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Menar merda - Alessandro Mari

<< Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa. Rischi invece se ne corrono, e di sovente. Si metta il caso di andare in un paio di zoccoli e senz'accorgersi di spataccare sotto la suola una chiazza venuta da chissà dove; si affondano le dita, tutto il calcagno, e patatràc: riccioli di viscidume risalgono il piede quasi fossero tentacoli di un essere di merda, e lo zoccolo è presto inghiottito. E il puzzo! Gelosamente custodito, allo schiudersi della chiazza si leverà come uno zampillo caldo di fontana... Insomma, la merda a maneggiarla c'ha i suoi contrattempi, ma a prestare l'attenzione necessaria si potrebbero goder le gioie di trafficarla, e nel far così vagolare per viottoli e stradicelle, orti e porcilaie, conoscere ogni braccio di terra e divenire pratici di tutte le cascine. S'apprenderà dove coglierne di fresca senza rimediare bastonate, la maniera di rimestarla e miscelarla, diluirla e custodirla fino alla benedizione e poi menarla per il borgo in ogni sua periferia, là dove la terra ingolla ogni pioggia senza lasciarne alle colture, cedendo alla propria anima di brughiera. E a menar merda ci s'intenderà coi fattori e le pie donne, s'arriverà a comprendere come distinguere bestia da bestia per qualità del defecare – "si è quel che si caga," ha detto una volta un tale, "ed è meglio tenerlo a mente, ché la merda non dà scampo. Un giorno o l'altro ce l'hai nel piatto o ci sprofondi". Con l'onesto lavorio e un po' di buona sorte, infine, al passare del carro e della sua odorosa mercanzia le genti leveranno le mani in segno di saluto, e con due dita vorranno ben turarsi il naso. "Ah! È arrivato il menamerda!" “>>
 
(Alessando Mari, “Troppo umana speranza”, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 13)
 

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