Un mattino ordinario in principio d'autunno | Prosa e racconti | liliana prestigiacomo | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un mattino ordinario in principio d'autunno

Una chiazza di sole  si allargava  sulla scrivania. Da lì a poco avrebbe scaldato la tastiera del pc nonché le sue dita, poi la penna col logo grosso dell’azienda e qualche cartella stropicciata. Allungò le gambe e spinse contro lo schienale flessibile della sedia. Era scomoda,verde di un brutto verde e d’estate ci si sudava. Era pure girevole ma a provare veniva fuori un cigolio stridulo, così, all’occorrenza, ruotava solo il busto . Da una settimana faceva bello, con quelle giornate miti di certi autunni concilianti, infiorescenze tardive e cielo tirato a smalto, di cui il sud è generoso. Pensò che in quella stanza d’ufficio, puzzolente di scartoffie, detersivi scadenti e cavi polverosi  aveva  mollato una porzione non trascurabile della sua vita. Mollato come si molla un ormeggio, e questo pensiero gli tranciava di netto la buona volontà con una certa attitudine alla rassegnazione. Guardò la vetrata alla sua sinistra. Da soffitto a pavimento si reggeva in una spessa intercapedine d’alluminio iperconduttore.Non rimaneva scampo a che era costretto nelle sue vicinanze: lastra troppo sottile, superficie troppo estesa. L’esterno aggrediva l’interno e lo penetrava con arroganza. La vecchia pompa di calore, piazzata  proprio sopra la sua testa, era un malinconico totem obsoleto: molto rumore per nulla. Polvere e sporcizia opacizzavano  il quadro d’insieme all’esterno: un muretto di cemento, smangiato in più punti, mostrava i ganci rugginosi della ringhiera, un marciapiede annerito dall’umidità digradava  un paio di gradini a compensare il dislivello della strada. Di lato al prospetto, un robusto, frondoso falso pepe, a fioritura, pungeva l’aria pizzicando le narici. Lasciò dondolare la testa all’indietro per rilasciare un poco i muscoli indolenziti del collo.Qualche volta si faceva distrarre dai passeri in danza d’amore sulla superficie scabra del muretto o dalle voci di ragazzi  che ridevano forte bevendo birra e spintonandosi, gli zaini di una giornata  di scuola sulle spalle. 
Quella mattina non riusciva a concludere un lavoro. Guardò il collega alla scrivania di fronte. I capelli di un bel grigio luminoso facevano la curva dietro l’orecchio, era sempre azzimato e perfetto come i suoi baffi  e armeggiava sulla tastiera biascicando un soliloquio. Aprì bocca per interromperlo ma in quella, due ombre corte si stagliarono di fianco alla vetrata. Le vide precedere i corpi appena prima che svoltassero l’angolo entrando in traiettoria del suo sguardo. Erano ragazze. Ridacchiavano scambiandosi sguardi complici. Una delle due rise forte e si avvicinò di più alla vetrata per specchiarsi; l’effetto oscurante della lastra gli permise di rimanere spettatore. Inforcò meglio gli occhiali mentre osservava. Erano adolescenti, schiamazzavano e si curvavano continuamente sui cellulari .Quella che aveva riso forte, era truccata vistosamente con un gran sbaffo di rosso sulla bocca fresca e un tatuaggio al polso, bluastro come un livido. Forse era bella, forse no. I lineamenti irregolari della mascella turbavano l’armonia di due occhi grandi e spaziati, la fronte convessa, il naso diritto.Aveva una gran massa di capelli  alle reni che il sole  faceva scintillare in  fili ramati dall’ estate appena trascorsa, e pure la pelle risentiva ancora di un ricordo di melanina.Quei capelli li  tratteneva alla meglio un fermaglio lento alla sommità della testa. Continuò a guardare  soggiogato. Provava una strana, pulsante fascinazione. Lei lanciò  il cellulare all’amica in segno di sfida e si avvicinò ancora. Aggiustò il cinturone dei jeans sulle ossa iliache bene in vista, alzò le braccia e scosse ridendo la massa color castagna  sotto i raggi , come si sciorina un grande scialle frangiato. Quel gesto lo colpì. Ne ebbe la stessa acida violenza di un reflusso allo sterno. Sentiva un dolore oscuro, uno strattone ai visceri che lo accigliò in una  boccata di saliva amara.Si scostò dal vetro e tornò a sedersi. Le spalle gli si curvarono nel tentativo di mandar via il vuoto che gli torceva il petto. Diede voce al collega
“Hai finito con quel calcolo?”
“Quasi. Vado a prendere un caffè, ne vuoi? “
“ No, grazie. Anzi.. - si frugò in tasca, gli porse una moneta - Si, per favore”
“ Te lo porto? Ma che hai?  Stacca un poco ché sei verde in faccia”
“ Ma che ne so, è un periodo..” lasciò cadere mentre quello gli voltava le spalle aprendo la porta.
Tornò a guardare quasi sbieco e intravide uno zainetto bianco, coi luccichini a cuore, poggiato ai piedi del muretto. La ragazza si chinò per frugarvi dentro e i capelli piovvero a lambire l’apertura. Si sentiva un gorgoglio di risate di gola, il vetro stesso pareva amplificarlo in una musica sincopata sino alla sua scrivania, ormai calda. Gli venne in mente una canzone dei suoi anni giovanili e un viso, un viso di donna, via via corretto, come una nitida sequenza cinematografica, delle pieghe  del tempo. Il sole si faceva sempre più spazio tra le sue carte. Aprì  bocca come un pesce, e, di fatto, gli parve di assomigliare ad una grossa cernia, con quegli occhi ingranditi dalle lenti e dall’attesa di cibo. 
Il collega entrò reggendo i bicchierini per l’orlo soffiandosi sulle dita.
“Tieni, sti bicchieri li fanno sempre più sottili ché si spaccano se non stai attento”
“ Grazie."  Sorseggiò cauto. Guardava il collega da sotto in su mentre quello si umettava leggermente i baffi di nero e metteva subito mano al fazzoletto di carta per nettarsi. Esitava. Da qualche tempo guardare fuori dalla lastra quei mattini, delicati e quasi palpabili di frescura gioiosa  e luce, gli procurava un senso di struggimento. Sembravano avere una loro sgargiante bellezza e insieme, una mestizia dolorosa. 
“Sai - disse piano- negli ultimi tempi mi sento una specie di confusione in testa. No, confusione no, mi sento un peso, che ti posso dire: come una tristezza senza motivo.. “
“ Ah!  Mah!.. Ieri sera sono stato alla pizzeria nuova, quella sul corso, ho pagato poco, la pizza è buona”
Digitava veloce e si lisciava i baffi contemporaneamente”
Lui diede una sbirciata fuori 
“ Forse ci vado con Nina, però..  Giorgia si trova bene a Pisa, ma ci manca, a me e a Nina.”
 Si aggiustò gli occhiali e torse il busto per dare le spalle alla vetrata
” Certe volte penso che mi piacerebbe partire e andare un po’ a zonzo, che ne so,  guardare la gente, comperare una cosa, una cosa magari cretina, così, per il gusto di comprarla. - si guardò la mano destra dove da qualche tempo erano comparse due piccole macchie marroni, come delle grosse efelidi. Vi passò sopra l’indice, delicatamente. - Chissà.. Ti ricordi quando da ragazzi si giocava a pallone?”
“ Si, ma che c’entra? “
“Niente, così.. Nostalgia.. C’era un mio compagno che quando ci prendeva a ridere.. E poi sembrava che ci dovevamo mangiare il mondo..”
“ Altri tempi - quello scartò una caramella dentro un contenitore di plastica a forma di capasanta, la transitò lentamente da una mascella all’altra con soddisfazione  continuando a fissare lo schermo -  Che mangi a pranzo? A proposito di partita devo giocare la schedina “
Fuori si era fatto silenzio. Lui tornò a guardare girando piano il busto. Un paio di gatti erano stesi al sole nel punto dove prima stavano le ragazze. Allungò le dita sulla tastiera calda e pensò che doveva decidersi a dare una pulita. Volse un’ultima volta lo sguardo alle foglie dell’albero; un ramo dondolava un po’, forse si era poggiato  un uccello, forse una leggera folata di vento.    
 

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