Scritto da © Hjeronimus - Lun, 29/08/2011 - 18:32
Keith Richards, uno dei “pendagli da forca” dei Rolling Stones, disse comunque una volta una cosa eccellente alla Winehause, morta di droga qualche settimana fa: non lasciare che la droga stronchi il tuo talento.
Poi, lei lasciò…
Ora, cosa voleva dire questo? Voleva dire che il minore, ossia la droga, era necessario aggiogarlo al maggiore, il talento. Già, ma perché Richards aveva tirato questa linea di congiunzione tra la droga e il talento? Semplice: perché germogliavano dalla medesima radice, perché traevano alimento dalla stessa irresoluzione, la medesima sanguinante crepa fra lo stare al mondo e la struttura (im)morale di questo mondo. Tra l’arte e il buttarsi via intercorre una tensione che tende in modi divergenti alla cura: far tacere il dolore trascendendolo e ipostatizzandolo in un emblema di bellezza salvata, oppure curarsi sprofondandoci dentro, abbandonandosi ad una illusoria in-versione del piacere, presto ribaltata in per-versione. Una perversione che, n.b., non sta negli atti, ma nelle intenzioni autolesionistiche deposte oltre quegli atti. Così, come non vi è nulla di liberatorio, come ci s’illuse negli anni ’60, nell’uso delle droghe per sottrarsi al cappio del filisteismo; nessuna donna sarà mai liberata dal farsi piacere l’umiliazione inflittagli dal maschio. Ossia dal rendere proprio il piacere sadico esercitatogli contro.
Come nel porno, o sul libro di Catherine M.
E dove porta questa strada? Il pungolo dell’infelicità, così sollecitato, e che nella sua fase aurorale inclinava allo spirito e al suo valore, finisce per avvoltolarsi nella propria spirale, “incurvandosi” sull’infelicità stessa, rovesciata tuttavia in un’allucinazione felice, in cui la felicità è l’aberrazione. Di modo che là ov’essa viene avvistata non c’è che squallore e mediocrità- cosa alla portata di chiunque abbia la voglia e l’occasione di varcare la soglia di chi si è abbandonato agli eccessi e agli istinti, ai “paradisi” di ebbrezze fittizie e adulterate, o a quelle “animali” della pulsione.
Nessuna “puttana” è liberata; nessuna droga avrà mai salvato chicchessia.
Poi, lei lasciò…
Ora, cosa voleva dire questo? Voleva dire che il minore, ossia la droga, era necessario aggiogarlo al maggiore, il talento. Già, ma perché Richards aveva tirato questa linea di congiunzione tra la droga e il talento? Semplice: perché germogliavano dalla medesima radice, perché traevano alimento dalla stessa irresoluzione, la medesima sanguinante crepa fra lo stare al mondo e la struttura (im)morale di questo mondo. Tra l’arte e il buttarsi via intercorre una tensione che tende in modi divergenti alla cura: far tacere il dolore trascendendolo e ipostatizzandolo in un emblema di bellezza salvata, oppure curarsi sprofondandoci dentro, abbandonandosi ad una illusoria in-versione del piacere, presto ribaltata in per-versione. Una perversione che, n.b., non sta negli atti, ma nelle intenzioni autolesionistiche deposte oltre quegli atti. Così, come non vi è nulla di liberatorio, come ci s’illuse negli anni ’60, nell’uso delle droghe per sottrarsi al cappio del filisteismo; nessuna donna sarà mai liberata dal farsi piacere l’umiliazione inflittagli dal maschio. Ossia dal rendere proprio il piacere sadico esercitatogli contro.
Come nel porno, o sul libro di Catherine M.
E dove porta questa strada? Il pungolo dell’infelicità, così sollecitato, e che nella sua fase aurorale inclinava allo spirito e al suo valore, finisce per avvoltolarsi nella propria spirale, “incurvandosi” sull’infelicità stessa, rovesciata tuttavia in un’allucinazione felice, in cui la felicità è l’aberrazione. Di modo che là ov’essa viene avvistata non c’è che squallore e mediocrità- cosa alla portata di chiunque abbia la voglia e l’occasione di varcare la soglia di chi si è abbandonato agli eccessi e agli istinti, ai “paradisi” di ebbrezze fittizie e adulterate, o a quelle “animali” della pulsione.
Nessuna “puttana” è liberata; nessuna droga avrà mai salvato chicchessia.
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