'On Aceno 'e Fuoco - brano tratto dal mio romanzo "Quattro piccoli babà - Giallo napoletano | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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'On Aceno 'e Fuoco - brano tratto dal mio romanzo "Quattro piccoli babà - Giallo napoletano

Il popolino a Ninuccio lo chiamava “Don Aceno ‘e fuoco” poiché era un “morzillo d’uomo” di appena un metro e trenta, chinato ed esile, aveva il corpo devastato da bruciature nell’ottanta per cento per una disgrazia che gli era capitata e che sto per  raccontarvi, il volto pallido volgente al ceruleo, la testa grossa, la fronte larga e quadra, gli occhi azzurri e languidi, il naso lungo. Era di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un sorriso ineffabile e quasi celeste.
 Era vissuto con uno zio anche lui scartellato e non aveva mai conosciuto né padre né madre in quanto, appena nato, fu abbandonato  davanti al convento di Santa Chiara in una notte di Natale.
Il “monzù”[1] che lo teneva a garzone era il padre di una bellissima ragazza della   quale egli, cucinando cucinando, si era innamorato. Ninuccio,  aveva un animo sensibile e, preso da tanta grazia della giovane Lucrezia, le scriveva poesie in incognito. Ogni giorno le faceva trovare una poesia, tanto che la ragazza si innamorò dell’autore di quei versi non sapendo neanche chi fosse. Ora accadde proprio come nel romanzo “Cyrano de Bergerac”. La giovane credette che quelle poesie erano a lei dedicate da un giovane borghese di buona famiglia, tale don Carmine Tortino e quando andò a ringraziarlo per le belle parole questi non ebbe il coraggio di dirle che non le aveva scritte lui.
-Don Carmine, - disse Lucrezia – se ogni sera, per trenta di queste, verrete sotto la mia finestra a declamarmi dei versi, io sarò vostra.-
Carmine, frequentava il ristorante dove “Aceniello” faceva il garzone e tra una portata e l’altra , gli confidò la cosa.
-Aceniè, quella mi ha ammaliato, è bellissima…Va trovando che gli scrivo poesie, ma io so’ na frana. Perrchè non mi aiuti tu?-
-Io???-
-Si, tu scrivi poesie. Aiutami a conquistare questa bella ragazza…-
-Deve essere romantica se ci piaciono le po…le po… le poesie…-
- Lo è –
-E’…è be…bella? –
- Bellissima! –
 
Come avrebbe potuto competere Aceno con Carmine? Entrambi condividevano la speranza che la fanciulla si innamorasse, ma il giovane garzone altro non era che uno sgorbio mentre il borghesuccio era un bel ragazzo. Eppure qualcosa in comune ce l’avevano: la speranza di un futuro migliore. Ma le speranze di Aceno divennero solo delusioni, poiché, dato il suo ripugnante aspetto fisico,  nella sua mentalità altra felicità finale non c’era se non la morte. Tuttavia egli accettò di comporre le poesie per il giovane Carmine e puntualmente ogni sera glie ne consegnava una che il ragazzo andava a recitare sotto la finestra di Lucrezia.  Aceno,  quando poteva  si nascondeva dietro un albero ed ascoltava i commenti della donna.
-Bellissima! Che versi! Che amore! –
La cosa andò avanti per un po’, poi un giorno, Aceno mentre portava una pila di piatti lavati, incrociò in cucina Lucrezia più bella e splendente del solito. Ella  canticchiava ed il suo canto risuonava per pentole e padelle e tra il gorgogliare di un bollito o lo scoppiettìo di un fritto.
-Tiene mente ‘sta palomma, comme gira e comme avota…- intonava.
E Aceno, guardandola, continuava: - Comme torna ‘n ‘ata vota ‘sta ceroggena a tentà…-
-Lucrè – fece il giovane con un groppo emotivo alla gola. – Ti piaciono le poesie che ti scrive Carmine? –
- Si, bellissime, ma tu che ne sai che mi scrive poesie?-
-Lo so…perché…-
-Perché?-
-Perché…-
-Allora?-
Perché quelle po…po…poesie te le…te le…-
-Te, le? –
-Te le scri…scrivo…io.-
-Tu? Vuoi dire che quelle parole d’amore me le scrivi  tu?-
Si-
Lucrezia proruppe, miei signo’, in una improvvisa e fragorosa risata che lasciò sconcertato ‘On Aceno ‘e Fuoco. Non la smetteva più di ridere e, piegandosi su se stessa, indicava il povero giovanotto…
Accorsero camerieri, cuochi ed il munzù padre della giovane che le chiese a cosa fosse mai dovuto tutto quel fracasso.
-Papà…papà… - disse la giovane stentando a parlare per le risate – Aceniello…mi fa la corte.-
Un coro di risate di scherno si levò dagli accorsi, mentre Aceno si sentì mancare per la vergogna e si sedette.
-Stu scuorfano se vo mettere cu’ mia figlia…Cose ‘e pazze! – Esclamò il munzù.
In un istante Aceno prima si guardò addosso, poi intorno, poi pensò ai versi d’amore che aveva scritto per la bella Lucrezia e dei quali si sarebbe avvalso Carmine, poi di slanciò si buttò nel forno acceso tra la sorpresa di tutti. Si salvò per  miracolo.
 
Da quel giorno, diventato ancora più orribile per le bruciature, Aceno  si spinse  ad una continua ricerca di senso rispetto a brutto e bello.  Egli cominciò a pensare  che essere non-bello c’era una relazione di contrarietà con le bellezze della vita . Fra l’estremo del bello e quello del brutto ci stava una gradazione marcata e determinante tanto da condizionare l’esistenza.  Arrivato a questo punto, signori nmiei, mi guardo  nello specchio per capire se io che racconto so’ bello o so brutto. So’ così così va…
Ma torniamo al mio racconto. Dunque, Ninuccio si era salvato per miracolo, e dopo diverse operazioni e tante sofferenze fu dimesso dal “Loreto Mare”[2]. Come già vi ho detto, aveva il corpo devastato dalle bruciature  ed era diventato tanto più orribile che le mamme lo indicavano ai bambini irrequieti minacciandoli di  darli a lui se non facessero i buoni. Ora il suo spirito aveva acquistato una tale consapevolezza che la sua sofferenza altro non fosse che aderenza alla realtà della quale egli aveva ormai colto l’aspetto tragico e cioè quelle verità che rimangono velate a chi gode della spensieratezza che può dare una vita agiata ed un aspetto piacevole. 
Quando don Masino aprì la ricevitoria del Lotto fu preso per le pulizie. Contemporaneamente dava i numeri ai scommettitori dietro piccolo compenso, vestito come già vi ho detto, finché divenne esclusiva “proprietà” del mafioso stesso che vedeva in lui una sorta di portafortuna.
Tuttavia sia don Masino che i suoi sgherri lo trattavano alla stregua di un animale domestico spesso schernendolo e divertendosi con lui tanto da traviare il suo animo gentile pieno di poesia in una mappatella piena di odio e risentimento.
Ogni tanto il poverino si rifugiava nella parrocchia di San Vincenzo dove era parroco don  Marcello. Lì, tra l’odore d’incenso, andava a pregare una Madonna che nella penombra piangeva un Gesù in croce, di dargli la forza di sopportare la sua vita.
Ed aveva la sensazione che questa gli rispondesse. Sentiva la sua voce e  gli pareva che il tempo si fermass, Si rivedeva bambino seduto sullo scanno tra il nonno e la nonna. Un aria di pace invadeva la sua anima  mentre un raggio di sole penetrava da una finestrella dal vetro multicolore ed andava a trasformarlo in un incredibile dipinto.
[1] Lo chef.
[2] Uno degli Ospedali napoletani.
 

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