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Non prendetevi mai gioco di un gufo

Salve a tutti, mi chiamo Jean Coureaut, meglio conosciuto come "Il Gufo".
Emisi il primo vagito ventisette anni fa in quel di Bordeaux, accompagnato dalla buona stella della malasorte che, come ogni fedele amica, non mi ha mai abbandonato.
Nato sotto il segno dello Scorpione, a novembre per il giorno dedicato ai defunti, avrei potuto chiedere al Supremo Consiglio Divino qualcosa di meglio, un mercoledì delle ceneri ad esempio, ma mi accontentai di quel nefasto ma bizzarro giorno che mi diede i natali.
 
La mia casa, come era ovvio per un tipo come me, sorgeva accanto al cimitero cittadino e, sin da bambino, nutrii una forte simpatia per quel luogo. Non riuscii mai a considerarlo un luogo di pianto e disperazione, ma un luogo di riposo, di silenzio, in cui ogni lapide respirava ed espirava odore di muschio e foglie ed esigeva il rispetto di un autunno nobile e perenne.
Spesso mi recavo al cimitero quando anche la solitudine si rifiutava di farmi visita. Stavo lì, seduto su una panca accanto ad una cappella appartenente ad una delle famiglie più in vista della mia cittadina che portava come stemma un gufo. E da lì derivò il mio soprannome.
Il giorno in cui fu usato per la prima volta questo appellativo lo ricordo ancora come fosse ieri. Avevo sedici anni e, come al solito, mi trovavo su quella panca a sfogliare le pagine di un libro d'arte illustrato, ad un tratto un malumore momentaneo mi colse e poggiai il libro sulla panca accovacciandomi tutto. Cingevo le gambe con le braccia quasi a formare una cintura e la mia testa affondava dal naso in giù nell'incavo delle cosce, lasciando visibili solo gli occhi stanchi e assorti. Un bimbo passò davanti a me con la madre e, guardandomi, gridò:"Guarda mamma!!! C'è un gufo!! Un Gufo come quello dello stemma dei Sadeau!" indicandomi insistentemente. La madre, mortificata, tiro a sé il bimbo e si allontanò in fretta, mentre io mi lasciai andare ad un largo sorriso e mi girai verso il gufo al quale ero appena stato paragonato.
"Beh, effettivamente dovevo proprio somigliargli raggomitolato com'ero!". E da quel momento "Il Gufo" divenne ufficialmente il mio pseudonimo.
Le mie giornate al cimitero divennero presto fonte di continua ispirazione e cominciai a scrivere e talvolta a disegnare, adoravo ritrarre le sculture ornamentali delle tombe, le trovavo ricche di un fascino spesso assente nella purezza di certe opere d'arte che avevo potuto ammirare nei cataloghi e musei che avevo girato.
La prima grande differenza stava nell'esposizione alle intemperie. I volti degli angeli che custodiscono le salme dei nostri cari, le loro ali, i loro panneggi, sono sempre ricoperti da un sottile strato di muschio, sono anneriti dalla pioggia, dalle ossidazioni, corrose dal tempo e dalla noncuranza dei passanti. Non si riserva loro la stessa attenzione che si osserva quando ci si ritrova di fronte ad una scultura classica o neoclassica e me ne chiedo tuttora il motivo. Perché lasciare che tutti possano avvicinarsi a queste opere monumentali deturpandole di continuo? Perché lasciare che esse si consumino al vento? Hanno meno dignità di una Nike o di un Canova che invece riposano al caldo delle sale dei musei d'Europa?
Forse, i miei dubbi e le mie domande nascono dalla profonda affinità che lega me a quelle statue, un'affinità che va oltre qualsiasi definizione, qualsiasi tentativo di configurazione. Sono cresciuto coccolato dagli sguardi malinconici e tristi di quegli angeli e di quelle madri, ma non ne sono stato condizionato. Essi mi appartenevano già, risiedevano in me ed io in loro.
La distanza che veniva posta dagli uomini fra queste opere e quelle dell'arte ufficiale aristocratico-borghese era la stessa che la società metteva fra me, Il Gufo, e gli altri. Loro guardati con ammirazione e meraviglia, io con tristezza, ribrezzo, compassionevolmente, quasi storcendo il naso come fossi il malaugurio in persona. Ero anche io una creatura cimiteriale, ergo qualcuno da evitare.
A me non importava poi molto a dire il vero. Avevo i miei libri, le mie poesie e la mia arte e, soprattutto, avevo imparato ad osservare gli altri da una posizione, come dire, privilegiata. Esattamente come un gufo potevo vedere tutto dall'alto dei rami del mio albero e potevo guardare senza essere guardato, intercettare ogni minimo sguardo, movenza o segnale che tradiva le intenzioni del verbo e devo ammettere di aver conosciuto molte persone in questo modo. E posso affermare di averle conosciute sicuramente meglio di coloro i quali si circondavano.
Nei rapporti, a volte, si fa l'immenso errore di non osservare e di basarsi solamente sulle parole dette, ci si illude che la comunicazione orale o comunque per via di parole sia l'unica a poter accertare intenzioni e volontà, ma spesso è esattamente l'opposto. La convenzionalità, l'ipocrisia, la menzogna, anche se bonaria, sono le regine dell'interazione umana e lo avevo capito io che, di interazioni umane, credo di averne avute meno di un gatto randagio.
E mi piaceva lasciare che le persone continuassero a recitare per me il loro infinito teatrino, era un sollazzo, una beffa, una personale rivincita.
Ma un giorno il mio incanto finì. Il mio universo costellato di simboli funerei, di sensazioni e vita vissute in ombra fu brutalmente messo a nudo.
E per farlo non bastò che un gesto, un piccolo, dannatissimo gesto che mi costò ciò che tuttora patisco.
Accadde l'inverno scorso, durante una giornata nevosa e scura. Stavo recandomi al solito rifugio per  trascorrere qualche minuto in silenzio da dedicare alle mie usuali attività, quando una scena terribile mi si presentò innanzi.
Un gruppo di ragazzi, sì, quelli appartenenti a "loro", stava distruggendo la mia panchina.
Con un piccone violentavano il legno delle assi, lo squarciavano con violenza quasi fossero animali inferociti mossi da una rabbia primitiva, altri martellavano il ferro battuto, prendendone a pugni ogni parte scoperta, riempiendolo di lividi. Vedevo ogni parte di quella panca, che fu come una seconda madre per me, smembrarsi e roteare in aria come brandelli di carne sbranati e lanciati dalla furia assassina e famelica.
Ero atterrito. Dentro di me qualcosa moriva, ma ne nasceva un'altra dalle mostruose sembianze.
Tentai di trattenermi, ma quando i miei occhi assistettero all'ultimo e più crudele atto di quella spietatezza insensata, non riuscii più a controllare le mie reazioni.
Il gufo, il mio gufo, fu stroncato freddamente e gettato al suolo. Si infranse in mille parti differenti attorno alle quali quei maledetti danzavano ridacchiando come iene.
Mi guardarono e qualcuno urlò: "Bene, caro il nostro Gufo. Adesso hai perso tutto ciò che eri. Adesso puoi anche smetterla di fingere di esistere, perché in realtà non sei mai esistito."
Quelle parole rimbombarono in me come un tuono, quello scempio, quella scena di orrore mi scosse dentro come un improvviso squarcio. Afferrai uno degli arti della panca ormai senza vita e mi scagliai contro gli assalitori.
Non ricordo quante volte colpii, non ricordo nulla dei minuti seguenti. Ricordo solo una pozza di sangue, le mie mani sporche e le statue, quelle statue che, ancora una volta, mi rivolgevano il loro sguardo. Almeno loro mi erano vicine e, forte di questa consapevolezza, scoppiai in lacrime.
Adesso sono qui, scrivo da questa cella di questo carcere angusto e freddo, ma ciò non mi preoccupa, né mi rende particolarmente inquieto.
Qui nessuno conosce la mia storia, nessuno sa delle mie poesie, dei miei disegni e delle mie riflessioni, nessuno qui ha udito la mia voce, però tutti, ormai, hanno imparato una cosa: non bisogna mai prendersi gioco di un gufo.
 
Alexis
19.10.2010

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