“Maie vurria avè veduta luce
pe nun turnà ‘int’’o scure.”!
Io campaie ‘nu murzillo[15] pe’ capì
chi saglieve e chi scenneve
dint’’a ‘stu ppoco ‘e vita che teneve
 
 . 
 
 
 
[1] Buffi
[2] Cappello
[3] Coperto di peli ispidi
[4] Vomitavo.
[5] Lo picchiarono menando mazzate alla cieca.
[6] Giornale napoletano della sera di quell’epoca.
[7] Medaglia di rame.
[8] Petto, visceri e intestini di animali
[9] Una volta sola nella vita capita la grande occasione da sfruttare.
[10] Le follie di oggi si pagano domani.
[11] Gridando.
[12] A ricordare.
[13] Sussurra
[14] Apprezzare.
[15] Pochissimo
 

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