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2 epoche

Il grandioso progetto, il progetto trascendentale che ci avrebbe traghettato in un’altra Gestalt, una nuova forma di convivenza e di civiltà, dobbiamo dire oggi, è completamente stroncato, non ne esistono più neanche le macerie, le vestigia: come una scritta runica, esse, se anche appaiono, sono indecifrabili al presente. E il presente è dislessico e non legge… Due epoche fa, restammo come abbagliati, come inebriati da quella grandiosità. Eravamo giovani e si diffondeva come una specie d’estasi palingenetica, un credo laico, assoluto, escatologico che i tempi stessero cambiando, e per sempre… Eravamo i figli del dopoguerra e l’eco dell’atroce macello che ci aveva preceduto rimbombava forte nelle orecchie di vincitori e vinti, di vittime e carnefici, di colpevoli e innocenti. Tutti consapevoli in fondo di aver messo in scena le prove finali dell’autodistruzione dell’umanità. Iniziò così l’epoca del grande progetto, l’epopea di una neo-catarsi del genere umano, senza dèi né divinità, conscia soltanto della propria possibilità umanistica di realizzare il mitico miraggio della pace perpetua, del “mondo migliore possibile”.
Ma appunto, si trattava di due epoche fa. Perché, non appena l’incubo da cui dovevamo riscattarci, il sogno atroce di Auschwitz e di Hiroshima, fu tramontato, sorse di nuovo un’alba “parallela”, per così dire, a quella che si doveva “redimere”. Nacque così ciò che trovò infine il titolo di “Thatcherismo”, e che si sarebbe dovuto invece chiamare “VonHayekismo”, dal nome del suo vero artefice. Nota bene che Von Hayek proveniva dallo stesso mondo in cui era germinato l’ottuso sterminatore di Braunau, ossia dalla medesima genia asburgica di Hitler (già, si potrebbe chiosare, ma cosa nel Novecento non è insorto di lì?). Un pensiero, quello di Von Hayek, neanche “fascista”, tutto sommato, ma spietato e crudele come il fascismo.
Questa è la seconda epoca che abbiamo vissuto e da cui ora usciamo a pezzi. Ma è stato un grande, universale avvelenamento delle coscienze, il cui prezzo, accumulato a credito per decenni, ci getta ora nell’”Orco” di cui parlava Hölderlin, ins Ungewisse, nell’incerto, in un nuovo-mondo  primordiale, più simile a “Jurassic Park” che al Paradiso Perduto. Vediamo di entrarci dentro, a gettare un’occhiata comparata nelle due ere. E questo significa che entriamo dentro un sistema dialogico, un sistema di risposte in cui, però, il primo ente risponde alla tragedia storica che gli grava da tergo, ossia si interroga positivamente su un anelito razionale, concernente la propria salvezza e quella del genere cui appartiene; e il secondo invece risponde soltanto al primo, cioè negativamente, senza cavare da se stesso alcuna indicazione, salvo l’interesse. Un interesse accecante che replica alla spinta universalistica del primo con una contro-spinta di ri-contrazione sulle pulsioni egoistiche del secondo. Nacque così, sull’onda del cosiddetto riflusso, l’idea di rincantucciarsi, dopo il crollo dell’utopia sessantottina, nella miseria morale del proprio particulare, contro la ricchezza materiale che tale abiura accordava.
Certo, si era trattato di un ideale troppo facile e troppo fragile. La promessa, per esempio, che gli orrori della guerra non si sarebbero mai più ripetuti, chi poteva garantirla? Mentre continuavano a ripetersi in URSS, e poi in Cina, e in Corea, in Vietnam, in Medio Oriente, in Africa, eccetera? Si trattava di un ideale soltanto occidentale, e solo di quella parte di occidente che intendeva usare la ragione in luogo delle armi. L’Inghilterra della “swinging London”, l’America dei campus, della Beat Generation, di Bob Dylan, la Francia del maggio parigino. E poi Berlino, Amsterdam, perfino da noi Milano e Roma, tutto l’occidente ribolliva nella contestazione della politica “muscolare” e unilaterale della guerra, fredda o tiepida che fosse. L’ideale di giovani che certo non avevano conosciuto la lotta per la vita, ma che comunque si erano posti la questione, e che comunque lottavano per una vita migliore.
Già, ma Von Hayek, e Friedman, e altri “geni” della finanza mondiale si erano giä riuniti a Mont Pelérin, nella Romandia, nel 1947, e avevano già deliberato sulla piega che avrebbero impresso alla “libera” impresa negli anni a venire. Così che quando la “Ironlady” della politica, la cupa e ottusa madame Thatcher, allieva di un allievo di Von Hayek, si installò a Downing Street, il terreno era già pronto per una nuova discesa agli inferi. Il neo-conservatorismo aveva taciuto per qualche decennio, continuando tuttavia a tramare nell’ombra. Nel timore di venire identificata con Hitler, la destra, fattispecie anglosassone, si era come nascosta fra le pieghe (quelle ricche) della società, lasciando che un qualsiasi mouvement contestatario prendesse lì per lì piede. Ciò che gli abbisognava era un apparato teorico ed epistemologico da contrapporre a quel mouvement, tale da trascinare, parimenti al precedente, le masse giovanili dalla propria parte. È questo il piatto che servì loro Von Hayek. Un ricettario economico-filosofico atto a difendere l’egoismo abbiente dall’attacco della intelligentsia.
I Neo-con ricaddero nel loro antico “vizio” protestante di incolpare i deboli della loro debolezza, di addossare ai poveri la responsabilità di essere poveri; ma stavolta forti di un decalogo teorico apparentemente inattaccabile, la Bibbia egoista del premio Nobel Friedrich Von Hayek. Le masse, specialmente anglo-americane, si convinsero che era ora di finirla con l’umanitarismo a buon mercato, con la filantropia a senso unico. E gli Americani, reduci dallo shock del Vietnam, si precipitarono ad abbracciare una nuova-vecchia ideologia che li dispensava sia da quella colpa, che da quella di arricchirsi sulle spalle altrui. Gli Hippies divennero Yuppies e, nella sfrenata corsa all’oro che ne seguì, senza remore ne pentimenti, i discorsi “terzomondisti” e quelli tipo peace, love & music, tramontarono inesorabilmente.
E così, non sapendo più cosa fosse “una cosa chiamata società” (Margaret Thatcher), cominciammo tutti insieme a percorrere la strada che conduceva all’odierno precipizio.
Di due cose specialmente Von Hayek non tenne conto (a parte la unilateralità della sua visione): che, 1), il mercato senza regole, che si attua secondo le proprie dinamiche, è una manna per tutti i figli di puttana del mondo- che si sono infatti via via insediati sugli scranni più alti, da Thatcher-Putin a Bush-Cheney, e vari, tra i quali anche il nostro avanzo di galera d’avanspettacolo, il “Pulecenella” di Arcore, e il suo scarabeo stercorario leghista. E, 2), che non esiste un terzo di umanità disposta al sacrificio per il benessere dei restanti due terzi. In un mondo di soli figli di puttana tutti sono figli di puttana, specialmente quelli che vi sono indotti dalla miseria. Non per nulla, tra i nuovi ricchi alligna la borghesia mafiosa russa, nipotina del soviet…
Questa è una colpa che nessun revisionismo cancellerà mai dal curriculum di Von Hayek: aver fornito un alibi al conservatorismo borghese, consentendogli di rialzare la testa all’indomani delle sue atroci “vittorie” belliche, le vittorie dei vincitori e dei vinti…
La sua pretesa che lo Stato non debba interferire nelle negoziazioni economiche, pena l’affioramento coatto del totalitarismo in conseguenza della inevitabile escalation di autorità cui verrebbe fatalmente sospinto dal proprio mediare, porta non ad una liberazione del soggetto economico dal dominio e dall’arbitrio della politica, ma al suo contrario, e cioè a ciò ove siamo oggi intrigati: una signoria del mercato sul mondo, una riduzione in schiavitù della polis ad opera e vantaggio  della finanza, che non sceglie per l’uomo, bensì soltanto per qualche uomo, ossia per quelli momentaneamente al vertice delle multinazionali e delle banche.
Contro tutti gli altri. Il bene esagerato, ipertrofico, dei pochi non può che recare danno a tutti gli altri. È per questo che "Occupy Wallstreet” sostiene di rappresentare il 99%- perché soltanto l’1%  degli americani detiene il 50% delle risorse. Ecco dove portavano Von Hayek e il Thatchcerismo, pur se azzeccata la critica del primo al collettivismo, al costruttivismo sociale, al socialismo. Confermando la cupa profezia dei filosofi: non c’era differenza tra capitalismo e socialismo: ambedue prima o poi sarebbero precipitati nella sventura.
E comunque con questa postilla: se lo Stato non esiste, allora niente esiste. E se anche il Far-West esercita ancor oggi un fascino irresistibile, sfido chiunque a sostenere che avrebbe preferito viverci, chissà, magari in un’aura epica e “ardita”,  piuttosto che barcamenarsi tra traffico, bollette e televisioni.
   
 

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