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Ciò che rende umano l'uomo è il naufragio - Enrico Borla ed Ennio Foppiani

<< Perduto il centro non vi è più un porto in cui rifugiarsi e neppure un unico punto di vista, privilegiato e fisso, da cui guardare lo spettacolo della vita con animo imperturbabile [Lucrezio]. Alla fine è ben più sconsiderato il comportamento che “saggiamente” evita il rischio, mentre ben più saggio è quello che accetta la scommessa, possibilmente la più alta. La certezza lascia il posto alla possibilità, più o meno elevata, più o meno soggettivamente attendibile. D’altronde “è piacevole stare su una nave battuta dalla tempesta quando si è sicuri che non si perirà; così sono le persecuzioni che angustiano la Chiesa” (Pascal). Ciò nondimeno la Chiesa non c’è più, anzi nessuna Chiesa c’è nonostante la pia illusione coltivata dai Teocon o dalle turbe islamiche. Il brulichio impazzito sul pianeta ha infranto ogni dogmatismo, compreso quello scientifico, che è attraversato dal dubbio opprimente che la tecnica stessa stia conducendo l’umanità sull’orlo del baratro. Il lusso di un’ortodossia condivisa si è esaurito, lasciando spazio a moti demagogici che durano lo spazio di un mattino. Dio, patria, famiglia sono nomi comuni di cose.
In questa precarietà, lasciataci dalla scomparsa speranza trascendentale, non rimane che una certezza: ciò che rende umano l’uomo è il naufragio! In questo tempo non più di chierici come fu quello in cui Blaise Pascal scriveva, ma di galeotti arruolati a forza dopo la sbronza di tracotanza scientifica, l’onore di esseri umani è dato dalla disperazione affrontata con coraggio. Non più distanza aristocratica di chi sta su una spiaggia ma virile consapevolezza del valore intrinseco della coscienza del naufragio.
Una tartaruga, una lucertola, un topo o un qualunque altro animale potrebbe, alla deriva, essere trasportato lontano fra le onde fino a una costa deserta, dove, se avrà la fortuna di incontrare una compagna, fonderà una nuova stirpe che, come i fringuelli delle Galapagos, sarà di conforto a qualche eccentrico naturalista. Qualora ciò non avvenisse, il povero animaletto non avrebbe fatto naufragio, semplicemente un altro esperimento della natura avrebbe avuto esito negativo. Ma a noi sapiens sapiens non è concesso: il naufragio è una condizione perdurante nel tempo e nello spazio.
E’ negli ingorghi nebbiosi delle tangenziali metropolitane del Nord Italia, nel traffico inceppato delle downtown meridionali, nei black out sugli ascensori di New York, nelle pestilenziali darsene di Krung Thep, nelle fornaci fumanti della Saar, nella esplosiva metropolitana londinese, nel rombo solitario di motoslitta fra i ghiacci solitari delle Spitzbergen, nelle atroci carovane di Tir nelle calure australiane, nel sibilo del machete che frange l’umido afrore delle foreste pluviali, nei letti candidi delle cliniche per moribondi, nel gocciolare di fleboclisi chemioterapiche, nell’afflosciarsi del fallo nello sciabordio della vulva, che il nostro stato di naufraghi si propaga come un’onda. La nostra nave si frange continuamente, la volontà che ci conduceva su una rotta si frantuma, costringendoci a inversioni continue, a iperboli estreme, per poi scoprire che neppure questo limite esiste se non come tenebra, come un buio netto, quasi soave, ma senza speranza.
A indurre il naufragio sono i nostri partner, i nostri genitori, i nostri capi, i nostri medici, i nostri padri spirituali, la nostra stoltezza. Ciò che naufraga in definitiva è il nostro corpo. E’ la tecnica organica o meglio l’organico che tramite la coscienza è divenuto tecnica, che si è inceppata irrimediabilmente.
E’ lo strumento che tradisce: affetto, amore, automobile, autoradio, bicicletta, carotide, coltello, convinzione, cuore, cervello, elaboratore, erogatore, fallo, fede, fegato, nave, odio, paradigma, scienza, sogno, telefono, trapano, utero, zappa, tutto si rompe. Tutto ci tradisce, tutto ci abbandona.
Il naufragio, la frattura della nave è uno stato costitutivo e primigenio dell’esserci. L’uomo, in quanto separato dalla sua oggettualità, subisce continuamente lo scacco della fragilità dei suoi strumenti.
Al contrario, gli animali inconsapevoli sono per definizione strumenti essi stessi. Fra il loro corpo, il loro esserci e la loro essenza non c’è frattura. Essi, come Dio, sono ciò che sono. La coscienza ci ha invece separato definitivamente da noi stessi. Esistono geni che ci hanno costruito per riprodursi, geni egoisti, direbbe Dawkins, e noi siamo strumenti di questi geni. Probabilmente qualcosa non ha funzionato bene, o forse ha funzionato fin troppo bene. E’ sorta la coscienza di esserci, l’essere si è separato da se stesso e si è visto e vedendosi ha colto la propria fragilità d’imbarcazione proiettata nello spazio. >>
 
(Enrico Borla e Ennio Foppiani, "Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo", Bergamo, Moretti & Vitali, 2009, pp. 47-49)
 

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