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La verità finta 2 - La scatola tragica

pezzo di Tagliavvenuto in risposta al mio "La verità finta"

"Rimane che la “ragion pura”nella sua globalità abbia ben altra estensione, tale che possa tentare e sfidare il noumeno; che l’arte a mio parere, materializzandosi in rappresentazioni, finzioni, come ben sottolinei nella seconda parte, da sola non possa farlo.

E allora?

Allora è una sfida immensa di realtà, verità e finti se vuoi, dove si deve vincere o morire. E questa sfida la può affrontare solo l’Io penso, l’intelletto umano rimasto solo, che sfiora il dio e l’anima senza poterli conoscere, ma che attraverso e mettendo in campo tutte le proprie facoltà mentali, facendosi unità oggettiva, molteplice, può arrivare a conoscere sé stesso, nello sforzo di cui individualmente è capace (azione e sentimento) combinandoli non solo all’interno, ma esternamente, collettivamente.

Si deve avere come obbiettivo lo scontro di concezioni del mondo." 

-

Caro Taglio (wow, che nome! E’ come scrivere a un film di Hitchkock), scusa se rispondo soltanto adesso alle tue intriganti osservazioni (ero all’estero fino a poco fa). E rispondo nella forma di una nuova apertura di discussione, essendo passato appunto troppo tempo dalla pubblicazione di “Verità finta”.

Il mio scritto era per altro del 2008 ed era la conseguenza della “irritazione”, per così dire, provocatami dalla falsificazione in atto di ogni nostro atto (a cominciare dalla politica). Partiamo da Kant. I suoi concetti di gusto e di estetica, dei quali giustamente osservi l’ancoraggio al proprio tempo e alla propria cultura, coi limiti  intenzionali ad essi connessi, sono stati magnificamente illustrati (e liquidati) da Gadamer nel suo capolavoro, “Verità e metodo”, al quale rimando.

Avrai certamente notato che il nome di Kant non appare mai sul mio scritto. La citazione della “ragion pura” avveniva soltanto nell’intento di farla coincidere con la ragione radicale di ciò che chiamiamo arte. E in ciò, convengo, si discordava da Kant, volendo, come hai ben notato, estendere il concetto stesso di “ragion  pura” alla formulazione tout court di “ragione”, sia essa etica, estetica o filosofica. Intendendo ossia per ragion pura la ragione radicale di ogni nostra possibile verità, nella qual che si voglia forma, nella sua intersoggettività positiva. Come è oramai noto e condiviso, è soltanto attraverso l’esame intersoggettivo di un postulato che si giunge infine alla sua positività, cioè appunto alla sua condivisione e alla sua accettazione come verità (cosa che appare in coda alle tue osservazioni).

Ora, una cosa come “la verità” è per noi raggiungibile soltanto nella modalità del linguaggio: la verità che vogliamo dimostrare “abita” nella dimensione del linguaggio, è essa stessa parola, e non si può circoscrivere ne commentare altrimenti che nel territorio delle parole, cioè nel discorso (Foucault). Questo discorso configura una sorta di assi cartesiane cosmiche, in cui l’essere (anzi, l’esserci, che è sempre “io”) produce la propria auto-interpretazione. E’ l’interpretazione il nesso causale della ragione. E’ qui che si svolge la sfida da te citata tra realtà, verità e finti.

Abbiamo così che la discrasia tra verità e falsità si produce nel medesimo ambito onde cui la ragione stessa trae alimento, con la conseguenza che la verità è qualcosa che si contrappone alla falsità con la medesima legittimità, ma con l’unica eccezione di poter rivendicare a sé la sua propria architettura logico-razionale. Risultato che si ottiene soltanto se tale architettura non incappa nel principio di contraddizione, rovesciandosi, in tal caso, nel proprio contrario. Così i concetti, all’interno della scatola magica del linguaggio, trovano in se stessi la propria conferma positiva, fondando radicalmente il principio di verità. Ma si tratta di una verità umana, troppo umana.  Fuori dalla scatola magica non c’è la verità, non c’è niente (oppure c’è l’altrove inafferrabile del non-luogo, del non-essere, quello che non siamo e non vogliamo e non possiamo quindi compenetrare). La verità quindi ci si presenta infine come la radicalizzazione dei contenuti già presenti nell’essere del linguaggio che coincide assolutamente col nostro esserci. Ciò che è falso, non è che una radicalizzazione malintesa che tende a estrapolare dal linguaggio contenuti sempre possibili, e tuttavia decentrati, rispetto alla verità generale, sull’asse di interessi particolari di chi la interpreta: la verità (o la falsità) è l’interpretazione.   

Non si tratta perciò di una verità universale, scontata una volta e per sempre. E’ perciò che noi dobbiamo sempre deciderci su di essa, sceglierla, volerla, spremerla fuori dalla sua scatola magica ed erigerla ad interpretazione etica dell’esserci (l’ermeneutica ontologica). Solo così l’uomo è salvato. A meno che non si tratti di una scatola tragica, a meno che la lingua non rechi in sé il virus della propria autodistruzione e noi non stiamo facendo altro che un viaggio all’incontrario verso le tenebre; e la Techno, ultima stazione del sistema logico-razionale, non sia che il veicolo privilegiato di una razza in estinzione... In tal caso, invece di vincere o morire, si ha comunque soltanto il secondo termine- ma almeno nella consapevolezza di aver affrontato ogni tentativo di raggiungerla la verità, di morire almeno nel vero...

 

Si deve avere come obiettivo lo scontro di interpretazioni del mondo.

 

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