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La fine del principio

C’era una volta, in un paese lontano lontano, tanto tempo fa, così tanto che si fatica a ricordarsene, una cosa che si chiamava il principio di realtà. Gli abitanti di quel luogo remoto dovevano farci i conti, altrimenti sarebbe stato impossibile tirare avanti. Questa cosa imponeva loro di procacciarsi il cibo, se la fame metteva in subbuglio le loro viscere, e di ripararsi dalle intemperie, se queste infierivano contro. Cercavano un lavoro, per esaudire desideri e necessità. E amavano e si sposavano, volendo una famiglia.
Un bel giorno avvenne che i bravi abitanti di quel villaggio di favola si accorsero che tutti i loro bisogni erano oramai soddisfatti, che non c’era più necessità ormai di andare chissà dove a cercare di racimolare qualche briciola per i figli. I figli erano sazi di briciole, anzi erano sazi e basta e stavano crescendo, diventavano grandi. Così, iniziarono a prendere distanza con la “cosa” che aveva spinto i padri a fare quei vecchi conti. Col principio di realtà … Non era più così interessante confrontarsi con le cose, vere o false che fossero. Ciò che li animava adesso era questo: di più. Non volevano più qualcosa che sapevano di volere, o che sentivano di abbisognare. No, bastava fosse “di più”, bastava questo a farlo diventare desiderabile. Cominciarono così a desiderare i desideri, così, senza rapporti concreti, in astratto, tanto per desiderarli. Di modo che quel vecchio principio venne in disuso, venne dimenticato. Non serviva più a niente il principio di realtà, “di più” era meglio, qualunque cosa fosse.
Decaddero vecchie categorie, il vero il bello il giusto, tutto sembrò rallentare e pian piano estinguersi. Le emozioni impresero ad espandersi, occupando tutto lo spazio, tutta l’attenzione dell’interiorità. Si assisteva a deflagrazioni pirotecniche di entusiasmi e poi di delusioni, meteoriche, precipitevoli. Tutto era consumato in loco, per così dire, l’amore, le vittorie, le sconfitte,  e non si vedeva in giro alcuna regola più che valesse a dare un ordine qualsiasi a quello scorrere di eventi tutti orizzontali, omogenei, dimenticabili. I furbi, al loro solito, cominciarono a fischiare nelle orecchie delle masse grida irrazionali di approvazione di qualsiasi pretesa venisse loro in mente, e di riprovazione di quelle degli altri, massime stranieri. Questi ultimi divennero, via via, nemici. I nemici erano quelli che, dall’altra parte dello steccato, rivendicavano le stesse rivendicazioni di quelli di qua. Ma io, noi avevamo ragione, loro no. Non importava di aggiudicarsi una logica qualsiasi, bastava arrogarsi la ragione e il diritto, e basta, indipendentemente da orpelli tipo la realtà, o il buon senso.
La verità divenne un arnese talmente obsoleto da venir dichiarata dismessa, di modo che nei tribunali, per esempio, non era più ammessa e chi avanzava prove a carico di un colpevole, incappava in una ingente sanzione pecuniaria. La verità non concerneva più niente, non interessava più a nessuno. Possederla era una vergogna al portatore. Chi la professava, contro la comune evidenza della giustezza e bellezza del desiderio astratto, del “di più”, venne prima emarginato e additato a esempio negativo, poi perseguitato, catturato e deportato.
La realtà e la verità finirono in un Lager, nelle steppe siberiane. E di lì non uscirono mai più. E poi dopo, dopo la Grande Catastrofe, ai superstiti non restò che pregare … Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo Nam-myoho-renge-kyo … eccetera eccetera eccetera.
 
 

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