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La dimensione ludica dell'esistenza - Monica Bisi

<< Rimanendo nell'ambito a noi più vicino, il latino, a differenza del sottile e raffinato greco, disponeva di una sola parola per esprimere tutto il dominio del gioco e del giocare: ludus e ludere; vi è anche iocus, iocari, col significato specifico però di scherzo, burla. La base etimologica di ludere, anche potendola usare per il guizzare dei pesci, per lo svolazzare degli uccelli, per il mormorio dell'acqua, sembra non coincida con il dominio del movimento veloce, come in tante parole che in altre lingue designano il gioco, ma piuttosto con quello della non-serietà, dell'apparenza, dello scherno.
Ludus, ludere comprende il gioco del bambino, la ricreazione, la gara, la rappresentazione liturgica e scenica in generale, il gioco d'azzardo. Anche i composti alludo, colludo, illudo, deludo tendono tutti al senso dell'irreale, dell'ingannevole. Da questa base semantica derivano ludi, nel significato di giochi pubblici, e ludus col senso di scuola, il primo partendo dal significato "gara", il secondo probabilmente da quello di "esercizio".
Per ragioni fonetiche o meglio semantiche, il ludus, ludere della lingua latina è stato sostituito dai derivati del termine iocus, iocari, in tutte le lingue romanze ed è significativo che, in questo passaggio, il significato si sia ulteriormente esteso, arrivando a coprire parecchie nozioni di movimento e di azione che non hanno nulla a che vedere col gioco in senso stretto e formale.; ad esempio l'uso del termine giocare, gioco, per indicare la limitata mobilità della parte di qualche meccanismo è comune al francese, all'italiano, allo spagnolo, all'inglese, al tedesco, all'olandese e anche al giapponese.
Uscendo dal nostro continente ed indagando, ad esempio, la lingua cinese, si incontrano ulteriori spunti di riflessione: la parola wan indica in particolare il gioco dei bambini, ma significa anche occuparsi di qualche cosa, divertirsi con qualcosa, baloccare, saltellare, folleggiare, scherzare, annusare e perfino godere del chiaro di luna. La base semantica sembra dunque essere: accostare una cosa con festevole attenzione, essere assorto in modo vago e lieve; per indicare il gioco di abilità o la gara, il cinese usa il termine cheng che appartiene al concetto di "situazione, disposizione", corrispondentemente ai termini inglesi play e game. E' significativo sottolineare come in lingue appartenenti alle civiltà cosiddette "primitive" si ritrovino distinzioni e puntualizzazioni ancora più sottili; per esempio, nella lingua degli Algonchini, tribù indiana del Canada sud orientale, esiste un termine, koàni, dal significato analogo a play e wan e riferito principalmente al gioco dei bambini, per adolescenti ed adulti che pratichino gli stessi giochi esiste invece un termine rigorosamente diverso, salvo poi riprendere il termine koàni in senso erotico e particolarmente per indicare le relazioni illecite ...
[…]
Innanzitutto il gioco è un atto libero. E’ libertà. Immediatamente congiunta a questa è la seconda caratteristica: gioco non è la vita “ordinaria” o “vera”. E’ un allontanarci da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria.
In quest’idea del soltanto per scherzo, come è nel gioco, sta racchiusa la coscienza dell’inferiorità del “gioco” rispetto al “serio”, ma in realtà, tale coscienza di giocare soltanto non esclude affatto che questo “giocare soltanto” non possa avvenire con la massima serietà, anzi con un abbandono, che si fa estasi. Ogni gioco può in qualunque momento impossessarsi completamente del giocatore.
L’antitesi gioco-serietà ha i suoi limiti nella presupposta superiorità della serietà. Il gioco si converte in serietà, la serietà in gioco. Il gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di “santità” che la serietà non raggiunge.
Il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata. Si svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé.
Ecco qui una caratteristica nuova e positiva del gioco. Il gioco comincia e a un certo punto è finito. Mentre ha luogo c’è un movimento, un andare su e giù, un’alternativa, c’è il turno, l’intrigo e il districamento.
Alla sua limitazione nel tempo si collega un’altra qualità curiosa. Il gioco si fissa subito come forma di cultura. Giocato una volta, permane nella memoria come un ricordo, o come un tesoro dello spirito, e può essere tramandato, e ripetuto in qualunque momento. Oltre alla limitazione nel tempo, il gioco ha una precisa limitazione nello spazio. Ogni gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia materialmente sia nel pensiero, di proposito o spontaneamente, è delimitato in anticipo.
Come formalmente non vi è distinzione tra un gioco e un rito, e cioè il rito si compie con le stesse forme d’un gioco e viceversa, così formalmente non si distingue il luogo destinato al rito da quello destinato al gioco.
L’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio, la scena, il tribunale, tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi segregati, cinti, consacrati, sui quali valgono proprie e speciali regole. Sono dei mondi provvisori entro il mondo ordinario, destinati a compiere un’azione conchiusa in sé.
Entro gli spazi destinati al gioco, domina un ordine proprio e assoluto. Ecco un segno importante del gioco: esso crea un ordine, è ordine. Realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea limitata. L’ordine imposto dal gioco è assoluto. La minima deviazione da esso rovina il gioco, gli toglie il suo carattere e lo svalorizza.
Il gioco vincola e libera. Attira l’interesse. Affascina, cioè incanta. E’ ricco di due delle qualità più nobili che l’uomo possa riconoscere nelle cose ed esprimere egli stesso: ritmo e armonia.
Ogni gioco ha le sue regole. Esse determinano ciò che varrà dentro quel mondo temporaneo delimitato dal gioco stesso. Le regole del gioco sono assolutamente obbligatorie e inconfutabili.
Non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla. Non esiste più il gioco.
Il giocatore che s’oppone alle regole o vi si sottrae, è un guastafeste. Sottraendosi al gioco, questi svela la relatività e la fragilità di quel mondo-del-gioco in cui si era provvisoriamente rinchiuso con gli altri. Egli toglie al gioco l’illusione e, giacchè minaccia l’esistenza della comunità “giocante”, deve essere annientato.
[…]
Fin dall’inizio, il gioco sfugge a qualsiasi intento classificatorio, facendo oscillare i concetti e le opposizioni concettuali (libertà – necessità, utilità – gratuità, lavoro – ozio, realtà – finzione) mediante i quali si vorrebbe comprenderlo.
Il gioco è utile o è gratuito? Entrambi. E’ libero o vincolante? Di nuovo, entrambi. E, ancora, il gioco ha a che fare con la realtà vera o con una realtà illusoria? E’ piacevole o turba, piuttosto che distendere? E’ un’attività umana separata dalle altre, oppure le comprende tutte?
Il gioco è soprattutto libertà e creatività e non c’è nulla di altrettanto restio a farsi rinchiudere in fastidiose definizioni.>>
 
(Monica Bisi, "La dimensione ludica dell’esistenza", 1. "Che cos’è il gioco", Tesi di Laurea in Scienze della Formazione, 2005-06.
 
Testi di rferimento citati dall’autrice in questo capitolo:
Johan Huizinga, "Homo Ludens", 1939, Amsterdam, trad. it. Einaudi, Torino, 2002;
Roger Caillois, "I giochi e gli uomini", 1958, trad it. Bompiani, Milano, 1981, 2004;
Gianfranco Staccioli, "Il gioco e il giocare", 1998, Carocci, Roma, 2001;
Eugene Fink, "Oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco", Ed. 10/17, Salerno, 1986.
 
Fonte web:
http://www.clownterapia.it/…/ts1015_(Monica_Bisi)_La_dimens…, 7-12-2012, h 9:45 )
 

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