All’improvviso, in fondo alla stanza, notai un bambino bellissimo di circa cinque anni; aveva un volto da angioletto, in netto contrasto con una foltissima e ribelle capigliatura biondo -Tiziano, che lo rendeva veramente particolare. Era in grande armonia con un giovane uomo, forse suo padre; si parlavano fitto fitto, quasi sfiorandosi il volto, e sorridevano felici.
La dolcezza di questa visione, mi sembrò di buon auspicio, e come una ninna nanna mi fece inaspettatamente cadere in un sonno profondo. Non ebbi idea di quanto avessi dormito ma, la scena al mio risveglio fu totalmente diversa. Il bambino era rimasto solo; del presunto padre, non vi era più nessuna traccia.
Si era rincantucciato in un angolo del divanetto, aveva le mani sulla bocca, per soffocare il pianto e si contorceva per non gridare. Nella stessa sala distribuiti in ordine sparso, diversi adulti erano tutti intenti a controllare le loro cartelle cliniche, e nessuno badava al piccolino.
Mi sembrò un sogno, un brutto sogno, per un istante mi chiesi persino se fossi veramente sveglia, e così mi avvicinai al bambino.
“Cosa succede?” gli chiesi sedendomi accanto.
“Mio padre, mio padre” singhiozzò, “è sparito dietro la porta bianca e non tornerà mai più!”
Il suo suo dolore mi turbava davvero, faceva eco alla preoccupazione e al dispiacere che mi stava dilaniando sin dalle prime ore del mattino; al pari di lui temevo di non rivedere mai più mia sorella riapparire attraverso la grande e misteriosa porta bianca.
Il bambino era veramente certo di non riveder mai più suo padre. Era terrorizzato. La sua disperazione spezzava il cuore. Mentre cercavo di farlo parlare per calmarlo, sopraggiunse una delle signore che erano in sala, visibilmente imbarazzata dalla mancanza di attenzione rivolta sino a quel momento al bimbo come desiderosa di porvi rimedio.
Oltre ad essere imbarazzata, era ansiosa; dopo aver detto al bimbo che “non si piange”, con quel tono bambinesco che spesso gli adulti usano con i bambini, gli propose giochi dai nomi assurdi. Ovviamente il bimbo non le dava retta, aveva ben altro per la testa che giocare a dei giochi dai nomi strani, ma sostanzialmente utili alla donna per evitare il dolore del bambino, e forse anche il suo.
Sentendomi irritata quanto il bimbo dalle quelle ansiose e fastidiose proposte, le chiesi di andare a cercare il padre del bimbo oltre quella porta bianca, mentre io sarei rimasta a fargli compagnia. Intantomi rendevo conto di non sapere neanche il suo nome, non glie lo avevo chiesto, presa com’ero dalla preoccupazione per mia sorella e per lui. Si chiamava Matteo e nel dirmelo smise per un attimo di piangere.
“Perché il babbo è entrato nella porta bianca?”, gli chiesi.
“La nonna, la mamma….”, farfugliava, e non si capiva nulla, le parole gli si spezzavano in gola, aveva il respiro cosi corto quasi al limite del soffocamento.
Sperando di calmarlo, gli promisi di accompagnarlo oltre la porta per cercare suo padre. Gli spiegai che lo avremmo sicuramente, trovato, non c’erano altre uscite, il padre d’altronde, mi era sembrato in ottima salute, probabilmente chiamato in soccorso di qualcuno.
Non mi avrebbero certamente fatta entrare con il bambino, e per guadagnare tempo gli dissi che prima di cercarlo avremmo dovuto contare fino a cento, sapendo che il contare lo avrebbe calmato.
“Uno, due, tre, ….”
“Hai fatto l’albero?”, intanto gli chiedevo
“No”, mi fa lui interrompendo la conta.
“Neanche il presepe… Quest’anno non abbiamo fatto nulla!”.
Ne deducevo che dovevano esserci grossi guai in famiglia; chissà, la nonna, forse la mamma… erano probabilmente la causa della crisi del bambino. I bambini di solito si sentono sempre in colpa per qualunque avvenimento sgradevole, accada in famiglia, fanno fatica a dare un senso agli accadimenti, pensano di essere di troppo, e che sicuramente è colpa loro.
Continuavamo a contare, e nel frattempo prendevo tempo facendo domande, il suo respiro cominciava ad allungarsi, era meno affannoso e quando arrivammo a quaranta, lui gridò “Papa!”
La porta si era aperta e lui si precipitò come un fulmine in braccio a suo padre.
Mi presentai dicendogli che avevo fatto compagnia a suo figlio, poiché era stato lasciato solo e si era spaventato moltissimo. Il padre mi ringraziò e si giustificò dicendo che aveva detto al bambino che sarebbe dovuto entrare avedere la nonna, e che nel frattempo sarebbe dovuto stare buono ad attenderlo, dando per scontato che il bambino lo avrebbe fatto con facilità.
“Possibile che non abbia capito?”, replicò spazientito rivolgendosi a me e a tutti quelli che stavano a guardare.
Evidentemente il bimbo non aveva capito, altrimenti non si sarebbe spaventato a morte, gli mancavano molti elementi di comprensione. Questo genitore pretendeva che il bambino fosse più grande di quello che era, che capisse quello che non poteva capire, e sopportasse emozioni più grandi di lui; al contrario la signora, a cui avevo consigliato di andare a cercare il padre oltre la porta bianca, in corsia, parlava in bambinesco rivolgendosi al bambino pretendendo che smettesse immediatamente di piangere per andare a giocare con lei.
Notai quindi da una parte la sopravvalutazione, e dall’altra la sottovalutazione della sua condizione, avevano un comune denominatore: l’incapacità diriconoscere e rispettare lo stato emozionale di un bambino; ognuno di loro aveva il proprio “copione” mentale al quale Matteo avrebbe dovuto adattarsi per non farli sentire inadeguati e renderli felici.
Troppo spesso ai bambini viene chiesto di essere qualcun altro piuttosto che se stessi. Abitualmente viene loro richiesto l’adattamento a uno schema, che non ha nulla a che vedere con la loro realtà e la loro genuinità. Il copione viene affibbiato ed ogni “improvvisazione” e deviazione dalla parte, viene scoraggiata spesso servendosi di minacce e umiliazioni.
La nevrosi ha in fondo proprio a che fare con l’essere imbrigliati in tessuti tramati e orditi dalle ansie mal gestite o dai sogni irrealizzati di qualcun altro. I “registi”, di queste tragiche commedie sono sempre gli adulti, i genitori in particolare, che spesso si aspettano dai figli quello che loro non sono stati in grado di fronteggiare o gestire nelle loro esistenze.
I bambini fanno del loro meglio per sopravvivere e sono disposti a deformarsi come Bonsai, per soddisfare le imposizioni consce o meno dei loro genitori; non hanno molte scelte, sono costretti ad eseguire la performance nel miglior modo possibile.
Purtroppo altrettanto spesso, questi bambini, una volta cresciuti, anche quando è più facile individuare altre opzioni, finiscono con il fare l’esatto opposto di quello che i genitori avrebbero voluto, e in questo moto di ribellione cominciano a vivere secondo un nuovo copione che ha nulla, ha a che fare con la propria autenticità.
La sfida e la ribellione al condizionamento subito nell’infanzia, non ci renderanno più liberi di quando dovevamo compiacere gli altri, ma in modo diverso ci faranno continuare a vivere una vita non aderente alla nostra autentica natura. Con l’illusione di essere più liberi continueremo ad alimentare una condizione adulta di compiacenza e servilismo obbligati, secondo un nuovo “copione” che ci farà vivere invece la vita di qualcun altro.
- Blog di Antonella Iurilli Duhamel
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