Un sapore di ruggine e ossa | Prosa e racconti | pedronessuno | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Un sapore di ruggine e ossa

PASSIONE
 
1)
Ogni volta l’impressione era quella di entrare nella cucina di un grande hotel, con tutti quegli armadietti in alluminio e la luce biancastra diluita nell’aria.
Il lungo tavolo metallico era munito di lavandino e l’odore del disinfettate riempiva l’ambiente.
C’erano ben pochi altri suoni oltre al rumore dei suoi passi.
Il cadavere era disteso sul tavolo, nudo e gonfio.
Levin lo valutò con lo sguardo mentre sistemava la mascherina protettiva.
La sua assistente aveva già preparato tutti gli strumenti necessari sul ripiano accanto al tavolo.
Ogni cosa era perfettamente sistemata, come sempre, disposta con un ordine quasi geometrico.
Annuì compiaciuto di ritrovare intatte le proprie abitudini quotidiane.
Era rassicurante.
In quel contesto la tranquillità era una condizione necessaria per mantenere un certo necessario distacco dall’oggetto di indagine: la morte
Per essere professionisti in quel settore non se ne doveva avere troppo rispetto, né tantomeno paura.
Aveva imparato questa lezione il giorno della sua prima autopsia e se l’era ripetuta ogni volta che sul tavolo di lamiera era comparso un nuovo cadavere.
Uomo, donna o bambino non faceva differenza. Era materiale di ricerca, non più un individuo.
Né madri, né padri o figli, né amanti, né anziani o giovani: soltanto corpi da frugare.
In verità non era mai riuscito ad abituarsi del tutto a quella situazione, anche se aveva imparato a mascherare questa sua carenza con l’esperienza.
Il rumore delle cartilagini che cedono, elastiche, sotto la pressione della lama del frangicoste è un suono troppo particolare per non prestarci attenzione, quando lo si sente.
Ogni volta che lo ascoltava provava una strana sensazione, come un brivido lungo le gambe.
In quel gracchiare d’ossa gli sembrava di udire un ultimo sussulto vitale, l’estremo lamento di un’anima a cui era stato strappato tutto ciò che di caro aveva a questo mondo.
Come se il corpo piangesse, a modo suo.
Gli capitava di dover posare la forbice e appoggiarsi con le mani al tavolo per qualche secondo, prima di riuscire a continuare.
Ma quelli erano rari momenti, controllabili grazie all’esperienza.
Anche oggi Levin Alfieri, medico legale per la Questura di Torino, guardava l’uomo nudo disteso davanti a sé ed esitava a procedere con l’esame autoptico.
Le sue gambe erano ben salde e nessun rumore l’aveva distratto: in questo caso il motivo della sua indecisione era un altro.
La sua assistente entrò in quel momento.
Era una ragazza giovane, con il viso simmetrico e i capelli scuri e lunghi.
Non si faceva fatica a definirla bella.
Per la verità lui non ne era mai stato particolarmente attratto, a differenza di tanti suoi colleghi che facevano a gara per offrirle il caffè e, dopo aver ricevuto in risposta un cortese quanto inevitabile rifiuto, si radunavano per sfogare la propria frustrazione attraverso un banale campionario di battutine maschiliste, rivolte nei suoi confronti.
Era uno degli argomenti preferiti della pausa caffè.
Cosa ci trovassero non sapeva dirlo. Lui la considerava piuttosto insignificante, da quel punto di vista.
Un’ottima collaboratrice, precisa, intelligente e anche dotata di un certo senso pratico, ma niente di più.
Ma forse era lui a sbagliare.
Gli si avvicinò senza far rumore e l’aria intorno a lei si mosse: come sempre il suo corpo non emanava alcun profumo. Non era la prima volta che notava questo dettaglio.
Si chiese se forse la sua pelle non producesse proprio alcun odore.
Indossava un paio di jeans e aveva il camice abbottonato appena sopra al seno, generoso ma non provocante.
Si sarebbe detto che sotto non portasse altro che la biancheria intima.
“Siamo pronti, Linda?”
“Iniziamo quando vuole.”
“Sì, ho visto che hai già preparato gli strumenti. È tutto perfetto, come sempre. Grazie.”
La ragazza si sistemò la mascherina “Ho apparecchiato col servizio buono, dottore: oggi abbiamo un ospite d’onore.”
Una volta tanto il suo umorismo nero non era gratuito.
Disteso sul tavolo autoptico non c’era il cadavere di una persona qualunque.
Per giorni, telegiornali e quotidiani avevano mostrato l’immagine di quell’uomo e raccontato la sua storia, fino a farlo diventare una specie di celebrità. Nei bar e per strada non si era parlato d’altro e tutta l’attenzione dei media si era concentrata su di lui.
Quello era Alberto Galandra, la Iena.
Era l’uomo che aveva ucciso e mangiato Marco Deodato, un ingegnere abruzzese di 58 anni, dopo aver messo un annuncio su Internet in cui dichiarava ciò che aveva in mente di fare e aver atteso un messaggio di risposta nella sua casella mail, mentre continuava a vivere la propria vita come niente fosse.
L’uomo che aveva amputato gli organi genitali di Deodato e che li aveva cucinati con vino e aglio, prima consumarli con la vittima stessa mentre questi, disteso nudo in una vasca da bagno, moriva dissanguato.
Era l'uomo che, mentre metteva in pratica questa follia, registrava ogni minuto delle sue gesta con una piccola videocamera, per potersi poi rivedere comodamente in poltrona, magari dopo il lavoro.
E ora quest’uomo era disteso davanti a lui, morto, ucciso in uno scontro a fuoco con la Polizia mentre cercava di fuggire dalla propria abitazione.
Levin lo fissava con attenzione ed esitava a procedere con l’autopsia.
Voleva capire se davvero la morte ha il potere di renderci tutti uguali, mostri compresi.
Non si era ancora deciso.
A rendere tutto più inquietante c’era il fatto che la vicenda risaliva a un paio d'anni prima.
Per tutto quel tempo Garlanda era rimasto impunito e nessuno si era accorto di nulla, nessuno l'aveva messo in relazione con la scomparsa di Deodato.
Poi, circa una settimana prima e per una ragione ancora non chiarita - si pensava a un virus informatico o qualcosa di simile - il video dell'omicidio era finito in rete.
La caccia all’uomo era partita immediatamente e si era rivelata rapida: risalire all’identità di Garlanda, attraverso la porta IP da cui il video era stato caricato, non era stato difficile.
Dopo un paio di giorni gli agenti avevano fatto irruzione in casa sua, cogliendolo di sorpresa.
La fine della storia adesso si trovava su quel tavolo di lamiera.
“Dottore procediamo?”
La voce dell’assistente riscosse Levin dai suoi pensieri. Si voltò verso la giovane neolaureata in camice bianco e assentì con la testa.
“Certo, accendi il registratore.”
Era una prassi obbligatoria quella di registrare tutta la procedura dell’autopsia. Ci sarebbe stato un documento video anche di quegli istanti, pensò Levin, tanto macabri quanto lo erano quelli che aveva filmato la Iena stessa.
Le cause della morte erano note, si doveva solo procedere all’esame per sbrigare le formalità.
Incise la carne e il suono della pelle che si slabbra si propagò nella stanza.
Un fremito gli percorse la schiena: la stessa sensazione che provava ogni volta.
Non si fermò, ma annuì mentalmente.
Aveva risolto il suo dubbio. La morte ci rende tutti uguali, carne cedevole che non tiene.
Senza più lasciarsi distrarre dai propri pensieri, iniziò a esaminare il corpo.
Fino all’analisi epatica non ci furono sorprese, si trattava di un esame di routine.
Poi fu il momento di ispezionare lo stomaco. Mentre incideva l’organo lo colse un attacco di tosse secca.
Senza avere il tempo di scansarsi, sussultò violentemente accanto al cadavere.
La mascherina protettiva evitò che un fiotto di batteri si propagasse nell’aria, ma nulla impedì alla sua mano, quella che reggeva l’enterostomo, di conficcarsi nello stomaco dell’uomo a causa del movimento improvviso.
“Cazzo!”
“Che succede dottore?”
“Gli ho bucato lo stomaco e mi sono sporcato la mascherina, tossendo. Prendimene un’altra Linda, per favore.”
Mentre l’assistente recuperava una nuova mascherina, Levin ripose lo strumento medico, cacciò le mani nelle tasche del camice e osservò meglio lo stomaco dell’uomo: forandolo inavvertitamente aveva sentito la punta del bisturi toccare qualcosa di duro.
Metallo?
Sfilò le mani dalle tasche e con un dito tastò l’interno dei tessuti epatici del cadavere.
Con sua sorpresa trovò qualcosa.
Tirò fuori il dito e guardò quello che ne uscì: sul suo polpastrello si era infilato un cerchietto giallo.
Lo pulì velocemente e l’oggetto recuperò il suo originale splendore.
Era un anello d’oro, una fede, per l’esattezza.
La rigirò tra le dita mentre, l’assistente arrivò poco dopo con una nuova mascherina.
“Cos’ha trovato?” gli domandò Linda.
Il medico legale mostrò l’indice su cui brillava l’anello.
“Una fede, ce l’aveva in pancia.”
L’assistente sbarrò gli occhi, atterita. Levin comprese il suo stato d’animo.
“Non è una buona notizia, immagino.”
Poi osservò l’interno della fede: c'erano un nome e una data.
Lesse ad alta voce.
“Claudio, 14 luglio 1968. È la fede di una donna e questo è il nome del marito.”
Poi d’improvviso si bloccò e fissò Linda negli occhi. Ci furono istanti di silenzio.
Infine sbiancò. Balbettò mezza parola incomprensibile.
Cosa stava accadendo al suo superiore? Linda comprese che qualcosa non stava andando per il verso giusto.
“Dottore va tutto bene?”
Levin non rispose subito, aveva lo sguardo di un uomo che affoga.
“Conosco questa data.” si limitò a dire, senza spiegare che quello era il giorno del matrimonio dei suoi genitori.
Il 14 luglio del 1968.
Il giorno in cui sua madre, Loredana aveva sposato suo padre.
Claudio.
Cristo.
Quella era la fede di sua madre.
L’assistente vide il volto di Levin farsi ancora più pallido.
“Cosa sta succedendo, dottore?”
Levin sembrò non aver udito neppure una parola di quello che la ragazza gli aveva chiesto.
“Devo fare una telefonata.” disse ad alta voce, rivolto più che altro a se stesso, mentre correva fuori dalla stanza.
 
2)
Stepan Arkadevič Alfieri stava di nuovo litigando con l’addetto del tribunale.
Per l’ennesima volta avevano sbagliato a scrivere il suo nome ed ora era alle prese con tutti i disagi che ne conseguivano: un’estenuante lotta contro gli inconvenienti della burocrazia.
Certo, non li si poteva colpevolizzare troppo, con un nome come il suo.
Era stato per un vezzo di suo madre se lui e i suoi fratelli si erano trovati appioppati dei nomi impronunciabili. Da grande amante della letteratura russa quale era, e di Tolstoj in particolare, non si era lasciata sfuggire l’occasione di chiamare i propri figli come i protagonisti del suo romanzo preferito: Anna Karenina.
E così erano arrivati Stepan Arkadevič, Aleksej Vronskij e Konstantin Levin, in perfetto ordine crescente di età.
A lui, che era il più piccolo, calzava anche a pennello il diminutivo Stiva, con cui tutti si erano abituati a chiamarlo. Come si può immaginare non era stato semplice crescere con nomi così particolari: i bambini sanno essere crudeli con chi non rientra nella loro limitata comprensione delle differenze. E quindi già dai primi giorni di scuola erano stati oggetto di una derisione più o meno insistente da parte degli altri compagni.
Ma nonostante tutto erano sopravvissuti senza troppe difficoltà agli anni dell’infanzia.
Anzi, se da un lato quei nomi erano stati fonte di scherno, d’altro canto erano anche riusciti a creare, tra i fratelli, un senso di unità e condivisione ancora più forte.
Loro tre insieme erano speciali, persone fuori dal comune: quei nomi erano lì a testimoniarlo.
Anche se a volte causavano spiacevoli inconvenienti.
Come per esempio quel giorno, in cui non riusciva a comunicare correttamente con l’operatore del tribunale che gli chiedeva, un’altra volta, le generalità.
Era una procedura necessaria per ogni giornalista che volesse accedere alle varie notizie penali della giornata. Purtroppo per lui non riusciva quasi mai a incontrare lo stesso addetto alla portineria.
Come mai cambiavano personale così frequentemente? Uno non faceva in tempo ad abituarsi che già si trovava di fronte a un volto sconosciuto e la trafila delle incomprensioni ricominciava.
Era uno dei tanti misteri del sistema burocratico italiano, una di quelle domande per cui era inutile cercare una risposta.
Tanto valeva adeguarsi e mettersi il cuore in pace.
Allungò un documento verso la guardia giurata. “Ecco la carta di identità.”
L’uscere la esaminò a lungo, con un’attenzione che Stiva giudicò esagerata.
“Quindi lei è italiano?”
“A quanto pare.”
“E perché ha uno nome straniero?”
“Cose che succedono. Come vede il cognome è italiano.”
“Curioso. Pensavo che venisse dalla Russia, o più o meno da quelle parti.”
“Sì, infatti il nome è russo. Per via di mia madre.”
“È lei ad essere originaria dell’Est?”
“No, è italiana anche lei, però… conosce Tolstoj?”
“Un parente?”
Stiva iniziava a perdere la pazienza. Non sapeva per quanto avrebbe potuto continuare a sostenere quella conversazione.
“No, non è un parente. Lasci stare. Se è tutto in ordine io andrei.”
La risposta della guardia giurata non fece in tempo ad arrivare, perché nel frattempo il suo cellulare iniziò a squillare. Guardò il display e vide lampeggiare il nome di suo fratello.
Finalmente.
Aspettava quella chiamata con impazienza. Era andato in tribunale solo per far passare il tempo in attesa che Levin lo chiamasse e gli raccontasse le ultime novità sull’autopsia che aveva in programma per quella mattina.
L’interesse sulla Iena era ancora altissimo e ogni informazione in merito poteva essere una miniera d’oro.
Avrebbe avuto notizie esclusive in anteprima.
In certe occasioni era una fortuna avere un medico legale per fratello.
Mentre rispondeva si accorse che stranamente la telefonata arrivava prima di quando prevedesse. Aveva fatto così in fretta?
“Ciao, hai già finito?”
“Dove sei?”
La voce di Levin era nervosa.
“A Roma, come sempre. Perché me lo chiedi?”
“Da quanto tempo non senti la mamma?”
“Da quando è partita per uno di quei suoi viaggi spirituali, un paio di mesi fa. Dov’era stavolta? In India? Lo sai che quando se ne va in quei posti non vuole essere mai disturbata. Ma che succede?”
“Ho provato a contattarla anche io, ma non sono riuscito a trovarla.”
“Scusa Levin ma di cosa stiamo parlando?”
Trascorsero alcuni secondi di silenzio
“Devi venire subito qui.”
 
3)
Mentre il treno ad alta velocità schizzava sui binari srotolati della Pianura Padana, Stiva guardava fuori dal finestrino.
Le luci delle case gli venivano incontro rapidissime per poi sparire dietro di lui, come lucciole impazzite.
I contorni indefiniti del mondo ballavano dovunque all’orizzonte.
La sua attenzione però non si posava su nulla in particolare, interamente assorbita a rielaborare le ultime parole di suo fratello.
Parole impossibili.
Levin aveva trovato la fede di loro madre nello stomaco di Alberto Garlanda.
No, non aveva senso, non poteva essere.
Cosa significava?
Non voleva neppure pensarci.
“Sei certo che sia la fede della mamma?” gli aveva chiesto.
“Sbrigati ad arrivare, io ora avverto la Polizia.”, gli aveva risposto Levin.
Non aveva replicato.
La Polizia.
Purtroppo sapeva già cosa avrebbero detto a suo fratello.
Per questo aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene, quando aveva ricevuto la notizia.
Correvano alcune voci, tra i giornalisti, dopo la morte della Iena.
L’informazione non era ufficiale, perché le forze dell’ordine volevano mantenere riserbo sulla questione per il momento e avevano quindi chiesto alla stampa di non diffondere nessuna notizia in merito.
Ma nell’ambiente la notizia era girata abbastanza velocemente, più che altro come una leggenda metropolitana, e qualcosa era filtrato anche all’esterno.
Nell’appartamento della Iena gli agenti non avevano trovato solo il corpo senza vita del cannibale.
In uno sgabuzzino c’era anche un grande congelatore.
Colmo di resti umani.
Troppi, perché si trattasse del solo Deodato.
E quindi era diventato chiaro che nei due anni in cui la Iena era stata libero di agire, altre persone avevano risposto al suo annuncio e l’avevano raggiunto nella sua casa degli orrori.
Ma c’era dell’altro.
Si diceva che i poliziotti avessero rinvenuto anche alcuni appunti della Iena in cui si faceva riferimento ad alcune persone ancora in vita, tenute segregate da qualche parte, in attesa di essere macellate e divorate dalla Iena.
Ma queste erano le dicerie, le leggende metropolitane, che passando di bocca in bocca si ingigantivano a dismisura.
La realtà, per come Stiva l’aveva potuta conoscere attraverso un suo informatore della Questura di Torino, era invece più semplice ma altrettanto agghiacciante.
Sul cellulare dell’assassino era stato trovato soltanto un appunto, in agenda, relativo a possibili altre vittime.
Recitava: acqua per loredana.
Potevano esserci mille spiegazioni a quella frase, e in effetti gli inquirenti avevano deciso di essere cauti, ma non potevano scartare l’ipotesi peggiore: una donna era stata rinchiusa chissà dove da Garlanda.
Se non l’avessero trovata in tempo il suo destino era segnato.
Le ricerche erano già partite.
Dopo quanto gli aveva detto suo fratello Stiva continuava a pensare a quell’appunto.
E ogni volta che si soffermava a pensarci il cervello sembrava volergli scoppiare.
Loredana.
Mia madre.
La sua fede, l’appunto nell’agenda, la sua fede, la pancia, la Iena.
L’acqua.
Ma a quel punto i suoi pensieri facevano uno scatto.
Perché l’acqua?
E anche se lo riteneva impossibile, una piccola speranza nasceva nel suo cuore.
Se doveva portarle dell’acqua, forse è ancora viva.
E poi tutto riprendeva da capo.
No, non è possibile, non può essere lei.
Ma immediatamente dopo tornava a pensare alle parole di Levin, e tutto tornava vero.
Una ruota nera.
Durante il viaggio aveva anche provato a contattare le amiche e i vicini di sua madre, sperando di aver sue notizie. Ma la risposta era sempre stata la stessa: da parecchio tempo non la vedevano né la sentivano.
Il circolo vizioso dei suoi pensieri venne interrotto dal suono del cellulare che lo avvisava della ricezione di un messaggio.
Ciao amore, torno a Roma domani, ci vediamo in serata?
Cazzo, si era dimenticato di avvisare Elisa. Decise di non dirle nulla, per il momento.
Scusa amore, mi hanno spedito a Torino per la storia della Iena. Riesco ad avvisarti solo ora. Starò via per qualche giorno. Ti amo.
Poi spense il telefono e riprese a seguire i suoi pensieri, dondolato dagli scossoni del treno che scivolava rapido attraverso i campi di mais.
 
4)
Da una piccola finestrella sprangata filtravano fili di luce.
Non erano sufficienti neppure per rischiarare tutto l’ambiente che le stava intorno, anche se c’era ben poco da illuminare: un letto, piatti di plastica sporchi, una bacinella che emanava un odore nauseante e una vasca da bagno lorda e incrostata, di una sostanza indefinita.
E poi il suo corpo, nudo e freddo, immobilizzato su un materasso umido.
Da quanto tempo era lì?
Aveva perso il conto dei giorni.
Forse erano tre, forse quattro, forse anni interi.
Sul pavimento c’erano dieci piatti di plastica usati.
Cinque giorni?
Anche se adesso le sembrava che dall’ultima volta che aveva mangiato fosse passato parecchio tempo.
Per fortuna aveva ancora acqua, anche se poca.
Aveva sempre una sete terribile e la gola le bruciava tremendamente.
Avrebbe dovuto razionarla, per non correre rischi.
Non urlava più e si era rassegnata a non chiedere aiuto: aveva capito che nessuno l’avrebbe sentita.
Dove si trovava, come era arrivata fino a lì?
Non ne aveva idea.
Sapeva soltanto di avere paura.
Paura.
Non credeva se ne potesse avere così tanta.
Sapeva che si poteva soffrire, provare dolore e pena, ma nessuno le aveva mai spiegato le conseguenze di una paura così assoluta.
Era qualcosa di fisico.
Chi l’aveva trascinata fino a lì non le aveva fatto del male, non l’aveva neppure sfiorata.
L’incubo era arrivato dopo.
Soltanto dopo, qualcuno, nell’ombra, l’aveva presa contro la sua volontà, violentata ripetutamente.
Era stato qualcosa di così terribile che mai avrebbe potuto immaginarlo.
Sentiva tutto il corpo indolenzito e atrofizzato, come se l’avessero pestata a sangue.
Qualcosa scendeva dalle sue guance: piangeva. Ormai lo faceva senza rendersene conto.
Poi un rumore che giunse dall’esterno e da lontano e attirò la sua attenzione, ma solo per un istante.
L’aveva sentito molte volte, da quando era arrivata.
Inizialmente sperava che fosse qualcuno che veniva a prenderla, poi aveva capito che era qualcosa di più distante, anche se l’intensità era del suono era piuttosto alta.
Un rumore strano e potente, come di un aereo che vola a bassa quota.
Eppure non le sembrava neanche un aereo, era qualcosa che non aveva mai sentito e che comunque le pareva familiare.
Si rannicchiò nell’angolo più buio della stanza, sperando di scomparire nell’oscurità, di esserne inghiottita.
Come sempre, non accadde nulla e lei riprese a singhiozzare.
 
5)
La mano di Levin tremava, mentre si portava il caffè alla bocca.
Bevve d’un fiato il liquido bollente e poi guardò Stiva, silenzioso, appoggiato allo schienale della sedia di metallo del dehor.
Intorno a loro un folla di pendolari scendeva e saliva dai treni che partivano e arrivavano, come se niente fosse, come tutti gli altri giorni dell’anno.
Una leggera pioggia bagnava i binari della stazione di Porta Susa, il freddo non era ancora insopportabile come lo sarebbe stato da lì a un paio di mesi.
“Più o meno mi hai ripetuto le parole che mi hanno riferito in centrale.”
A quelle parole Stiva chiuse gli occhi e respirò profondamente.
“Cazzo.” Sussurrò. Poi fece un cenno al cameriere e ordinò un caffè a sua volta.
Levin spiegò a suo fratello di come, mentre lo aspettava, avesse informato la Polizia.
In quanto medico legale per lui era stato tutto più semplice: conosceva buona parte delle alte sfere della Questura.
Ma sapeva anche che non sarebbe servito a molto.
Non si dissero più nulla finché la nuova tazzina non fu posata sul tavolo di metallo del bar.
Un cliente uscì dal locale accendendosi con impazienza una sigaretta. Il primo sbuffo investì i due fratelli.
Mentre versava la bustina di zucchero, Stiva si decise a parlare.
“E cosa faranno?”
Il fratello infilò il mento nel bavero della giacca, sotto la sciarpa, e guardò altrove.
“Cosa vuoi che facciano?” disse a voce così bassa che Stiva fece quasi fatica a udire.
Anche se nessuno dei due voleva ammetterlo, entrambi sapevano che se davvero loro madre si trovava segregata da qualche parte, rinchiusa dalla Iena prima di morire, le speranze di ritrovarla in vita era davvero poche.
E questo perché conoscevano bene il modo in cui andavano certe indagini, grazie ai loro rispettivi mestieri.
Spesso i serial-killer non venivano neppure individuati.
Negli archivi statali c’erano centinaia di casi di omicidio irrisolti che languivano in attesa di essere dimenticati, altrettanti dossier relativi a persone scomparse che non erano mai state ritrovate.
Ogni anno in Italia sparivano circa duemila bambini, una cifra immensa.
Solo la metà veniva ritrovata, per gli altri mille c’era l’oblio. Anche mediatico.
Stiva si stupiva sempre di come la stampa non si occupasse che di una decina al massimo di questi casi, dando rilevo a un numero esiguo rispetto alla massa reale di sparizioni.
La risposta era semplice e cinica: non si potevano riempire le pagine dei giornali con notizie di quel tipo.
I lettori si sarebbero annoiati in fretta e quelle notizie non avrebbero più attirato nessuno.
Il senso della misura era indispensabile, nel marketing.
Quindi non potevano sperare che per loro le cose andassero troppo diversamente.
Certo, non erano persone comuni, un giornalista e un medico legale, con conoscenze negli ambienti giusti. Gli inquirenti avrebbero messo in campo uno sforzo maggiore per risolvere l’enigma e trovare possibili superstiti, ma il finale era purtroppo molto prevedibile.
Anche in centrale avevano detto a Levin di non farsi troppe illusioni.
Statisticamente le speranze di successo in casi simili erano scarse.
Poi c’era la domanda principale, rimasta in sospeso e che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di considerare.
Se davvero loro madre era ancora viva, come ci era finita la sua fede nello stomaco del mostro?
L’unica speranza era legata a quell’appunto nell’agenda del cellulare, relativo all’acqua da portare a una certa Loredana, che anche Levin aveva confermato come vero dopo aver parlato con la Polizia.
I morti non potevano bere, questo era chiaro.
Un elemento che diveniva un mimino appiglio di speranza.
Ma una grande nuvola grigia, come il cielo di Torino, si stava addensando sul loro futuro.
Anche perché c’erano altri particolari che Stiva non conosceva e che erano stati riferiti al fratello, mentre sporgeva denuncia.
Dettagli non ancora diffusi ai mezzi di informazione e che complicavano il quadro.
Prima di tutto la carne.
Nel congelatore dell’appartamento erano stati rinvenuti resti umani riconducibili ad almeno tre persone differenti, di cui una era certamente di una donna tra i 50 e i 70 anni.
Questo corrispondeva con l’età di loro madre.
E poi il computer: nel portatile della Iena erano state trovate diverse mail di risposta all’annuncio che egli aveva inserito, giunte da ogni parte del Paese, alcune addirittura dall’estero.
Era difficile dire a quali avesse risposto positivamente e a quali no, perché tutte le comunicazioni si interrompevano quasi immediatamente. Probabilmente Garlanda aveva usato un altro terminale e un’altra casella mail per le conversazione più prolungate. Infatti non era stata neppure trovata traccia dello scambio avvenuto con Deodato, dopo il primo botta e risposta. La Polizia aveva provato a risalire alle identità che si celavano dietro agli indirizzi mail delle persone che avevano risposto all’annuncio, ma non sempre era stato possibile: nei casi in cui avevano usato false generalità e si erano connessi non attraverso apparecchi privati, l’identificazione diventava difficoltosa.
Negli altri casi invece le persone ritracciate erano ancora tutte quante vive e vegete.
Avevano confermato d’aver risposto all’annuncio, un po’ per gioco un po’ per senso del brivido, ma la cosa si era fermata lì. a quanto pareva la Iena era bravo a riconoscere i mitomani dalla gente che poteva essere presa sul serio.
Nessun indizio invece era riconducibile a Loredana Paltrineri, loro madre.
Se davvero aveva risposto all’inserzione l’aveva fatto con un account fasullo.
E proprio questo punto non convinceva i due fratelli, che conoscevano la sua avversione alla tecnologia.
Per quel che ne sapevano loro madre era appena in grado di usare le funzioni base di un computer, non certo gestire indirizzi di posta e annunci on-line.
Avevano tentato di fare alcune congetture in merito, forse non si trattava di lei, si erano detti.
Ma ogni speranza naufragava di fronte alla fotografia che Levin aveva sulla memoria del cellulare.
L’anello che aveva trovato nello stomaco dell’assassino era senza dubbio la sua fede.
Anche Stiva l’aveva riconosciuta al primo sguardo, non aveva neppure voluto andare in centrale per vederlo di persona: quell’immagine era sufficiente.
I due fratelli si guardarono negli occhi per pochi istanti e tra loro tutti quei pensieri divennero evidenti senza che ci fosse bisogno di parlare.
Da quando i genitori si erano separati anche le loro vite si erano in qualche modo divise.
Levin era andato a Torino per seguire la sua passione per la medicina legale, mentre Stiva era rimasto a Roma, assunto presso un piccolo quotidiano locale. Poi le loro carriere avevano preso il volo e le occasioni per incontrarsi erano diventate sempre più rare.
Più o meno erano aggiornati sulle loro rispettive vicende: entrambi brillanti nel lavoro, avevano avuto alcune storie con diverse donne ma nessuna importante: amavano la libertà e l’indipendenza che offre la vita da single. Solo Stiva da un paio di anni si era deciso ad avere una relazione più stabile con Elisa, che il fratello aveva conosciuto poche settimane dopo che i due avevano iniziato a frequentarsi.
L’occasione dell’incontro non era stata delle più felici: loro padre, malato già da tempo, non aveva superato l’ultimo ciclo di cure.
Il suo funerale era stata l’ultima volta in cui si erano trovati tutti insieme, anche con loro madre.
Non era un bel ricordo e rischiava di rimanere l’ultimo, segnato da eventi ancora più cupi.
Eppure, nonostante la distanza che li separava, il loro legame rimaneva tanto forte da permettere uno scambio di pensieri attraverso un semplice sguardo.
Così come era sempre stato.
E ora entrambi sapevano cosa pensava l’altro: nessuno dei due avrebbe atteso gli sviluppi di quella vicenda con le mani in mano.
Avrebbero agito.
“Cos’hai in mente di fare adesso?” Stiva parlò tra i denti, come se la domanda fosse rivolta a se stesso.
“E tu?”
“Lo sai.”
“Sì, lo so.”
“A quest’ora Vronskij si sarebbe già messo a cercare nostra madre, senza nemmeno andare alla Polizia.”
“Già, lui era piuttosto irruente. Se fosse ancora qui ci avrebbe già fatto alzare il culo da queste sedie per andarla a cercare.”
Nel nominare il fratello, a Stiva tornò in mente d’un tratto un volto dalla pelle chiara e due occhi azzurri, un ciuffo nero di capelli sulla fronte.
Un ragazzo divertente e sfrontato che gli mancava più di quanto non voleva ammettere.
La sua morte, quasi trent’anni prima a causa di uno stupido incidente, era stata la principale causa della separazione dei loro genitori, della malattia del padre e dell’insana deriva mentale che aveva imboccato sua madre.
“Se fosse ancora qui forse tutto questo non sarebbe neanche successo.” disse, con una forte intonazione risentita, a voce bassissima.
Se Levin udì le sue parole non lo diede a vedere, perché non replicò nulla. Si limitò a far notare che dovevano decidere il modo in cui intendevano muoversi.
“Da dove pensi che dovremmo iniziare?”
Stiva alzò la zip della giacca.
“Dall’unica cosa che ci interessa: ritrovarla. Qual è il primo posto che ti viene in mente seguire le tracce di una bestia?”
Levin sorrise e annuì lentamente con la testa. Avevano di nuovo in mente la stessa cosa.
“La sua tana. Andiamo a casa della Iena.”
 
6)
Quando frequentava il liceo qualcuno aveva detto che Linda era una ragazzina triste.
Non parlava molto volentieri, non aveva rapporti d’amicizia significativi, non sembrava interessata ai ragazzi. Era sola, molto più di qualunque altra ragazza della sua età. Nei suoi occhi non c’erano tracce di vita, sembrava una bambola spenta.
A scuola i suoi voti erano ottimi, in tutte le materie, ma sembrava che non le importasse più di tanto.
Sua madre non la vedeva studiare quasi mai.
Quando stava a casa la si poteva trovare quasi sempre davanti al televisore per guardare i suoi video musicali preferiti, oppure chiusa in camera sua ad ascoltare canzoni allo stereo.
Adorava soprattutto i Nirvana e faceva suonare Nevermind, l’album più famoso della band, per ore intere, a ripetizione.
L’aria della sua camera era gonfia di grunge.
Una volta sua le aveva chiesto perché le piacessero così tanto.
Lei si era limitata a dire “Io e Kurt Cobain abbiamo parecchie cose in comune.”
Sua madre si era accontentata di quella risposta e non aveva indagato oltre. Si sa come sono fatti gli adolescenti: tendono a emulare i propri idoli, aveva pensato.
Ma se avesse scavato più in profondità avrebbe scoperto che a legare Linda a Kurt era qualcosa di molto più profondo, qualcosa che avrebbe trovato inquietante.
Lui e Linda erano i migliori amici di Boddah.
Boddah era l’amico immaginario del frontman della band di Seattle, a cui aveva addirittura indirizzato la lettera che scrisse prima di togliersi la vita.
Lei l’aveva conosciuto leggendo una biografia postuma del cantante. Aveva pensato che dopo la morte di Kurt, nessuno si era più preso cura di Boddah, e che in quel momento dovesse soffrire molto, solo e senza il suo amico con la chitarra.
Così aveva deciso che ci avrebbe pensato lei, ad aiutarlo.
Aveva iniziato a parlargli, a chiamarlo dall’ombra in cui si era nascosto e a fargli ascoltare tutte le canzoni che aveva scritto Kurt.
Lui arrivò subito, come una presenza buia.
Ben presto divennero inseparabili e il tempo trascorso con Boddah furono ore e giorni felici e spensierate, appaganti.
Finalmente Linda era riuscita a instaurare un rapporto profondo, aveva trovato qualcuno con cui condividere i suoi sentimenti.
La loro amicizia andò avanti per diversi anni, clandestinamente: nessuno era a conoscenza di Boddah, oltre a lei.
Ma anche questi lieti finirono, a un certo punto.
L’apatia della ragazza, i lunghi monologhi che faceva in camera, da sola, che sua madre aveva più di una volta ascoltato dalla porta chiusa, e tante altre stranezze del suo carattere, avevano convinto i suoi genitori a portarla da uno specialista.
Intorno ai diciotto anni a Linda fu diagnosticata una leggera forma della sindrome di Asperger, un disturbo comportamentale ancora poco studiato a quei tempi, dai sintomi vari e mutevoli a seconda dell’individuo, e che in particolare comprometteva le interazioni sociali, rendendo difficile la comunicazione empatica con il resto del mondo.
Quando lo scoprì Linda fu contenta: quegli stessi sintomi li aveva individuati anche leggendo la storia di Kurt, o forse era stato Boddah a raccontarglieli, non ricordava.
I suoi genitori invece furono meno felici di apprendere quella notizia.
Il padre, un piccolo imprenditore piemontese, non volle accettare la disfunzione della figlia e cercò in tutti i modi di farla curare per renderla normale.
Dopo vari tentativi e molte pillole di ogni tipo sembrò che la ragazza iniziasse a migliorare.
Non parlava più da sola, aveva iniziato a uscire quando le sue amiche la invitavano e non passava più intere giornate da sola.
In realtà il suo disturbo di era semplicemente assopito, sotto l’influenza delle varie medicine che le venivano somministrate: aveva smesso completamente di provare qualunque tipo di emozione e agiva solo in funzione di quello che le veniva chiesto.
Se sua madre le diceva che era ora di studiare, lei lo faceva senza sentirne il bisogno; se suo padre le proponeva di andare a fare shopping, lei lo seguiva di negozio in negozio acquistando quegli articolo che le pareva piacessero di più a lui; se una sua amica la invitava a una festa lei diceva semplicemente di sì, anche se non ne aveva per niente voglia.
Così trascorsero tutti gli anni dell’università e quelli del tirocinio.
Linda viveva in uno stato di semi-catatonia, abbastanza cosciente però da poter condurre una normale vita sociale.
I suoi genitori si era ovviamente accorti che non tutto era risolto, anzi. Ma avevano preferito non guardare in faccia un problema che li spaventava troppo per essere affrontato. Così avevano lasciato le cose come stavano, evitando di spezzare quel fragile equilibrio che si era creato.
A frantumare quella precaria condizione fu invece l’ingresso nel mondo del lavoro.
Non tanto per quello che andò a fare, ma per la persona che incontrò.
Già il giorno del colloquio, mentre un giovane e affascinante medico le faceva alcune domande relative ai suoi studi, dentro di lei accadde qualcosa.
Mentre ascoltava la voce leggera di quel dottore, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e sentiva che dentro di lei un intero monto andava in pezzi.
Qualcosa di sconosciuto la stava agitando, un’emozione così forte che la squassava sin nelle fondamenta.
Ma non le aveva forse detto che lei non poteva provare sentimenti?
Eppure ne era certa: si era appena innamorata, a prima vista, di quel giovane medico legale dal nome strano.
Sentì un’incontenibile bisogno di masturbarsi.
“Posso andare un momento in bagno?” chiese a un certo punto, alzandosi prima di ottenere una risposta.
Levin aveva pensato che quella era una ragazza piuttosto strana. Carina, ma strana.
Però vantava un curriculum invidiabile e, soprattutto, con una raccomandazione da una persona di fiducia.
Avrebbe accettato la sua candidatura e l’avrebbe presa come assistente.
Seduta in una stanza buia, appena illuminata dalle luci dei lampioni notturni che filtravano dalla finestra, Linda ripensava a quei primi giorni di lavoro e a quello che aveva provato.
Il suo desiderio di lui era così forte che copriva tutto il resto.
Si sentiva felice, d’una felicità che non credeva potesse esistere.
Forse era accaduto un miracolo, pensava, come succede a volte a certe persone malate, che guariscono contro ogni previsione dei medici.
I suoi genitori si erano accorti del cambiamento, ma non avevano detto nulla: non volevano rischiare di scalfire quella nuova felicità.
Ma poi, dopo alcuni mesi, era arrivato il giorno della resa dei conti. Da alcuni discorsi di Levin, Linda aveva capito che il suo sentimento non era ricambiato.
E tutto, di nuovo, andò in mille pezzi. Sentì montare dentro di sé una nuova emozione.
Un dolore così forte che spazzava via tutto quello che di bello era nato in quel tempo, tanto da cancellarne anche il ricordo.
Fu come un uragano, che si sradicò ogni possibilità di redenzione.
Dopo arrivò di nuovo il silenzio, la calma, il nulla.
E in quel nulla una voce di nuovo la chiamò.
Una voce che credeva d’aver dimenticato.
La voce di un amico che voleva salvarla.
La voce di Boddah, che tornava da lei nel momento del bisogno.
“Ora stai tranquillo.” gli diceva sottovoce mentre, dalla poltrona, guardava le luci in strada. “Vedrai che tutto si sistemerà, me l’ha promesso.”
“Io sono calmo, non ti preoccupare. So che andrà tutto bene.” replicava Boddah “Tu come ti senti?”
“Non so. Come dovrei sentirmi?”
Boddah sorrise: “Lo sai come diceva il mio amico, in questi casi?”
“No.”
“I'm so happy because today I've found my friends ... They're in my head.”
“Già.” Disse Linda, ma senza sorridere a sua volta: non ricordava più cosa significava, quell’espressione.
L’unica cosa importante per lei in quel momento era il peso del metallo freddo del revolver appoggiato alle sue gambe, dentro la borsetta.
 
7)
La casa della Iena era un appartamento al primo piano di un vecchio stabile della periferia di Torino, uno di quelli tirati su durante il boom economico degli anni Sessanta, destinato agli operai che in quel periodo venivano a cercare lavoro nel capoluogo piemontese.
Levin e Stiva avevano parcheggiato la macchina poco distante e ora stavano percorrendo a piedi il viale che conduceva all’edificio.
Chissà come si sentiva la gente che abitava lì, dopo che la storia di Garlanda era venuta fuori.
Vivere vicino a un mostro deve fare un certo effetto.
Così vicini all’orrore e non saperlo. Dopo ci si deve sentire più o meno come un superstite.
In quel momento invece i due fratelli avevano altro per la testa.
Per esempio si stavano chiedendo come superare il portoncino d’ingresso e poi entrare nell’appartamento. Nessuno di loro sapeva come forzare una serratura.
“Ci penseremo lì.” aveva detto Stiva.
La luna alta nel cielo illuminava le forme del mondo, rannicchiate le une contro le altre, come a difesa della propria esistenza. Larghe ombre oblique ritagliavano l’oscurità che era calata dall’alto dei cieli.
Con grande sorpresa trovarono il portoncino d’ingresso aperto, appena socchiuso.
Almeno un problema si era risolto da solo.
“Hai idea di cosa dovremo cercare?” chiese Levin sottovoce mentre salivano la rampa di scale che conduceva all’appartamento.
Stiva scosse la testa senza voltarsi: “Qualunque cosa ci possa sembrare interessante.”
“Hai pensato anche tu che la casa è già stata rivoltata da chissà quanti agenti, vero?”
“Certo. Ma loro non cercavano quello che interessa a noi. Non potevano individuare un collegamento con nostra madre, se non sapevano di doverlo trovare.”
Vero. Lo stesso pensiero che aveva avuto anche Levin. Gli serviva solo una conferma.
Arrivati al pianerottolo del primo piano si trovarono di fronte l’altro problema che avevano già messo in conto: aprire la porta e rompere i sigilli della Polizia.
“Provo a forzarla.” Accennò Levin.
Ma di nuovo, con grande sorpresa per entrambi, non appena appoggiò il palmo sulla maniglia la serratura scattò e la porta si aprì senza problemi.
Anche questa aperta.
Possibile?
Si scambiarono un’occhiata sospettosa. Se era una coincidenza era davvero singolare.
Cosa stava accadendo?
Accesero le torce che Stiva aveva comprato nel pomeriggio e si chiusero la porta dietro le spalle, cercando di non fare rumore.
Evitando di puntare il fascio di luce verso le finestre iniziarono a guardarsi intorno.
Come sempre l’aspetto esteriore del male era più banale di quanto ci si potesse aspettare.
Né la mobilia, né le suppellettili, né qualunque altro dettaglio in quella casa faceva pensare alla vera natura di chi la abitava.
 
L’ambiente puzzava di chiuso e di candeggina, l’arredamento era un accozzaglia di stili diversi, di scarsa qualità. Non c’erano quadri alle pareti ma soltanto un calendario astrologico.
Dopo aver dato un primo veloce sguardo all’ingresso e ad una camera i due fratelli si diressero in salotto. Non avevano molto tempo, certo, ma preferivano farsi un’idea generale dell’abitazione, prima di mettersi a cercare quello che li interessava.
Non che ci fosse molto da vedere: la casa era piuttosto piccola, un trilocale.
Il salotto era l’ambiente più grande, con una televisione a schermo piatto, un mobiletto a vetri per i liquori, un divano e due poltrone di cui, curiosamente, una era voltata verso la finestra.
Il fascio di luce della torcia di Levin percorse tutta la lunghezza della camera, rischiarando velocemente l’ambiente.
Mentre illuminava la poltrona qualcosa attirò la sua attenzione.
Gli sembrò di scorgere qualcosa che non riuscì subito a mettere a fuoco, come un’ombra completamente fuori luogo.
Tornò con la luce in quella direzione e fece segno a Stiva di guardare.
Quando il raggio luminoso raggiunse l’altezza del poggiatesta entrambi rimasero impietriti nel vedere qualcosa di molto simile a un ciuffo di capelli lunghi e lisci spuntare dal lato della poltrona.
Alzarono istintivamente gli occhi verso la finestra di fronte, per cercare nel riflesso del vetro una spiegazione a quello che stavano vedendo.
L’immagine di una donna, seduta e con le gambe accavallate, comparve davanti loro.
Per Stiva quella visione era qualcosa di inconcepibile.
Per Levin lo era ancora di più.
“Linda?”
Dalla poltrona una ragazza bionda e alta si levò in piedi, girandosi lentamente verso di loro.
“Ciao Levin.” Il suo volto era inespressivo, i suoi occhi sembravano in fiamme.
“Linda ma cosa ci fai qui?”
“Mi aveva detto che saresti venuto.”
“Ma di cosa parli?”
“Ma questa chi è?” chiese Stiva completamente disorientato.
La ragazza girò intorno alla poltrona e si avvicinò a medico legale.
Non disse nulla ma fissò Levin negli occhi.
“Mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?”
Quando fu abbastanza vicina la ragazza lo prese per un braccio e lo avvicinò a sé, baciandolo sulle bocca e cercando di infilare la lingua tra le sue labbra.
Levin la spinse via, incredulo.
“Che cazzo fai?”
“Allora vuoi dirmi cosa succede? Chi è questa?” Stiva cercò di tenere basso il volume della voce, ma lo stupore di quell’incontro ebbe la meglio sul suo autocontrollo.
Praticamente gridò.
Linda lo fulminò con un’occhiata di pietra, poi infilò la mano nella borsetta e tirò fuori la pistola. Gliela puntò in faccia.
“Stai zitto.” Poi si voltò verso Levin “Se gli sparo neanche me ne accorgo, lo sai?”
I due fratelli erano scioccati. Levin voleva dire qualcosa ma non riusciva ad articolare alcun suono.
“E allora, vuoi spiegare a tuo fratello chi sono? Mi sembra così curioso.”
“Linda, ma cosa stai facendo?”
“Ti ho detto di dirgli chi sono.” La voce della ragazza era diventata appena più dura.
“Va bene, ma stai calma. Lei è Linda, la mia assistente.”
“Appunto” lo interruppe “La sua assistente.”
Poi si voltò verso la finestra e parlò di nuovo, rivolgendosi apparentemente al vuoto.
“Sì, ora glielo dico, non ti preoccupare.”
“Ma con chi stai parlando?” nonostante il revolver puntato in faccia Stiva non trattenne quelle parole, mentre il suo cervello girava all’impazzata per cercare una via di fuga a quella situazione.
“Stai zitto, ti ho detto.” Linda sembrava calmissima. “Vedi, Levin, quando avevo diciotto anni mi è stata diagnosticata la sindrome di Asperger. Non credo di doverti spiegare di cosa si tratta. Beh, nonostante questo un bel giorno è successo un miracolo: mi sono innamorata di te.”
Stiva era muto, sconcertato. Si guardava intorno cercando di capire cosa stesse accadendo.
Le ombre della notte tagliavano la faccia di Linda in parti uguali. I suoi occhi brillavano come vetro sotto i raggi della luna.
“Ma il miracolo non è servito a niente, perché tu non te ne sei neanche accorto.”
“Ti prego Linda, calmati. Ma cosa stai dicendo?”
“Sono calma, non posso farne a meno.”
Levin non sapeva cosa replicare, la ragazza proseguì.
“E non posso fare a meno di amare gli schemi. E le tue labbra.”
E prima che Levin se ne potesse rendere conto, Linda lo aveva di nuovo baciato.
Poi, dopo aver premuto la bocca contro la sua, si pulì le labbra con un dito.
“Niente, non sento niente. Chissà cosa si deve provare quando si bacia qualcuno.”
Stiva era frastornato, ma nonostante questo non trattenne la collera.
“Allora ce lo vuoi dire che cazzo c’entri tu con la Iena? Cosa sai di nostra madre?” urlò.
La ragazza lo squadrò, sempre tenendolo sotto tiro con la pistola.
Sul suo viso si disegnò qualcosa che sembrava un sorriso, e per la prima volta si poté notare una nuova espressione sul suo volto.
“La Iena ha ricevuto tante risposte al suo annuncio ma ha ricontattato solo i migliori. A proposito, non chiamarlo più Iena, è un nome stupido. Questo è il suo schema.”
Levin cercò di parlare con calma, come faceva lei “Tu lo sapevi che avrei trovato…” ma non riuscì a finire la frase.
“L’anello? No, non sapevo niente. Ma ho capito tutto al volo. Lo schema era iniziato. È così bello, è una straordinaria architettura.”
Un gatto miagolò da qualche parte e ricordò a tutti loro che esisteva ancora un mondo, al di fuori di quelle pareti.
Levin fece un passo verso di lei ma Linda si scostò, afferrò Stiva per un braccio e gli appoggiò la canna della pistola sulla guancia, premendo con forza.
“Forse è meglio se stai fermo, dottore.”
Levin non si mosse.
“Va bene, dimmi cosa vuoi da me.”
“Niente, ormai. Hai distrutto il miracolo e non c’è più niente che puoi fare.”
“Ti vuoi vendicare? È questo?”
“Questa è la cosa più stupida che potevi dire.”
“E allora perché?”
“Serenità forse. Lui me l’ha promesso.”
“Serenità?”
“Stai zitto, adesso. Sono qui solo per dirti questo: Io sono Kitty. E questa è la passione.”
Un lampo attraversò il cervello dei due fratelli. Kitty era uno dei personaggi di Anna Karenina, la donna di cui Levin Konstantin si innamorava.
Cosa significava?
Tutto questo non aveva senso.
“Devi completare lo schema, Levin. Devi arrivare fino alla fine.”
“Ma quale schema? Cosa dobbiamo fare?”
“L’unica cosa che so è che non dovrete fare nulla. Solo tu potrai continuare. Stiva si ferma con me, il resto del percorso è un viaggio tutto tuo.” Dicendo questo la ragazza appoggiò la pistola alla fronte del giornalista.
“Che cosa vuoi fare?”
“Vattene via Levin, te l’ho detto, devi continuare solo tu.”
“Metti giù quella cazzo di pistola, porca puttana! Smettila con questa cosa, qualunque cosa sia!”
“Vai via, Levin.”
Il medico legale pensò che forse era preferibile assecondare la ragazza, che appariva completamente alienata. I suoi occhi bruciavano malati.
“Va bene. Allora dimmi dove devo andare.”
“Non lo so. Io so soltanto cosa devo fare a Stiva.”
“Stai calma, per piacere. Come faccio a proseguire lo schema se non ho nessuna traccia?”
“Non so nemmeno questo, mi spiace. Lui mi ha solo detto che sarebbe successo qualcosa, a un certo punto, e tutto sarebbe stato chiaro.”
Lui chi? Avrebbe voluto domandare Stiva.
Ma non fece in tempo perché in quello stesso istante l’esplosione di uno sparo coprì tutti gli altri suoni.
Il volto di Stiva si coprì di sangue, un occhio volò via insieme a pezzetti di zigomo e pelle bruciata. Levin lo vide cadere a terra e rotolare, come al rallentatore.
Poi partì un altro colpo e questa volta fu la carne dello sterno a esplodere, mentre lo sterno e le costole si frantumavano sotto la pressione del proiettile.
Per quanto gli sembrò incredibile, Levin riuscì a udire quel suono tanto particolare che sentiva ogni volta che procedeva con un’autopsia e le sue gambe tremarono, nell’ascoltarlo.
Intanto un corpo si accasciava senza vita al suolo mentre un altro si dimenava in preda agli spasmi per lo shock.
Stiva vide Linda cadere di fronte a lui, trafitta da due colpi d’arma da fuoco e la sua reazione fu incontrollata: iniziò a singhiozzare, convinto che quegli spari fossero diretti a lui, sicuro che la sua ora fosse arrivata.
Invece così non fu.
Era di Linda, quel corpo senza vita sul pavimento.
Passarono alcuni secondi prima che i due fratelli si rendessero conto di cosa era accaduto e si voltassero verso la porta che dava sul corridoio.
Un uomo sconosciuto, apparso come dal nulla, stava in piedi e reggeva una pistola con entrambe le mani.
“È meglio se ce ne andiamo di qui al più presto.” disse. E poi, facendo un cenno a Stiva e indicando il corpo di Linda: “Prendile la pistola, potrebbe servire.”
Ancora sotto shock i due fratelli fecero come diceva e lo seguirono fuori dalla casa.
 

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