Scritto da © gianbarly - Mer, 16/01/2019 - 18:48
L’aria della notte è tiepida, accarezza il viso dolcemente, senza far male. Il movimento lento delle onde culla la mia piccola Fatima. Ora dorme tranquilla nelle mie braccia. Ogni tanto un piccolo schizzo di acqua salata mi colpisce al braccio. Siamo così vicini, compressi gli uni sugli altri, che l’acqua può bagnarmi solo su quella piccola porzione di pelle. Ma non dà fastidio, lascia solo qualche incrostazione di sale, quando evapora. Non mi posso muovere, non c’è spazio, ma anche se potessi, credo che non lo farei. Il mare mi fa paura, non so nuotare e solo qui, avvolta dal grosso tubolare del gommone, mi sento al sicuro. Sto ferma e aspetto, come tutti.
Così ci hanno detto: aspettate e state tranquilli, alle prime luci dell’alba verranno a prendervi. Dovete solo stare fermi. Quando è calata la notte hanno staccato il motore, sono saliti sull’altro gommone, quello più piccolo, e se ne sono andati. Prima però hanno chiamato con il telefono satellitare; hanno dato dei numeri, più volte, per essere sicuri di farsi capire. Ci hanno detto ancora di stare tranquilli e se ne sono andati.
La luna gioca a nascondino fra le nuvole. Mi diverto a seguirne le evoluzioni. Quando fa capolino riesco a scorgere il viso della mia bambina. Piano piano le dico che l’ho fatto per lei, per darle una speranza, un futuro. Nel sonno lei mi sorride, come se mi avesse sentito. Chissà quale sarà il mio, di futuro. Ho studiato italiano finché ho potuto andare all’università. Una volta arrivata vorrei poter finire gli studi. Chissà.
C’è un po’ di agitazione più avanti, verso poppa. Lo sento dal dondolio diverso del gommone. Ma non si riesce a vedere niente, in questo momento. La gente è nervosa, li capisco. Sono tante ore che siamo qui sopra. Per fortuna il mare è calmo e quegli uomini sono stati gentili con noi. Non sempre è così. Una donna mi ha detto qualcosa, mentre ci imbarcavamo. Ora è seduta dietro di me, un paio di posti più in là, a prua. Se giro la testa riesco a vederla. Le faccio un cenno con gli occhi, quando c’è la luna, e lei mi sorride. È la terza volta, mi ha detto. La terza volta che ci prova. Le altre volte non è stata così fortunata. Non mi ha detto perché, ma credo di averlo capito. Aveva uno sguardo! Stringo la mia bambina ancora più forte.
Il fondo del gommone vibra, scosso dal movimento delle persone. La donna grassa davanti a me si agita, mi si accosta ancora di più, incurante della bambina. Cerco di bucare l’oscurità con gli occhi, ma è come immergerli nell’inchiostro. Lei continua a venirmi sopra, io difendo il poco spazio che serve alla mia Fatima. Lei capisce e cerca di trattenersi, ma intanto si abbraccia stretta alle mie gambe.
In cielo si comincia a intravedere il contorno di una nuvola. Fra poco la luna farà capolino ancora una volta. Batto piano la mano sulla spalla della donna grassa. Bisogna aver pazienza ancora un poco, l’alba non è poi così lontana e verranno a prenderci. Di colpo la luna ci illumina. Guardo le persone davanti a me. Da quando siamo partiti non vedo altro che le loro nuche che ondeggiano al ritmo delle onde. Un mare di nuche, siamo tantissimi su questa piccola imbarcazione. È incredibile quante persone possono stare in uno spazio così piccolo. Quando ci hanno fatto salire ci spingevano ad accostarci gli uni agli altri. Sempre di più, non era mai abbastanza. Ci dicevano che dovevamo far salire tutti, che non potevamo lasciare qualcuno indietro, che tutti avevano diritto. E noi abbiamo ubbidito. Io mi sono ritrovata più o meno a metà della barca. Dopo di me sono ancora salite forse cinquanta, forse sessanta persone.
Ora però c’è qualcosa che non capisco. Vedo le teste, ormai le riconosco una ad una, ma è come se mancasse qualcosa. Allungo il collo ma la luna mi tradisce. Ci rinuncio, per il momento. Si alza una voce. È strano, nessuno ha parlato, finora. Era come una consegna che ci eravamo dati: aspettare in silenzio, come se il solo parlare potesse infrangere il sortilegio di quella notte così calma. La voce riprende per qualche secondo. Non è un urlo, piuttosto una specie di cantilena, una supplica. Poi tace. Ora la luna riappare e io capisco: le ultime file di persone non ci sono più. Istintivamente tocco il tubolare, non è più così duro come prima. Mi distendo il più possibile, allungando lo sguardo oltre le prime file. Un movimento dei corpi mi apre uno spiraglio sulla poppa. I coni terminali pendono flosci nell’acqua. Oltre la terza fila non c’è più nessuno.
La donna grassa è ormai avvinghiata alle mie gambe. Cerca di non muoversi per non scivolare in avanti. Ha una vecchia davanti a lei e mi immagino che anche lei stia cercando di ancorarsi come meglio può. Ha visto scivolare in acqua quelli che le stavano davanti. Ne ha sentito gli spasmi, nel tentativo vano di resistere. Ha sentito il rumore dell’acqua che li risucchiava. È strano però, non c’è panico, non c’è disperazione, solo un muto terrore che si trasmette da un corpo all’altro. Anch’io sono composta, cerco semplicemente di trovare la posizione migliore per resistere. Non c’è posto per il panico quando non ci sono alternative. L’unica possibilità è resistere fino a quando ci verranno a prendere. Sono lucida, mi trovo a ragionare su quante possibilità ho di farcela. Tengo d’occhio la persona davanti alla vecchia. Cerco di tenere il conto di quanto riesce a resistere prima di scivolare in acqua.
Piano piano il fondo del gommone si inclina in avanti. È un movimento impercettibile, ma si avverte distintamente. Sento l’acqua intorno ai piedi, che risale inesorabile fino alle caviglie. Nessuno di noi sa nuotare, siamo gente di campagna. Scivolare via dal gommone vuol dire andare immediatamente a fondo.
Un piccolo sussulto; ora la vecchia è diventata la prima della fila. Istintivamente mi guardo intorno. Una debole luce comincia a vedersi verso oriente. L’alba non è lontana. Quando arriveranno? Un’ora, forse meno. Hanno la nostra posizione, non possono tardare. Nel silenzio della notte cerco di captare il rumore dei loro potenti motori. Fatima, mia dolce bimba, resisterò per te. Vedrai, arriveranno quegli uomini a prenderci. Ci porteranno al sicuro, in Italia. Te lo prometto, anima mia. Voglio che tu abbia una vita bellissima, in un posto dove potrai far vedere a tutti quello che vali. Io lo so, sei intelligente e testarda, accidenti quanto sei testarda! Anche se sei così piccola, già si vede il tuo carattere. Qualcosa hai preso da me, ma per la maggior parte hai preso da tua nonna. Sarebbe orgogliosa di te, se potesse vederti. E io te lo prometto, non permetterò che ti portino via il futuro.
Le mani della donna grassa sono diventati uncini che affondano nella carne delle mie gambe. Ma non sento male. L’acqua mi arriva ormai alle ginocchia e ho i muscoli intorpiditi dal freddo. Dal bacino in giù non sento più niente. Mentre il buio si dirada, la vecchia sembra sprofondare nell’acqua. La donna grassa l’ha abbracciata, ma lei pian piano scivola in avanti. A ogni onda il suo corpo perde qualche centimetro di gommone. Non ha altro che quelle braccia che tentano di avvolgerla, per provare a resistere. Nulla a cui puntellarsi, non una corda o una maniglia. Solo la superficie di gomma resa viscida dall’acqua. Vedo la sua testa andare sempre più giù. La donna grassa la tiene ancora ma non può farlo ancora per molto. Altrimenti scivolerà con lei.
I miei occhi registrano tutto, senza alcuna emozione. Ogni secondo in più per la vecchia è una speranza in più per me e per Fatima. Ma lei è scomparsa senza fare rumore. Ora la donna grassa è sola davanti all’abisso d’acqua che la reclama. È scivolata parecchio in avanti, la sua massa abbondante non l’aiuta. Ha la testa all’altezza del mio stomaco e le braccia avvinghiate alle mie gambe. Io ho sollevato un poco la bambina, sopra la sua testa. Cerco i nostri salvatori nella luce tenue dell’alba.
Le onde schiaffeggiano la faccia della mia vicina. Sento il suo respiro affannoso, lo sforzo di sputare l’acqua che le entra in bocca. Distolgo a forza lo sguardo e mi giro indietro. Incrocio gli occhi con la donna seduta più a prua. Guardo Fatima e guardo lei. Mi sorride, accogliendo la mia implorazione.
Faccio un respiro profondo. Bilancio bene mia figlia sulle braccia. Non posso sbagliare, devo fare in fretta e senza muovere il corpo. Aspetto il momento in cui la donna grassa si lascia andare. Il gommone, libero dal suo peso si rialza quanto basta per consentirmi di far passare Fatima sopra la mia testa. Subito altre mani la afferrano e in un momento è nelle braccia della mia amica. Le sorrido e mi preparo alla mia battaglia. Ora so che lei ce la farà.
»
- Blog di gianbarly
- 1412 letture