Scritto da © Fausto Raso - Sab, 15/02/2020 - 23:36
Il nostro idioma è ricco di parole “di tutti i giorni”, di parole, cioè, di uso comune che... usiamo tutti i giorni e che conosciamo “per pratica” ma dal significato “intrinseco” nascosto. Chi non conosce, ad esempio, il significato “scoperto” di minestra, vocabolo sulla bocca di tutti e che ha generato molti modi di dire, tra i quali – quello più conosciuto – “è sempre la solita minestra”, vale a dire “è sempre la stessa cosa”? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana e leggere, alla voce in oggetto: minestra – vivanda per lo più brodosa che si mangia come primo piatto; pietanza di riso o pasta, in brodo con verdura o legumi o cotta in acqua, scolata e condita e, in senso figurato, “operazione”, “faccenda”. Questo, dunque, il significato “scoperto”.
E quello “nascosto”? Che cosa è, insomma, questa “minestra”? Lo scopriamo se risaliamo all’origine del vocabolo che è tratto dal verbo dell’italiano antico “minestrare”, vale a dire “servire”, particolarmente “porgere”, “versare i cibi a tavola”. E nei tempi antichi chi serviva i cibi a tavola? Il “minister”, cioè il servo, il domestico. Da “minister” (tratto dal latino “minus”, ‘inferiore’), vale a dire da “colui che prepara e serve le vivande”, si è fatto il latino “ministrare”, da questo l’italiano antico “minestrare” (‘somministrare’) e, infine, “minestra” che propriamente vale “vivanda servita o da servire in tavola”.
E quello “nascosto”? Che cosa è, insomma, questa “minestra”? Lo scopriamo se risaliamo all’origine del vocabolo che è tratto dal verbo dell’italiano antico “minestrare”, vale a dire “servire”, particolarmente “porgere”, “versare i cibi a tavola”. E nei tempi antichi chi serviva i cibi a tavola? Il “minister”, cioè il servo, il domestico. Da “minister” (tratto dal latino “minus”, ‘inferiore’), vale a dire da “colui che prepara e serve le vivande”, si è fatto il latino “ministrare”, da questo l’italiano antico “minestrare” (‘somministrare’) e, infine, “minestra” che propriamente vale “vivanda servita o da servire in tavola”.
Questo vocabolo – dicevamo all’inizio delle nostre noterelle – ha generato molti modi di dire. Vediamoli assieme.
“Mangiare questa minestra o saltare dalla finestra”: accettare una condizione o ricevere di peggio; “minestra riscaldata”: cosa ormai passata che si vuol far rivivere a tutti i costi; “essere un’altra minestra”: è tutt’altra cosa; “mangiare la minestra in testa a qualcuno”: essere più bravo in qualche cosa; “essere il prezzemolo d’ogni minestra”: intrufolarsi dappertutto.
“Mangiare questa minestra o saltare dalla finestra”: accettare una condizione o ricevere di peggio; “minestra riscaldata”: cosa ormai passata che si vuol far rivivere a tutti i costi; “essere un’altra minestra”: è tutt’altra cosa; “mangiare la minestra in testa a qualcuno”: essere più bravo in qualche cosa; “essere il prezzemolo d’ogni minestra”: intrufolarsi dappertutto.
E a proposito di minestra, come non riportare due frasi celebri che hanno nobilitato questo vocabolo dal... “sapore” contadino? La prima la estrapoliamo dalle “Opere edite e inedite” di Carlo Cattaneo: niente di più stolto del ricco che trova troppo buona la minestra del contadino! Il contadino miserabile isterilisce la terra e spianta il possidente. La seconda, da Pellegrino Artusi, nel suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”: una volta si diceva che la minestra era la biada dell’uomo.
E concludiamo questa modestissima chiacchierata con un’altra parola di uso comune e dal significato “nascosto”: mansarda. Cominciamo con il dire che non è un termine schiettamente italiano essendoci giunto dal francese “mansarde”. Il significato “scoperto”, dunque, tutti lo conosciamo: piccola sopraelevazione di alcuni edifici a forma di abbaino con tetto a due spioventi e, per estensione, soffitta. Il significato “coperto” nasconde il nome dell’architetto francese François Mansart (1598-1666) che introdusse questo tipo di costruzione riconvertendo i sottotetti e già usati come abitazione nel periodo medievale.
Quanto ad abbaino, cioè al lucernario, vale a dire all’apertura sopra i tetti, per “salirci” sopra, o per dar luce a camere che stanno sotto il tetto viene dal genovese “abbaén” (fratino, piccolo abate). “Da un documento del Quattrocento – ci fa sapere Gianfranco Lotti – si apprende che in Liguria questo termine era in uso per indicare la ‘tegola di ardesia’, di colore simile a quello dell’abito di certi frati. A maggior ragione fu chiamata ‘abbaino’ ogni finestra , praticata sui tetti, con copertura a due spioventi, la cui forma ricorda il cappuccio dei monaci”. Restando in tema di etimologia (e per assonanza), è interessante scoprire l’origine di “abate” che, attraverso il latino “abbate(m)”, passando per il greco ecclesiastico ci conduce all’aramaico “ab” (‘padre’). Gli abati, i frati, non sono i nostri padri?
Quanto ad abbaino, cioè al lucernario, vale a dire all’apertura sopra i tetti, per “salirci” sopra, o per dar luce a camere che stanno sotto il tetto viene dal genovese “abbaén” (fratino, piccolo abate). “Da un documento del Quattrocento – ci fa sapere Gianfranco Lotti – si apprende che in Liguria questo termine era in uso per indicare la ‘tegola di ardesia’, di colore simile a quello dell’abito di certi frati. A maggior ragione fu chiamata ‘abbaino’ ogni finestra , praticata sui tetti, con copertura a due spioventi, la cui forma ricorda il cappuccio dei monaci”. Restando in tema di etimologia (e per assonanza), è interessante scoprire l’origine di “abate” che, attraverso il latino “abbate(m)”, passando per il greco ecclesiastico ci conduce all’aramaico “ab” (‘padre’). Gli abati, i frati, non sono i nostri padri?
Fausto Raso
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