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Gli insetti

Ero su,
al nord.
Ero in un bar
e scherzavo col barista,
la solita solfa
tra “polentoni”
e “terroni”
insomma.
Eravamo tutti un po’ alticci
e anche se avevo
passato
serate migliori,
mi stavo divertendo.
All’improvviso
un nero che stava lì,
mi mise una mano sulla spalla,
- Paisà- mi disse,
- Paisà- gli risposi.
Mi disse che era a stato a Napoli
per dieci anni
e per dimostramelo
bestemmiò un paio di volte la Madonna
come se solo a Napoli
si bestemmiasse,
in tutti i paesi cattolici
si bestemmia,
anzi,
la bestemmia
è caratteristicamente
cattolica.
Ad ogni modo
era veramente napoletano
come era
 vero
che era
il più ubriaco di tutti
lì dentro.
Prese lui la matta in mano,
nel senso che andò avanti
a parlare solo lui.
Io l’ascoltavo
pensando quale peccato
avessi fatto
per meritarmi questo,
lo stavo a sentire
dicendo sempre di sì,
che tanto a dire di sì
non si sbaglia mai.
Il barista si allontanò
per badare ai fatti suoi,
il nero continuava a farmi
un testa di chiacchiere,
non mi mollava
per un attimo.
Uscii
fuori
a fumare
e lui mi seguì.
Stette zitto
ed io lodai
Iddio.
Dopo un po’
si rifece sotto.
Mi disse che aveva
il metodo per fare una barca di soldi.
Il fatto mi interessò
sul serio,
hai visto mai?
pensai.
Mi spiegò la cosa,
l’affare consisteva
nel mettersi
con la mala
delle mie zone,
non mi disse
come saremmo
diventati
soci ,
ma qualcosa
la immaginai.
Ad un certo punto
poi
lui
aveva
uno stratagemma
per tirarcene fuori
e fregarli.
Esatto,
voleva fregare
chi vive
fregando
la gente.
Mi vennero i brividi
solo a sentirla
sta cosa.
- Fraté,
 tu si pazzo!-
gli risposi.
Lui mi mandò
a quel paese
e rientrò
nel bar.
Non mi diede più
retta
per tutta
la serata.
Un paio di sere dopo
ci ritrovammo
allo stesso posto,
lui era sobrio
ancora per poco.
Mi ripropose
la stessa cosa.
Io rifiutai
di nuovo
e lui
di nuovo
mi mandò a quel paese.
Non lo rividi mai più.
 
Era la primavera successiva,
la stagione andava
via via
infiammandosi
per trasformarsi
nella nuova
estate più torrida
del secolo.
Ero tornato a casa mia.
Era una serata importante,
c’era la finale di coppa
e giocava la nostra squadra.
L’intera compagnia
aveva deciso
di guardare l’incontro
da un amico
che aveva
casa al centro,
quella notte
in caso di vittoria
ci sarebbe stato
da far baldoria.
Ero seduto sul divano
con una lattina di birra in mano,
guardavo il telegiornale
aspettando il collegamento
dal campo.
Era un’edizione breve,
tre o quattro notizie
al massimo
e niente di più.
C’era di nuovo burrasca
in Parlamento,
i soliti politici
che non se le mandavano
a dire
ma che poi alla fine
avrebbero trovato
un accordo,
tutti felici e contenti loro
e noi a prenderlo
sempre al solito posto.
Un po’ di gossip
e poi una notizia di cronaca.
Avevano identificato
uno dei corpi
trovati a pezzi
in una campagna
della provincia.
Fecero vedere la foto
dell’uomo.
Era lui,
il nero,
il pazzo con quell’idea folle,
si chiamava Martin
e non so quanti altri nomi
e veniva dal Camerun.
La polizia pensava
ad un regolamento di conti.
 
Finii di bere
la mia birra.
Accartocciai la lattina
stritolandola tra le mani,
uscii fuori sul balcone
a fumare.
Ero all’ottavo piano
ed avevo tutta la mia città
sotto i piedi.
M’affacciai sulla ringhiera,
vidi lontano
il mare che correva
a limonare
con la costa
e poi scappava,
tornava a limonare
con la costa
e poi scappava
ancora.
La mia città,
la mia amata città
con le sue case
di cartone.
Chinai la testa
e vidi la gente.
Parevano insetti,
formiche laboriose
che s’affannavano
a correre tra i rifiuti
e raccogliere
tutto ciò che c’era di buono
da conservare
per sopravvivere
al freddo invernale.
Insetti tenaci,
orgogliosi,
calpestati da secoli
di oppressione,
veloci a scappare
quando le cose andavano
troppo  male,
ma sempre felici di tornare.
Ingenui come i bambini
che credono a babbo natale,
di gusto o di malavoglia
disposti ad ingoiare
le promesse
dei politici, dei preti,
e di tutti i salvatori del mondo.
Sempre pronti a scherzare
e a prendersela
come Dio la mandava.
 
Se è vero che gli angeli non hanno sesso,
manco i diavoli ne hanno,
perché anche loro sono angeli,
caduti,
ma sempre angeli.
L’avidità è un sogno
e tutti hanno il diritto
di perseguirlo.
Il vecchio Martin
aveva lasciato
la sua terra
ed era venuto da noi
perché qui non si muore di fame,
qui c’è la civiltà
e civiltà vuol dire benessere,
vuol dire
morire
vecchi,
avere
problemi di pancia,
vuol dire
permettersi di andare
 in vacanza
anche se non si lavora
tutto l’anno,
vuol dire
regali
a Natale
e felicità sfrenata a capodanno,
vuol dire
spegnere
le candeline su una torta alla panna
quando è il nostro compleanno.
Martin
voleva tutto questo,
ma Martin era
nero
e avrebbe dovuto sudarsela
più degli altri,
fin troppo più degli altri
e alla fine
manco ce l’avrebbe fatta.
Non aveva petrolio da scambiare,
né era un dittatore
puttaniere
in cerca di affari
di stato.
Martin
era semplicemente
un uomo.
Martin aveva imparato
le regole del gioco
e aveva voluto
aggirare l’ostacolo,
aveva osato
e l’avevano beccato.
Ripassai in mente
tutta la vicenda,
Martin era stato un sognatore,
un idealista,
ed io un gran dritto
per aver capito
il pericolo?
Ero stato furbo per essere ancora vivo?
Ero coraggioso
per aver accettato il compromesso
di una vita modesta
ma onesta
per rimanere vivo?
O ero un codardo
e quindi per questo
ero ancora vivo?
 
Uno dei miei amici
venne a chiamarmi,
la partita era iniziata,
in caso di torto arbitrale
in città sarebbe successa
la rivoluzione.
Pensai a Martin
per l’ultima volta,
aveva imparato
a bestemmiare troppo bene
per non essere finito
in paradiso.

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