Scritto da © Franca Figliolini - Lun, 11/07/2011 - 07:37
Stamattina rispondo alla mail di una persona amica che chiede mie notizie e le dico: "Tutto bene, a parte che in questo periodo scrivo poco". Poi ripenso a quello che ho scritto e mi chiedo: ma poco quanto? Vado a vedere sul mio 'profilo' e scopro che nell'ultimo mese ho pubblicato una decina di testi. E sarebbe poco?
Riflettendoci, prima l'avrei considerato un periodo assai proficuo, dal punto di vista... ehm, poetico. Prima di cosa? Ma prima del web, ovvio dire. Prima della mia iscrizione ad un sito letterario. Due anni fa, circa.
Sono sempre stata "una che scrive": da quando ho imparato a tenere la penna in mano, ho sempre scritto "qualcosa" praticamente tutti i giorni: un pensierino, due versi, un'immagine che mi colpiva. Ma quelle che chiamavo 'poesie' o 'racconti' e finivano in un quaderno 'speciale' (o file 'speciale', quando è arrivata l'epoca dei pc) erano relativamente poche.
Adesso, so' tutte poesie, tutti racconti. Tutto pubblicabile, fatta salva qualche piccola correzione in corsa, e tutto... pubblicato. Possibile mai che sia diventata così brava da 'produrre' un testo con dignità letteraria ogni giorno? Beh, certo, l'esperienza aiuta. Difficile che scriva qualcosa di francamente brutto, se mi concedete questa piccola punta di vanagloria.
Ma qual è il punto, quale l'idea? Ah, lo so, ci risiamo... Il solito stramaledetto Hegel [il quale disse: il bello è esperienza sensibile dell'idea. Lo ripeto per chi abbia avuto la fortuna di non leggere i miei precedenti sproloqui in materia]. Che ne è del tormento e dell'estasi, della gaia scienza, dello sturm und drung e di tutti gli altri topos letterari che prima avevo sempre associato allo scrivere? O semplicemente, del quotidiano lavoro sulla parola, la fatica di cercare quella giusta, la parola-freccia?
Cosa sono diventata? E, se me lo consentite, cosa siamo diventati? Una specie di quei poeti di corte, capaci di scrivere un'ode anche quando si sbloccava l'intestino del re, dopo qualche giorno di stitichezza? Versi per ogni occasioni, siore e siori, venite, venite!
Un po' di tempo fa, in una poesia - ci risiamo! - dedicata a Fausto parlavo del rito quotidiano dell'esserci. E sì, questo è un punto. C'è anche una forma di bulimia della parola, però, di consumismo della parola.
Le parole, in questa loro reiterazione forsennata, perdono senso, diventano nulla, risuonano nulla.
Dov'è tutto questo amore di cui parliamo, tutta questa luce, tutto questo azzurro? E i gabbiani, il mare, le onde, persino la disperazione o la morte? Perdono senso, come le famiglie felici della pubblicità.
Eppure, a volte, sommessamente penso che la scrittura questo dovrebbe essere: ricerca di senso.
E qui finisco, perché ho più domande che risposte. E per non fare di questo brano un altro esempio di ciò che voglio mettere in luce.
NdA: il titolo, "Publish or Perish" [Pubblica o muori], è un'espressione del mondo accademico [anglosassone, in primis], che si riferisce alla pressione a pubblicare costantemente lavori di ricerca per ottenere una 'posizione' [un posto fisso come professore].
Riflettendoci, prima l'avrei considerato un periodo assai proficuo, dal punto di vista... ehm, poetico. Prima di cosa? Ma prima del web, ovvio dire. Prima della mia iscrizione ad un sito letterario. Due anni fa, circa.
Sono sempre stata "una che scrive": da quando ho imparato a tenere la penna in mano, ho sempre scritto "qualcosa" praticamente tutti i giorni: un pensierino, due versi, un'immagine che mi colpiva. Ma quelle che chiamavo 'poesie' o 'racconti' e finivano in un quaderno 'speciale' (o file 'speciale', quando è arrivata l'epoca dei pc) erano relativamente poche.
Adesso, so' tutte poesie, tutti racconti. Tutto pubblicabile, fatta salva qualche piccola correzione in corsa, e tutto... pubblicato. Possibile mai che sia diventata così brava da 'produrre' un testo con dignità letteraria ogni giorno? Beh, certo, l'esperienza aiuta. Difficile che scriva qualcosa di francamente brutto, se mi concedete questa piccola punta di vanagloria.
Ma qual è il punto, quale l'idea? Ah, lo so, ci risiamo... Il solito stramaledetto Hegel [il quale disse: il bello è esperienza sensibile dell'idea. Lo ripeto per chi abbia avuto la fortuna di non leggere i miei precedenti sproloqui in materia]. Che ne è del tormento e dell'estasi, della gaia scienza, dello sturm und drung e di tutti gli altri topos letterari che prima avevo sempre associato allo scrivere? O semplicemente, del quotidiano lavoro sulla parola, la fatica di cercare quella giusta, la parola-freccia?
Cosa sono diventata? E, se me lo consentite, cosa siamo diventati? Una specie di quei poeti di corte, capaci di scrivere un'ode anche quando si sbloccava l'intestino del re, dopo qualche giorno di stitichezza? Versi per ogni occasioni, siore e siori, venite, venite!
Un po' di tempo fa, in una poesia - ci risiamo! - dedicata a Fausto parlavo del rito quotidiano dell'esserci. E sì, questo è un punto. C'è anche una forma di bulimia della parola, però, di consumismo della parola.
Le parole, in questa loro reiterazione forsennata, perdono senso, diventano nulla, risuonano nulla.
Dov'è tutto questo amore di cui parliamo, tutta questa luce, tutto questo azzurro? E i gabbiani, il mare, le onde, persino la disperazione o la morte? Perdono senso, come le famiglie felici della pubblicità.
Eppure, a volte, sommessamente penso che la scrittura questo dovrebbe essere: ricerca di senso.
E qui finisco, perché ho più domande che risposte. E per non fare di questo brano un altro esempio di ciò che voglio mettere in luce.
NdA: il titolo, "Publish or Perish" [Pubblica o muori], è un'espressione del mondo accademico [anglosassone, in primis], che si riferisce alla pressione a pubblicare costantemente lavori di ricerca per ottenere una 'posizione' [un posto fisso come professore].
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