Scritto da © Franco Pucci - Gio, 24/06/2010 - 12:38
“Te se ricordet i temp indrè…” Quel lembo di periferia che andava dall’“Isola” a “Cascina Abbadesse” era il mio regno e di chi, nato in prossimità della fine dell’ultima guerra ha avuto il piacere e l’avventura di vivere e crescere in una Milano, viva, pulsante, ricca di tradizioni, accogliente, vera! Una pessima imitazione di Colt dei Cow Boys, cartucce sfiatate, soldatini di gesso con l’anima in fil di ferro, e pochissimi spiccioli in tasca da dedicare al ferramenta dietro casa. I “tollini” (tappi delle bibite) da mettere sui binari del 2 che sferragliava sino a Niguarda e da raccogliere piatti come ostie della Domenica a Messa da collezionare. E i “botti” di Carnevale da inventare, con i “petardi” che costavano 5 Lire l’uno e che non avevi mai…E ci si arrangiava con il potassio in polvere ricavato tritando pastiglie per la tosse e spalmato sul filetto delle viti di enormi bulloni fregati sulla massicciata della ferrovia in Fulvio Testi. Bulloni così confezionati da far “esplodere” battendoli sul selciato! Il “carrellotto" sorta di miniveicolo realizzato con assi, cuscinetti a sfere da spingere e saltarci sopra in corsa. E le prime “GiubeK” rapinate al tabaccaio dicendo che erano per il padre, i primi pruriti del giovane in piena tempesta ormonale e le serate con la Gina infrascati nei giardinetti di Piazzale Massari alla scoperta di quello che con una parola “grossa”, pomposa chiamavano “sesso”. E la Domenica sul sagrato della chiesa per cuccare le pochissime ragazze disponibili da portare alle feste allestite rigorosamente a pasticcini, Coca Cola e, per una botta di vita assicurata, pessimo Martini Rosso. Poi arrivò la “Milano da bere” e se la bevvero davvero tutta, tutta d’un fiato. Era talmente buona che non ne rimase niente, solo l’eco di un fetido rutto.
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