Scritto da © Franca Figliolini - Mar, 29/06/2010 - 08:11
Non è che fosse buio. Sembrava che la luce fosse finita. Per sempre. Che non saremmo più riemersi da quell'inchiostro vischioso che chiamano notte anche quando non c'è nemmeno una stella a illuminarla.
Camminavamo in silenzio, ombre nere nel nero, trasalendo ad ogni rumore: il crepitio delle foglie, un frullo d'ali, un rapido sgusciare nel sottobosco.
Dovevamo fuggire. Dovevamo sfuggirgli. Non dovevamo pensare a quello che avevamo lasciato. Dovevamo solo andare il più lontano possibile. La nostra vita, fino a poco tempo addietro fatta di cose normali - la spesa al supermercato, ciao amore vado in ufficio, i giochi dei bambini, le pulizie in casa - era diventata fuga e silenzio. Scappavamo di notte, e di giorno dormivamo a turno, sfiniti, senza parlare.
Finalmente arrivò l'alba di quel giorno. Con la luce ci sentivamo più sicuri, chissà perché: nessuno di noi lo aveva mai visto, nessuno di noi sapeva chi fosse o cosa fosse, come e quando agisse. Sapevamo soltanto che portava sangue, terrore, morte. Di questo ne eravamo sicuri. Oh, se ne eravamo sicuri.
Il mio turno di riposo durava tre ore. Mi misi al riparo dietro una roccia, da dove potevo vedere il sentiero senza essere vista. Cedetti al sonno. Mi svegliarono le urla scomposte dei miei compagni. Aprii gli occhi e li vidi correre via, inoltrarsi nel bosco, scomparire. Balzai in piedi anch'io e scappai, incespicando ed urlando, ridotta a puro istinto di fuga, puro terrore. Ma improvvisamente, quando al fitto degli alberi mancavano ormai solo pochi metri, seppi ciò che dovevo fare.
E mi voltai.
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