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Della trasgressione

 
Carissimi, a proposito di alcune cose che ho letto qui e altrove ultimamente, mi è venuto in mente uno scambio epistolare avuto con un mio amico (anzi, nostro amico, che voi conoscete come Hjeronimus) un po' di tempo fa (2005). Spero che H. non se la prenda se lo riproduco qui :)
 
H.
Venezia, Biennale N° 51. Di ritorno, sul treno, un tale, simpatico e interessato, mi fa se vale la pena di andarci. Gli dico: E’ tipo Gardaland, ma i “giochi” non sono fatti così bene.

Siamo a questo. Il padrone esercita il suo assolutismo in modo adeguato: non esiste alcuna libertà in nessun luogo. E ciò è tanto più evidente, e tanto più schiacciante diviene la sua vittoria su qualsiasi antagonista, proprio laddove questi dovrebbe esercitare il suo diritto, cioè nel recinto della cultura. Il padrone è padrone del recinto e ci lascia scorrazzare soltanto i suoi buoi addomesticati. Così, siccome il padrone è trasgressivo alla orditura di cui è padrone (di fatto egli contraddice alla libertà del liberismo di cui dice di essere l’araldo), lascia che sia trasgressiva la voce che gli fornisce la sua auto-rappresentazione. E la beffa, avvolgente e ineludibile, si fa planetaria. Hegelianamente, il dispotismo, di cui il padrone è portatore, fa unità con quelli (più o meno consapevolmente selezionati) che trasgrediscono alla sua morale (che, in quanto assolutamente falsa, si lascia molto volentieri trasgredire), così che il pubblico, la massa famigerata che subisce l’avvelenamento colto della “cultura”, ritiene positivamente di schierarsi al fianco degli artisti “trasgressori” e contro i falsi valori “trasgrediti”. Solo che la trasgressione della trasgressione porta all’eguale, cioè alla omogeneizzazione, che è quello che si vede alla biennale – e basta!    

I poveri artisti gabbati delle varie Kermesse internazionali si prestano al sudicio gioco di rappresentare proprio il mondo che credono di condannare, divenendone una sorta di vessillo ove vorrebbero invece (o almeno così fanno credere) abbatterlo. Di modo che quelli che ritengono di compiacersi delle loro fatiche sono proprio i “cattivi” (i padroni, i Signori) che essi credono di prendere di mira e di provocare. Il risultato è un anello “wagneriano”: buoni e cattivi formano un unico sistema circolatorio che contiene anche la propria sconfessione, per cui vi possono trovare posto sia i favorevoli che i contrari. Tutti gli altri fanno la fame, salvo che, se vogliono, possono trovar rifugio (morale) presso gli uni, ovvero, a lor piacimento, gli altri.
Il veicolo di questa beffa è la tecnologia. Gli artisti gabbati, così come il pubblico compiacente, non si rendono conto che il “mezzo è il messaggio”, così che, se usi schermi e video di marca per proclamare la tua avversione per tali marche, ciò che resta non è la tua avversione, ma la marca che hai usato per proclamarla. E addio.   

 
F.
Caro H., e’ che io sono giunta alla conclusione che la trasgressione non vale un cazzo, è il rigore quello che ci vuole. Rigore da praticare senza fanatismi ed isterismi, per quanto possibile, e con la pacata consapevolezza di tutte le volte in cui non ci si riesce o il farlo comporta una eccessiva alienazione dal resto del mondo... Il rigore non si cura di trasgredire o meno, non passa oltre per passare oltre, ma, come la gallina della barzelletta, per andare dall’altra parte.
Il capitalismo, d’altronde, non si occupa di morale, si occupa di mercati. Per esso, vendere magliette di Che Guevara o magliette di Padre Pio è esattamente lo stesso. Far parlare in televisione il sub comandante Marcos o suor Teresa di Calcutta idem, se hanno la stessa audience. E anche quello che ce n’ha un po’ meno, di audience, bisogna trovare il modo di farlo sentire, perché anche quel piccolo “share” deve essere conquistato e monetizzato. Il capitalismo assorbe tutto quello che può per trasformarlo in mercato. L’unica trasgressione possibile è cercare di non comprare e e di non farsi comprare... soprattutto se si vuole essere artisti.
E comunque le installazioni video, anche se fossero fatte con televisori costruiti a mano, fanno cagare.... :)
 
H.
Un pensierino dell'anno scorso sui pensierini dei giorni scorsi:
“Dopo la Shoah, non c’è più romanzo borghese, la musica non cerca più armonia, ma distonia, la pittura non prova più a catturare la luce e dare vita alla bellezza pura. La cultura è invece pervasa dal senso della morte, dal nulla, cerca solo il silenzio e il vuoto.” Parole di Marek Edelman, medico ebreo, scampato ad Auschwitz e oramai simbolo dell’incubo ivi partorito.
Sulla stessa intervista trovo parole meno drastiche e utopiche, che condivido pienamente – e sono quelle sull’assurdo del nazismo, che non coincide con gli orrori e le brutture di cui s’è reso colpevole, ma nel progetto delirante e, come dire?, anti-logos che covava nella degenerazione di quegli orrori: il progetto di auto-distruzione dell’umanità. Un piano nichilista che non può che essere concepito sotto l’ala fremente del nichilismo europeo e borghese. Ed è a partire da questa parola che non riesco a condividere le conseguenze d’apertura. Perché il “senso della morte” è già dentro l’idea dell’essere che tale parola richiama, e sino a che neghiamo il riconoscimento di questo assunto, non avremo ancora scacciato l’incubo sempre possibile sotto l’orizzonte dischiuso da tale parola.   
Così che, per quanto sta all’arte, essa parla di morte alla stregua medesima di tutto il resto del nostro mondo, nazismo incluso. L’arte vuole trasgredire ai codici stabiliti, perché la borghesia come tale (e quella globale odierna nella fattispecie) non può semplicemente tirare a campare senza continuamente trasgredirsi e, così crede, trasvalutarsi. Per quanto politicamente e civilmente sembra proprio non manifestarsi niente di meglio, questo sistema di valori reca in sé qualcosa di affannoso e di irriducibile che lo induce a superarsi in continuazione, a disprezzare il passato, a de-costruire la natura onde sostituirla con i mezzi usati per distruggerla. E se tutto ciò mostra in superficie l’entusiasmo di un perfetto dominio tecnologico sulla casualità e conseguente balia degli eventi, dall’altro è appunto come auto-distruzione del genere umano che questo dominio si concretizza. Che questo avvenga poi come “nazismo”, e quindi in fretta e furia, o che impieghi qualche secolo per lasciarci lentamente e completamente marcire sotto regimi meno folli, questo non è che una questione di tempo. La speranza ai giovani, con cui si chiude l’intervista a Edelman, non ha che una possibilità: cambiare lo stato delle cose.
Di conseguenza, l’idea no-global di un mondo migliore possibile, è estensibile anche alle arti: un arte migliore è possibile, se noi vogliamo non lo specchio di questo marciume sociale, su di cui coloro che governano possano gratificarsi rimirandosi (e attenzione: così forniamo costoro dello “specchio delle loro brame”, e chi lo fa non può che farlo per la stessa e unica ricompensa che essi riservano a se stessi, cioè il successo, il denaro eccetera), bensì un “mondo nuovo” nella cui ritrovata mitezza essi non possano assolutamente identificarsi. Non è un’idea romantica: in una società nauseante, le arti negano la bellezza, è inevitabile. Ma le arti hanno quasi il dovere di divincolarsi dalla contingenza e tentare di rintracciare un filo universale che leghi, dai più lontani epigoni rupestri, sino alle astrazioni geometriche più astratte, come su “Odissea nello spazio”. Il “bello”, apparenza sensibile dell’idea, non è mai stato dalla parte dei (pre)potenti, se non altro perché costoro le idee tendono a soffocarle. Chi lo “impresta” a tali ceffi, sa quello che fa, e lo fa per essere come loro, per condividerne gli agi e la fama rapinata. Quindi attenti a quelli che ci vogliono far vomitare mostrandoci cadaveri e squartamenti vari: essi sono come la società, non contro. Hanno successo perché forniscono ai parvenue in vena di collezionismo, la loro esatta esaltazione “culturale” nella maestà dei mezzi e dei beni che tale “cultura” rendono possibile. La scusante sempre addotta dai leccaculi (pardon) che si prodigano in tali capolavori è quella della trasgressione (a li morté, direbbero a Roma). Si sentono eroici a trasgredire la trasgressione precedente. Che pena. Fra un secolo ci appariranno come appaiono a noi oggi i Grandguignol ottocenteschi…
 
 
 
 

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