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Dal Ribelle al Bodhisattva - Enrico Borla, Ennio Foppiani

<< Quali sono le caratteristiche che necessitano a chi ha scelto la strada del Bosco? [cioè la strada del “Waldgänger”, il Ribelle, come definito da Ernst Jünger] Quali sono le necessarie qualità di chi ha sentito che le vie collettive non erano più sufficienti, di chi ha scelto per se stesso di scrutare la linea? In apparenza basterebbero un buon paio di scarpe ed un robusto bastone, ma in realtà di cosa sono metafora questi semplici oggetti?
In India i filosofi vedici, se mai si può definire filosofia il sistema di pensiero indiano, individuarono quattro scopi della vita: l’”Artha”, il “Kāma”, il “Dharma” e la “Moksa”.
“Artha” significa cosa, oggetto, sostanza e comprende tutta la gamma degli oggetti tangibili, pertanto “Artha” indica il conseguimento di vantaggi e ricchezze. Per estensione indica sia gli oggetti della ricerca umana sia i mezzi di ricerca di questi e le necessità e i desideri che ispirano. Chi si occupa dell’ “Artha” è commerciante o politico, il suo scopo sono i beni materiali e il loro possesso. La seconda via è il “Kāma”, il desiderio, quello che per i greci era rappresentato dal dio con arco e frecce. Vivere nel “Kāma” equivale a vivere e studiare le emozioni umane, dalla sessualità alla poesia e al teatro. Poi c’è il “Dharma”: la legge. E’ la scelta di vita che si occupa dei doveri morali e religiosi. Occuparsi del “Dharma” è affrontare la legge e i precetti morali che ne conseguono e collegano l’uomo agli dèi. L’ultima via è la “Moksa”. E’ la via della liberazione, il fine ultimo, il massimo bene umano. “Moksa” ha radice nel verbo “Muc”: “Sciogliere, liberare, lasciar andare, fuga, scioglimento, salvezza, emancipazione finale dell’anima”. E’ la via che conduce alla liberazione dall’illusione delle semplici impressioni convogliate dai sensi alle servizio delle passioni e delle emozioni dell’Ego.
Codeste categorie identificano anche nel mondo contemporaeno quattro vie fondamentali con cui attraversare la vita. Le prime tre, ”trivarga”, appartengono al mondo. Esse sono percorse dalla maggior parte degli esseri umani e pertanto anche dal “Waldgänger”, ma di questi non sono la caratteristica principale. Chi si avvia nel bosco è perché ha deciso di intraprendere la via della liberazione, la “Moksa”. Anche l’analista, nell’ottica qui utilizzata, dovrebbe partecipare, anzi deve partecipare a tutte le quattro vie, ma è dell’ultima che più propriamente è espressione. Obbiettivamente, in quanto espressione occidentale della strada alla conoscenza, è nel mondo degli oggetti, desidera ed ama, si attiene a delle regole, ma queste sono solo parvenze che lo aiutano a mimetizzarsi in un mondo ostile. Il vero intento è la liberazione, la fuga, lo scioglimento dai lacci, per sé e per i propri analizzandi.
Innumerevoli e complesse sono le vie che l’uomo ha percorso alla ricerca di questo obiettivo; quella che deve percorrere il “Waldgänger” , l’uomo che è passato al bosco, è una: la compassione, un’estrema compassione, un’infinita compassione.
E’ solo questo sentimento che può giustificare il ritirarsi del “Waldgänger”. In questa linea si mosse sicuramente Etty Hillesum, su cui fin troppe pagine sono state scritte ma del cui insegnamento non si può fare a meno. Nel suo Diario affermò che l’unica cosa che si possa salvare “di questi tempi” è un piccolo pezzo di Dio in noi stessi. E d’altronde questo pensiero è già noto dai tempi biblici: “Maledite Meroz, ha detto l’Angelo del Signore, maledite i suoi abitanti, poiché non sono venuti in aiuto del Signore, in aiuto del Signore coi suoi prodi” (Giudici, 5-23).
La compassione, il patire insieme, è aiutare il Signore è i suoi prodi, è permettere al Sé di manifestarsi nel mondo, direbbe un junghiano. Il Ribelle sa che deve unirsi al patimento di ogni essere, cioè sopportare con e per quello che alcuni chiamano Dio. Questo non ha nulla a che vedere con l’autoflagellazione di origine cristiana, caratterizzata da un’alternante oscillazione fra desiderio e colpa. Piuttosto la compassione si rifà alla consapevolezza che nessuna illuminazione è raggiungibile senza che tutti gli esseri senzienti ne siano coinvolti e quindi anche colui che viene identificato come Dio.
Questa idea elaborata dai buddhisti sottintende che il “Bodhisattva” fondò se stesso e il proprio mondo su una comprensione non-duale della via attraverso le azioni che rivelavano la verità. Per il buddhismo “Hīnayāna”, il Piccolo Carro, cioè coloro che pensano che pochi furono destinati alla salvezza, il “Bodhisattva” è colui che sta per raggiungere l’illuminazione, primo fra tutti il “Gautama Buddha” quando giunse sotto l’albero “Bo”. Per il “Mahāyāna”, il Grande Carro, cioè quella parte del buddhismo che ritiene che ogni essere vivente può salvarsi, il “Bodhisattva” corrispose a “Avalokiteśvara”, il Salvatore: colui che, fermo sulla porta dell’estinzione, tornò a salvare gli esseri senzienti che gridavano nel dolore, assordando l’universo.
Si racconta, infatti, che “Avalokiteśvara”, dopo una serie di incarnazioni virtuose, pronto ormai ad entrare nel “nirvāņa”, udì un tuono sconquassare l’universo. Il santo capì che era un grido di dolore proveniente da tutte le cose create, rocce, alberi, animali, uomini, demoni, davanti alla prospettiva della sua partenza dal regno della trasmigrazione. Preso da compassione decise di non entrare nel “nirvāņa” finché tutti gli esseri, senza eccezioni, non fossero entrati prima di lui, come un buon pastore che aspetta che il gregge lo preceda oltre la staccionata per poi chiudere il cancello con la serenità dell’assenza di resto.
In un certo senso questa accondiscendenza del “Bodhisattva” ad aiutare il mondo è paragonabile a quella di “Krisna”, così come è rappresentato dalla “Bhagavad Gīta”, che a sua volta si è manifestata in Occidente nel mistero dell’Incarnazione celebrato nella tradizione cristiana.
Tutto il meccanismo è determinato dal lamento, dal rumore di tuono che si leva dal dolore di tutti gli esseri. E’ un tuono che tuttavia è molto silenzioso e quasi indistinto; occorre quindi che si possa udirne la voce che chiede aiuto. Per far ciò e necessaria la pratica del silenzio che, come ha insegnato l’Oriente, non deve considerarsi una bella metafora, bensì esercizio quotidiano, pratica estenuante simile a quella cui si sottopone il funambolo per non cadere dalle altezze perigliose. >>
 
(Enrico Borla ed Ennio Foppiani, “Losfeld. La terra del Dio che danza”, Bergamo, Moretti & Vitali, 2005, pp. 60-64)
 

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