Scritto da © abcorda - Mer, 08/09/2010 - 15:06
Il piccolo cortile, da sempre, era il regno di Nonna. Delimitato da mura molto alte, impastate di terra e di sudore, restava indenne agli anni di sole, al vigore trascinante delle piogge autunnali, contenuto dalla forza della terra.
Forzando sui pedali della mia pesante bicicletta, risalii la lunga salita, sino alla cima di quella collina rigata d’ocra che lo ospitava. Da lì, potevo vedere buona parte del paese. Entrai rimuovendo il moderno lucchetto che, offriva un contrasto strano, su quella porta di castagno più antica della memoria.
Con un gesto sparsi il grano tra la polvere compatta ed i sassi lucidi di sole. Le galline, si azzuffavano alla ricerca dei grani più grossi, beccandosi, sul granato delle loro creste piegate dal tempo.
Bussò sul vecchio portone sporgendosi all’interno per metà del busto.
<< curre a fizzu ‘onu … chi tzia cheret aggiudu …>>
Una dirimpettaia aveva bisogno d’aiuto. Piegata, sotto il verde del suo fazzoletto, agitava velocemente le mani screziate di bruno per dare forza e urgenza alla sua richiesta.
Viveva assieme alla sorella. Rimaste sole, accompagnavano il tempo che veniva lasciandosi cullare dalle consuetudini e dai gesti antichi che, a furia di essere ripetuti, donavano un senso di sicurezza, una confidenza confortante, tipica di chi, per ignoranza o per scelta, non ha osato rischiare nulla nella vita.
Entrai per la prima volta nella loro casa. Le spesse mura donavamo all’ambiente una piacevole frescura. Dentro, il tempo era fermo ad almeno trent’anni prima. La più giovane e attiva delle due, mi fece cenno di salire sulle scale assieme a lei. Percorremmo veloci gli scalini ripidi, neri di basalto, consunti e lucidi.
Il tavolato del piano superiore scricchiolava ai nostri passi, adesso cauti. Mi fece entrare in una piccola cameretta, disadorna. Aveva un letto su un angolo con la testiera in metallo. A lato penzolava un filo elettrico, all’estremità una piccola peretta bianca che, fungeva da interruttore per la lucida lampadina appesa ad una trave del soffitto. Un vecchio calendario di frate indovino, datato ’79, sopravviveva fermo al mese di settembre, inchiodato alla parete che dava sul cortile.
Capii subito il motivo dell’aiuto, ed il perché l’anziana mi stava alle spalle tenendosi il fazzoletto fermo sulla testa.
Un imperioso barbagianni, candido di luna e con lo sguardo pietrificato, ci guardava sospettoso dall’alto.
Lo dovevo liberare, e con esso, svincolare dalla paura le anziane sorelle.
Non fu impresa semplice, ne scaturì una concitata lotta, che si prolungo in più stanze. Riuscii alla fine a catturare lo stremato pennuto e bloccarlo con l’aiuto di un sacco di juta sopra un rustico armadio pieno di polvere e di cartacce.
Trascinando l’animale dalla parte alta del mobile, cadde a terra un sottile plico di lettere ingiallite dal tempo.
Non ci feci molto caso. Pensai semplicemente che si trattasse della solita raccolta di ricordini fotografici dei morti che, ogni anno più numerosi, facevano vibrare il macabro tono de ‘s’ispirazione’ . Sette tocchi lunghissimi e distanziati fra loro che, annunciavano inesorabili la fine di un'altra vita.
Liberai l’animale che probabilmente si era calato nella casa passando dal fumaiolo. Rientrai, e trovai Letizia, la sorella più anziana, seduta sulla sua inseparabile poltrona, in grembo il plico delle lettere ingiallite. Erano accorpate da una fettuccina porpora, la stessa che alla festa di S. Antioco pongono tra le mani della statua del santo, che benedicono, e poi, in piccoli pezzetti distribuiscono ai fedeli.
Letizia aveva il volto bagnato. Le lacrime uscivano mute, seguivano i canali del volto scolpito sul perastro e si spargevano sul mento, perse tra le pieghe di un antico dolore.
Mi fece sedere. Ordinò alla sorella più giovane di offrirmi da bere.
Guardandomi attraverso le sue folte sopraciglia, mi disse che erano anni ormai che non sapeva più nulla di quelle lettere.
Perse tra la polvere antica, pensava di averle rimosse dalla memoria. E con esse quello che rappresentavano. Con un sospiro interminabile ed il suo italiano maiuscolo aggiunse:
<< non si scappa dai ricordi. Ci si può rifugiare ovunque, nei monti più alti, nelle gole più profonde, ma essi, tornano sempre. Levigati, arrotondati, forse sfumati ed imboniti, ma tornano sempre. I ricordi non si sovrappongono, e non puoi scegliere quali conservare ...>>
Mi raccontò, incoraggiata dal mio sguardo acquoso, che quelle lettere risalivano al tempo della seconda guerra mondiale. In quel tempo lei compiva diciassette anni, e con essi la grazia delle forme e l’armonia del viso.
Già non aveva più il padre. Suo fratello maggiore: Tonino, si occupava dell’educazione delle sorelle. I migliori ragazzi della sua leva, erano partiti al fronte. Questo comunque non le impediva di ricevere sovente lettere di ammiratori e pretendenti.
Ogni volta che ne arrivava una,Tonino non l’apriva nemmeno e, senza conoscere chi l’avesse spedita, la gettava tra i ceppi ardenti di sughera del loro camino.
Un giorno uguale agli altri, mentre sul vecchio tavolo della casetta del forno lei era intenta ad impastare la semola, arrivò Tonino e, senza spiegazioni, o frasi di convenienza, poggiò sul tavolo una lettera sporca di terra e aggiunse:
<< rispondi a questa! …>>
Lei lo fece. Rispose ai modi gentili, alla richiesta di Emilio di poter continuare a scriverle. Non sapeva esattamente chi fosse, non ne ricordava il viso.
La loro corrispondenza non fu folta ma, per quanto possibile, intensa e pregna del desiderio e della curiosità di potersi conoscere.
Lo conobbe dopo otto mesi. Tonino la accompagnò alla stazione.
Emilio, scese i gradini del treno tremolante, magrissimo e scavato in viso, la pelle lucida bruciata dal sole dell’Africa. Allora aveva venticinque anni ma pareva ne avesse venti di più. Reggeva sulla mano destra una piccola valigia, piena di nulla, come quello che di materiale gli era rimasto. Sulla sinistra, l’ultima lettera che le avrebbe voluto inviare prima dell’arrivo.
Non se lo spiegò mai Letizia cosa avesse quell’uomo. Cos’è che da subito la catturò in maniera così totale facendola sentire completamente sua. Era come se, nella brillantezza del suo sguardo affossato, rivedesse la melodia delle sue parole, dei versi scritti in limba tra la polvere della sabbia del deserto solo per lei.
Emilio morì di tisi quattro mesi dopo. Morì il suo corpo, leggero e sereno, non i suoi ricordi. Non le poesie di un amore semplice e totale che ogni giorno gli riferiva dal letto di morte.
Poggiando lenta la schiena sulla poltrona finì dicendo:
<< Ci sono cose, persone, che possono entrare in maniera totale nella nostra vita, con essi i loro gesti … che poi rimangono unici. >>
Il barbagianni, non scappò lontano. Risalendo la salita quella notte sentii il suo inconfondibile richiamo che suona di respiro affannoso. Poggiava fiero sul bordo del comignolo della casa delle vecchie sorelle.
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