Ricordi di un Novantenne (ricordi di un piccolo mondo lontano) Parte 4 | Prosa e racconti | Carlo Gabbi | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Ricordi di un Novantenne (ricordi di un piccolo mondo lontano) Parte 4

Ricordi di un Novantenne
Ricordando il mio piccolo mondo di allora
Parte 4
Voglio ora far rivivere brevemente altre cose vissute da me e Sergio in quei giorni passati.
 Mi affiora alla memoria il ricordo di quando le carovane degli zingari arrivavano a Tolmezzo e si accampavano per alcuni giorni in quel pezzo di terra di nessuno che si trovava al di sotto della scarpata ferroviaria che confinava con la proprietà di Siore Gigie, così vicino alla casa dove Nonna Gigia abitava.
All'arrivo degli zingari circolavano in paese voci che volevano intimorire la gente. Dicevano, “Rubano quanto più possono, anche i ragazzi, quando sono cattivi."
Ma sapete bene il valore di queste cose, solo chiacchiere, molte parole e pochi fatti.
Nei miei ricordi, quegli zingari ci erano amici. Quando passavamo vicino al loro accampamento avevano un sorriso sulle labbra per noi monelli, e molte volte ci invitavano a cavalcare sui loro cavalli e poi ridevano maliziosamente nel vedere il modo in cui si era irrigiditi sulle groppe di quei ronzini, senza sella e redini, che ci costringevano ad aggrapparci forte alle loro criniere nel tentativo di tenerci in equilibrio. Potevamo parlare ben poco coi gitani, perché parlavano unicamente il loro dialetto romanico. Ugualmente, ci lasciavano bazzicare nel loro accampamento mentre erano intenti nei loro lavori artigianali. Erano di carnagione scura, occhi neri e fiammeggianti ed usavano fazzoletti colorati annodati attorno ai loro colli. Alcuni sfoggiavano un orecchino d’oro al lobo di un orecchio. Sebbene fossi solo un monello, mi sentivo affascinato da quelle donne gitane sfoggianti le loro bellezze, nelle lunghe sottane svolazzanti al vento e camiciole di mille colori, aderenti e capaci di mettere in risalto la lussuria dei loro seni. I lunghi riccioli scuri erano racchiusi al margine dei fazzoletti annodati dietro la nuca. All’imbrunire, si notavano da lontano le fiamme che sprigionavano dai fuochi dei loro bivacchi, che scoppiettando, innalzando verso il cielo mille faville. All’avanzare del buio notturno, allorché le stelle giungevano allo zenith, si udivano i primi lamenti dei loro violini. Erano voci che chiamavano imperiosamente me e Sergio, e trovavamo sempre il modo di scappare alla chetichella dai nostri letti, senza farci notare, e nel silenzio notturno il suono dei violini, ci conduceva alle carovane tzigane. Arrivati sul luogo ci sdraiavamo a terra, pancia all'aria, con un lungo fuscello di erba che ci pendeva dalle labbra, e ce ne stavamo là, in ascolto, sognando, e seguendo rapiti quelle soavi rapsodie. Notavamo gli zingari attorno ai fuochi dei bivacchi, seduti su rozzi sgabelli, pipa penzoloni dalle labbra. Notai che erano sempre due di loro, con i loro violini tenuti saldi sopra le loro spalle, capaci di gareggiare in un duetto divino, creando con i loro archetti dolci, seppure a volte tristi melodie e ci si sentivamo rapiti da quella musica magica, creata sul momento e che scaturiva dal loro animo. Alcune note erano dolci, più deliziose e che mai avevo udito prima, altre raccordate in alti e sonori timbri musicali si susseguivano a lievi sussurri, pure quelli nell’udirle, sapevano inviare brividi che velocemente scorrevano giù lungo la spina dorsale, sino a inondare il centro dei miei sensi. Non capivo cosa veramente fosse, ma poi compresi che quello era il potere di quella musica magica. A volte, forse la voce dei violini, era piangente e malinconica, ma poi mutava per divenire dolce e forte. Io e Sergio vibravano all’unisono udendo quelle note. Erano sensazioni sublimi capaci di trasportarci in paesi lontani e sconosciuti. Vedevo Sergio scosso come me da tremori. Capivo che lui pure stava sognando ad occhi aperti mentre assimilava quella musica che ci affascinava.
E fu in una di quelle sere che lo udii esclamare, "Voglio andar via con loro, Carlo. Voglio vedere il mondo!"
~ * ~
 Vi sono altri ricordi di quei tempi felici. Alla mia memoria appare ora la figura del Professore Franceschini. Il retro della sua casa si trovava vicina alla nostra viuzza campestre. Lo rivedo come allora, ben affaccendato nel suo laboratorio, ma non intento su tomi scolastici, pur sapendo che lui fosse un ben capace insegnante di matematica delle scuole superiori. Invece mi appariva con scalpelli nelle mani intento a lavorare legni pregiati. Più tardi, crescendo, imparai quanto egli fosse un noto artista locale, capace di creare intarsi di valore che generalmente rappresentavano la vita locale Carnica.
Sergio ed io bazzicavamo spesso nel suo studio e intenti guardavamo il modo in cui intagliava tavolette di legno sottili e di diverse tonalità di colore che alla fine messe assieme, combacianti nel corretto intarsio, portavano alla vista disegni di vita reale locale. Apparivano in quel modo, davanti ai miei occhi, rappresentazioni di donne Carniche, con secchie portate in bilico sopra le spalle con quell’attrezzo ricurvo di legno, che nel dialetto friulano e` conosciuto con il nome del “Buinz”, il quale alle estremità portava due uncini dove venivano sospese le larghe secchie che, a seconda dell’occasione, venivano riempite d’acqua, presa alla fonte della piazza locale, oppure col latte da portare nella latteria, o altre incombenze che presentassero l’uso di essa. Nel suo laboratorio si vedevano ovunque, mille altre raffigurazioni di luoghi, persone, vita locale o animali, temi tipici del suo lavoro artigianale. Nei giorni piovosi, i quali sono molti negli autunni Tolmezzini, il professore ci permetteva di giocare nell’ampia sala che usava come laboratorio. Sergio ed io avevamo l’uso degli avanzi di quei lucidi pezzi di legno, in variegate venature rossastre. Mi sentivo affascinato dalle diverse tonalità di colori che si mescolavano armoniosamente tra loro. Il trastullarsi con quei con quegli scarti di legni pregiati abbandonati sul pavimento era la cosa migliore che si potesse pensare.
Il buon professore e noto intarsiatore, sapeva pure essere paziente con noi, insegnandoci a riconoscere il valore di quei legni dicendoci da quali paesi provenissero e quanto pregiati fossero. Alla fine, rubava un po’ del suo tempo prezioso, per mettere nelle nostre mani uno di quei scalpelli, affilati come rasoi, e ci guidava nei nostri primi rudimentali passi di quel lavoro straordinario.
Appesi alla parete si vedevano diversi lavori impegnativi, che raffiguravano la vita delle donne Carniche, intente nei loro lavori campestri con la gerla sulle spalle, e nello sfondo si ergevano montagne, fonti d’acqua sulle piazze, e mille altri disegni che erano la vera rappresentazione di vita campestre di quei tempi. Penso che quella fosse la vera passione del professore (forse più che insegnare matematica al liceo) ed ammiravo la sua bravura artistica.
Erano altri tempi si sa bene, ma quello era il nostro piccolo mondo che trovo molto diverso di quanto lo sia oggi. Non avevamo un computer ed altri aggeggi complicati elettronici. Tutto si doveva ritenere nella nostra memoria e si doveva saper compitare moltiplicazioni o divisioni. Non esistevano automobili per gente comune, tutti camminavano, anche per ore di seguito, ma nessuno si lamentava. Non si usava calzare scarpe, lussuose o meno. Erano semplici Scarpetti di stoffa fatti in casa dalla propria madre, calzati nel periodo estivo oppure erano zoccoli con suole di legno e una semplice e alta tomaia di cuoio scadente, ma capaci di tenere i piedi asciutti e caldi. Vi erano pure altri zoccoli, che i locali chiamavano “Dalmine” che sono molto simili agli zoccoli portati dagli olandesi, e che venivano calzati nei lavori delle stalle.
Tutto quanto era a nostra disposizione era di semplice fattura e economico alle borse famigliari. I tempi economici non permettevano nulla di più, ma ugualmente ci sentivamo felici. Eravamo liberi di scorrazzare tra i boschi ed imparavamo da quanto ci circondava e vivendo tra quanto la natura offriva, si era pure capaci di rispettare il creato che ci attorniava, penso molto di più di quanto possono essere i ragazzi d’oggi.
Nonna Gigia era ben conosciuta e molto rispettata in Tolmezzo, sicché era facile per noi, usando il suo buon nome, di bazzicare nelle case e botteghe nel paese. Offrivamo a tutti il nostro aiuto in piccoli lavori e loro riconoscenti trovavano tempo per insegnarci cose utili.
Era questo il modo migliore per noi di trascorrere le giornate lunghe e piovose. Quello fu il modo che ci aprì la porta di Ulisse e del suo negozio di fornaio. Erano mille lavoretti che potevamo fare per lui e poi alla fine, quando Ulisse aveva finito l’ultimo impasto della giornata, per ricompensa ci lasciava raschiare la pasta rimasta attaccata nell’impastatrice, e con quella ci insegnava come formare minuti cornetti di pane, che poi, dopo essere lasciati lievitare venivano deposti sul letto di mattoni del forno che precedentemente era stato arroventato dalle braci di legna. Quello era il nostro premio finale, quei piccoli panini freschi e croccanti, con quel buon profumo e sapore di vero pane, che emanava sulle vie adiacenti al forno per un lungo raggio. Oggi questi ricordi mi fanno ricordare con rimpianto quei giorni semplici, lontani dalla tecnica moderna che ha avuto il potere di distruggere tanti piaceri e sapori accumulati nel trascorrere dei secoli passati e che alla fine vennero tramandati pure a me, l’uno dei pochi che oggi può ancora ricordare e raccontare come veramente fosse quel nostro piccolo mondo di allora, dei giorni passati.
Desidero in queste mie ultime pagine di memorie presentarvi fatti, luoghi, persone che possano far rivivere in voi, come lo potrebbe la visione di un vecchio film in bianco e nero di quei giorni, capaci di far rivivere quel romanticismo, forse ora un po’ sfumato e ammuffito, ma che nonostante ciò, e`  pur sempre pieno di quella passione e semplicità capace di riflettere sullo schermo come si viveva durante quei miei giorni giovanili, un po’ poveri, che, sebbene non avessero tutte quelle comodità odierne, si viveva senza rimpianti per aggeggi come lo sono i televisori, e tutte le molte cose odierne che hanno rivoluzionato il mondo. Allora si viveva con poche esigenze poiché e pochi erano i soldi per poter comperare lussurie come una radio o un biglietto per il nostro cinema domenicale.
Vi rivelo oggi un piccolo segreto, del modo in cui le storie dei nostri giorni venivano tramandate e ricordate. Non certo usando telefonini e non erano nemmeno scritte sul computer, e capaci al clicco di un tasto essere trasmessi sui nostri schermi.
Tutto avveniva semplicemente nelle stalle, durante i lunghi e freddi inverni, dove le famiglie usavano riunirsi, seduti su rustici sgabelli di legno, mentre le mucche, tenute legate alle loro mangiatoie, e stese al suolo sopra un letto di paglia, ruminavano le biade mangiate in precedenza, e il tepore dei loro corpi erano capaci di riscaldare economicamente l’ampia stalla, trasformata per l’occasione in un popolare salotto di intrattenimento, che aveva unicamente il flebile chiarore  di una semplice lampadina. Tutti erano seduti sopra rustici sgabelli di legno a tre gambe, con le donne intente a far la maglia, a rammendare calzetti di lana, oppure a filare.
Gli uomini invece, avevano la pipa sospesa al loro labbro, emanate fumi acri e dolciastri, e non mancava loro un generoso sorso di vino, prodotto dalle loro vigne, in una tazza, che era posta ai loro piedi sul pavimento. Erano gli usuali narratori di quei tempi, capaci come lo sono i cronisti odierni che si trovano davanti le telecamere, e capaci di commentare i fatti giornalieri riportando nel loro racconto fatti avvenuti, nuove nascite, o lutti, o cose sentite in paese durante la loro visita all’osteria e udite dall’amico. Erano pure narrati alcuni fatti personali famigliari, e che in quel modo sapientemente tramandavano a noi più giovani, fatti avvenuti nel passato nella nostra famiglia che noi giovani si aveva il dovere di ricordare per poi, un giorno a venire di tramandare a coloro che sarebbero venuti dopo di noi, figli o nipoti. Questo era il modo di allora di ricordare il mondo attorno a noi. Ben poche cose venivano scritte allora e era nostro dovere, ricordarle, sicché quei fatti essenziali non fossero persi nel tempo a venire, per poterli poi narrarli ad altri, in quel modo semplice usato allora, esattamente come sto facendo ora io con voi.
Oggi sono io il “Vecio” di turno ed ho voce in capitolo, ed è mio dovere tramandare a voi la vita e pensiero di noi, di come eravamo allora, forse si era privi di tutta l’erudizione odierna, pochissimi allora avevano appesi in cornici e in bella mostra, diplomi o tesi universitarie. Ai miei giorni, colui che aveva frequentato la quinta elementare era ormai considerato un erudito e un piccolo capolavoro di sapienza. Nonostante ciò abbiamo sacrificato, siamo stati tenaci lavoratori e risparmiatori, e abbiamo potuto tramandare a voi, nuova generazione, un mondo migliore di quello da noi trovato, dando a voi la possibilità di muovere i vostri primi passi con rigori meno pressanti dei nostri.
~*~
Fine parte quattro

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