I ragazzi di...Viale Caprera. | Prosa e racconti | Bruno Amore | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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I ragazzi di...Viale Caprera.

 Ero il più forte della “banda” di ragazzi di Viale Caprera, non fisicamente ma, il più completo per abilità di lancio, precisione, strategia e tattiche delle sassaiole, fantasia organizzativa. Forse dote militare ereditata da mio padre, militare di professione o acculturazione cinematografica guerresca, che in quei tempi, di feconda propaganda filo americana, riempiva le sale di tutta Italia.
Avevamo la “tana” dentro un cassone enorme, al centro di una altrettanto grande catasta di casse, contenenti pezzi di ricambio per i veicoli degli USA Army, stivate per comodità nella Piazza antistante la chiesa di Crocetta, senza controllo ne vigilanza, che ancora il clima era di immediato dopoguerra – occupazione. La M.P. girava in jep senza alcuna intenzione o voglia di imporre alcunché.
L’avevamo svuotata da dentro, accedendovi dall’interno della catasta, nei piccoli spazi- corridoi, che si lasciano nel mettere un parallelepipedo sull’altro. Aveva le dimensioni di una stanza di abitazione e ancora puzzava dell’odore dell’olio protettivo nel quale erano avvolti le migliaia di carburatori, che erano stati avviati, dagli adulti, al mercatino riciclaggio di Piazza XX Settembre.
Era Gino, “detto German” nome di battaglia e poi soprannome, il capo banda. Qualche anno più della media, più coraggioso e sfrontato di tutti, il meno soggetto alle remore familiari. Spesso violento, sempre scurrile nell’eloquio, che per noi era segno di emancipazione dalla pubertà.
Il secondo in comando ero io; il portaordini Nedo, “occhiata” per via di una congiuntivite cronica purulenta, era veloce e conosceva stradine e cortili che neanche si immaginava essere comunicanti con altri spazi, importantissimo per fuggire agli attacchi o avvicinarsi da direzioni sicure; lo scout Carlo, “sfilazza”, per via della corporatura segaligna, asciutta come la stoppa per calafatare, determinato, incorreggibile ladruncolo, unico ad avere il coraggio di circolare di notte, ci approvvigionava delle armi del nemico, che rubava loro; il vivandiere Piero, “ciccio bomba” per via della corporatura, obesa ma solida, di famiglia agiata rispetto a quella nostra comune, era incaricato di reperire – in casa sua – panini, salumi e quant’altro di alimentare riusciva a racimolare; e Silvano, detto “seghina”: minuto fisicamente, timoroso di ogni atteggiamento appena sopra le righe, era sempre presente in piazza, mai negli scontri. Era un po’ il giullare del gruppo, con la sua mania del ballo gitano, quello col battito esasperato dei tacchi e delle mani, l’atteggiamento da macho che lui imitava benissimo, avendo visto tutti films di Valentino, che ancora circolavano nelle sale. Gli altri, la truppa, fino al piccolo Aldino, “formichina”, riportava alla tana le “armi” abbandonate sul campo, fionde, biglie, bastoni e stava sempre a distanza dalla bagarre.
Avevamo fatto da poco un’incursione nel campo giochi di quelli di Via Del Leone, un appezzamento incolto della Motofides, dove l’azienda allocava materiali obsoleti o da demolizione, in attesa di distruggerli. Loro, “i leoni”, ci avevano costruito una specie di fortilizio, con tavole dette "mezzamisura", lamiere ondulate, travicelli, che aveva – a onor del vero – un aspetto imponente, nonostante la precarietà della struttura. Distruggemmo col fuoco le suppellettili, qualche sedia impagliata e un vecchio materasso di crine, razziato e disperso sassi e pezzi di legno da lancio, costringendo – a sassate – il piccolo manipolo di guardia, a scappare. Sfilazza aveva fatto un buon lavoro di “intelligence”, aveva spiato per giorni, vedendo chi andava prevalentemente al forte e quando.
Ora , da giorni, aspettavamo la contromossa.
Ci resero il classico “pan per focaccia”. Dettero fuoco alla tana, che in legno, intrisa di oli e idrocarburi, divampò come una torcia, distruggendo gran parte della catasta e creando un certo pericolo attorno e se non altro, preoccupazione. Tanto che lo spazio fu recintato con filo spinato e un militare piantonava il sito, ventiquattrore al giorno e se qualcuno sospettò, non erano tempi di denunce, quelli.
Eravamo affranti, Sfilazza ci aveva informato che la bravata dei “leoni” aveva fatto il giro della città, quella dei ragazzi, naturalmente e nelle viuzze traverse di Via del Leone, c’erano scritte allusivamente esaltanti alla “battaglia di Caprera” vinta inopinatamente, con la distruzione di Forte Venezia, la nostra tana.
Il consiglio di guerra si tenne allo Scalo delle Ancore, sotto un vecchio navicello rovesciato con la chiglia all’aria, con il fasciame sfondato in più punti, che attendeva – come una vecchia balena spiaggiata, di essere fatto a pezzi e portato via. Lo attrezzammo al minimo: un lume a petrolio, delle tavole su blocchi come panchine ma, era il puzzo di catrame che lo rendeva particolare, non piacevole, acre come una tana di mustelidi: puzzole, insomma.
- Ora abbiamo altro da pensare - sentenziò German. – Ci dobbiamo vendicare subito, “porco…, quei figli di……, ci hanno distrutto la più bella tana che ci sia mai stata. Io avevo detto – Brown (sarei io) – che “la formichina” non doveva fare i turni di guardia, hai visto? Non ha resistito nemmeno un minuto e non è stato capace di correre ad avvisarci. Dalla paura è andato a casa, da "su’ ma’.
- Non era solo - risposi - e poi hanno approfittato della giornata di pioggia, all’ora di mangiare…insomma… e comunque non lo dovevi picchiare, ha detto che non viene più.
- Meglio – disse il capo – i bimbi a casa, questa volta si picchia duro.
La Formichina fu messa al bando, per indegnità, tutti lo ingiuriavano, tanto che la madre ci chiese cosa avesse mai fatto, per essere così triste e sconsolato.
- Ha tradito ! fu la risposta secca di German, che in questi momenti era proprio insopportabile, e la donna lo mandò a quel paese, apostrofandolo con un sonoro “stronzo fanatico”.
E venne l’occasione. Sfilazza aveva tenuto sotto controllo il loro fortino, quasi giornalmente, l’avevano abbellito con bandiere e nuove palizzate e su un pennone, chissà dove l’avevano preso, c’era una bandiera gialla con in mezzo un leone rosso. Bellissima, disse Sfilazza.
Avevamo tutti una frenesia dentro e una certa ansia da prestazioni. Tutti a rinforzare gli elastici delle fionde, confezionare sacchetti da appendere ai calzoni o tracolla, per le biglie e i sassi da lancio. Eravamo pronti, impazienti e timorosi. Ne avevamo fatte tante di sassaiole, ma questa pareva quella decisiva e definitiva, dopo di che, la vita pareva dover diventare diversa.
Ci riunivamo freneticamente tutti i giorni, una valanga di idee, moltissime assolutamente bislacche, qualcuna riciclata da film di guerra, naturalmente impossibili.
- Non sarà possibile prenderli di sorpresa. Il fortino è in campo aperto ed ora guardato tutto il giorno – dissi - dobbiamo escogitare il modo di avvicinarci e poi faremo valere la nostra superiorità fisica. Tranne Lorenzo, il capo, gli altri sono bimbetti.
E mi venne in mente la testuggine dei romani, anche se non ero un gran che a scuola. Ci procurammo (rubammo in un cantiere) una carretto leggero da muratori, ci inchiodammo di traverso un pezzo di lamiera ondulata, rinforzandola con sostegni e corde, in modo che potesse riparare quattro o cinque dei nostri, dalle gragnole di sassi che “i leoni” ci avrebbero scagliato contro per impedirci di avvicinarli. Nel pianale del carretto, tutto il munizionamento necessario.
Un bel pomeriggio piovoso, che il maltempo aiuta le malimprese, decidemmo di attaccare. Sfilazza aveva portato buone nuove. Nel fortino nemico c’erano soltanto in due, Lorenzo e Mauro “il gobbo”, per via che stava sempre curvo, per la scoliosi, naturalmente.
Quando arrivammo al campo, la bandiera sventolava mogia per la pioggia, ma grazie al Libeccio provava a volare; ci avvicinammo furtivamente, per quanto possibile, ma scoppiò subito l’allarme. Come convenuto, Piero spinse avanti il carretto e noi riparandoci all’occasione, restituimmo sassata per sassata, mentre raggiungevamo la base del fortino. Improvvisamente Lorenzo urlò – tutti fuori – e dai precari spalti si affacciarono una dozzina di ragazzi che ci investirono di sassi, biglie da fionda, urli e lancio di pezzi di legno. Gino ordinò la ritirata, inutilmente, che tutti stavamo scappando dopo aver abbandonato il carretto e il resto. Presi una sassata in testa, vicino all’orecchio sinistro, che se fosse stato un caso vittorioso, sarebbe valsa una medaglia, ma così…trattenni a stento le lacrime per il dolore, tamponai il sangue alla meglio, poi tutti a casa, mogi, delusi, scoraggiati e tristi.
Qualcuno soltanto riuscì a dormire, per la stanchezza, gli altri, come me, rimuginarono, piansero anche, affondando il viso nel guanciale per non farsi sentire dai familiari.
Il mattino successivo, esibendo una vistosa fasciatura alla testa, vittima illustre, andai al solito raduno davanti alla chiesa di Crocetta. Sfilazza stava raccontando di una non meglio specificata disgrazia che sarebbe avvenuta la sera prima, dopo la sassaiola, verso buio, nel campo dei “ragazzi di Via del Leone”. Sguinzagliati tutti per saperne di più, sapemmo che il ragazzo coinvolto era Aldino “la formichina” ma, …come ?
Così particolare dietro particolare venne fuori che finita la zuffa pomeridiana, alla quale lui non aveva partecipato, come al solito, e dopo che i “leoni” soddisfatti dell’impresa avevano lasciato il fortino, Aldino, con una tannica di petrolio, andò ad incendiare il fortilizio. Forse per l’eccitazione, l’ansia, l’improntitudine, si doveva essere versato addosso del combustibile e quando appiccò il fuoco, accese anche se stesso.
Esterrefatti tutti, Gino stravolto, ci abbracciammo piangendo e per paura delle reazioni dei suoi non andammo a casa sua. Assistemmo in disparte al rito religioso e al funerale, quasi di nascosto, ma la madre ci vide e ci abbracciò tutti insieme, piangemmo a dirotto ancora una volta.
C’è un povero modesto cippo di marmo ora là nel campo della Motofides, con la fotografia di Aldino, i suoi dati anagrafici, fatto erigere da sua madre. Per portarvi dei fiori, bisogna scavalcare il filo spinato della recinzione. Lei lo faceva sempre, noi l’abbiamo fatto per un bel pezzo, poi...si diventa "grandi".
 
 
 
 
 
 

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