Scritto da © Ezio Falcomer - Mar, 27/12/2016 - 13:10
<< Dopo la maturità mi iscrissi a un corso di recitazione; seguirono anni poco gloriosi, durante i quali divenni sempre più cattivo e perciò sempre più caustico; il successo, in tali condizioni, finì con l’arrivare – e di un’ampiezza tale che mi sorprese. Avevo cominciato con scenette sulle famiglie ricomposte, sui giornalisti di “Le Monde”, sulla mediocrità delle classi medie in generale. Mi riuscivano benissimo le tentazioni incestuose degli intellettuali in carriera nei confronti di figlie o figliastre con l’ombelico all’aria e il tanga che spuntava dai pantaloni. Riassumendo, “ero un pungente osservatore della realtà contemporanea”; mi paragonavano spesso a Pierre Desproges. Pur continuando a dedicarmi all’”one man show”, accettai talvolta degli inviti a trasmissioni televisive che sceglievo per la loro notevole audience e per la mediocrità generale che le caratterizzava. Non mancavoi mai di sottolineare questa mediocrità, con sottigliezza però: il presentatore doveva sentirsi un po’ in pericolo, ma non troppo. Insomma, ero un “buon professionista”; solo un po’ sopravvalutato. Non ero l’unico.
Non voglio dire che i miei sketch non fossero divertenti; divertenti lo erano. Ero, in effetti, “un pungente osservatore della realtà contemporanea”; mi sembrava semplicemente che fosse così elementare, che restassero così poche cose da osservare nella realtà contemporanea: avevamo semplificato tanto, sfrondato tanto, infranto tante barriere, tanti tabù, tante false speranze, tante errate aspirazioni; restava così poco, davvero. Sul piano sociale c’erano i ricchi, c’erano i poveri, con qualche fragile passerella – l’”ascensore sociale”, soggetto su cui era di moda ironizzare; la possibilità più seria di rovinarsi. Sul piano sessuale, c’erano coloro che ispiravano il desiderio e coloro che non ne ispiravano affatto: meccanismo esiguo con qualche complicazione di modalità (l'omosessualità, ecc.), comunque facilmente riducibile alla vanità e alla competizione narcisistica, già ben descritte dai moralisti francesi tre secoli prima. C’erano peraltro le “brave persone”, coloro che lavorano, che producono effettivamente i beni di consumo, anche coloro che – in maniera un pochino comica, o patetica se si vuole (ma ero innanzitutto un comico) – si sacrificano per i figli; coloro che non hanno né bellezza nella loro gioventù né ambizione in seguito né ricchezza mai; che aderiscono però con tutto il cuore (e persino per primi, più sinceramente di chiunque) ai valori della bellezza, della gioventù, della ricchezza, dell’ambizione e del sesso; coloro che formano, in certo qual modo, il “legante della salsa”. Costoro, mi rincresce dirlo, non potevano nemmeno costituire un “soggetto”. Ne introdussi comunque alcuni nelle mie scenette per conferire diversità, un “effetto di realtà”; ma cominciavo seriamente a stancarmi. Il peggio è che venivo considerato un “umanista”; un umanista “acido”, ma pur sempre un umanista. Ecco, per dare un’idea, una delle battute che infioravano i miei spettacoli:
“Sai come si chiama il grasso attorno alla vagina?”
“No.”
“Donna.”
Stranamente riuscivo a piazzare questo genere di spiritosaggini, senza smettere di avere buone critiche su “Elle” e “Télérama”; vero è che l’arrivo dei comici arabi aveva riportato in auge le scivolate da macho e che io scivolavo con grazia. In fondo, il beneficio maggiore del mestiere di umorista, e più generalmente dell’”atteggiamento umoristico” nella vita, è quello di potersi comportare come uno stronzo in tutta impunità, e persino di poter rendere estremamente redditizia la propria abiezione, in termini di successo sessuale o economico; il tutto con l’approvazione generale.
Il mio presunto umanesimo poggiava in realtà su basi assai misere: una vaga arguzia sui tabaccai, un’allusione ai cadaveri dei clandestini negri finiti sulle coste spagnole erano bastate a procurarmi una reputazione di “uomo di sinistra” e di “difensore dei diritti dell’uomo”. Uomo di sinistra, io? Avevo potuto introdurre occasionalmente nelle mie scenette alcuni altermondialisti, vagamente giovani, senza dare loro un ruolo immediatamente antipatico; avevo potuto cedere occasionalmente a una certa demagogia: ero, lo ripeto, un buon professionista. Peraltro avevo una faccia da arabo, il che facilita; il solo contenuto residuo della sinistra, in quegli anni, era l’antirazzismo, o più esattamente il razzismo antibianchi. Non capivo del resto molto bene da dove mi venisse quella faccia da arabo, sempre più caratteristica con il passare degli anni: mia madre era di origine spagnola e mio padre, che io sappia, bretone. Mia sorella, per esempio, la troietta, presentava indiscutibili tratti mediterranei, ma era molto meno scura di me e aveva i capelli lisci. Ci si sarebbe potuti porre degli interrogativi: mia madre era stata di una fedeltà irreprensibile? O avevo per genitore un Mustafà qualsiasi? Oppure, altra ipotesi, un ebreo? “Fuck with that”: gli arabi accorrevano in massa ai miei spettacoli – e anche gli ebrei del resto, anche se un po’ meno; e tutti pagavano il biglietto intero. Ci si sente interessati alle circostanze della propria morte, è sicuro; meno a quelle della propria nascita.
Quanto ai “diritti dell’uomo”, ovviamente, me ne sbattevo proprio; era tanto se riuscivo a interessarmi ai diritti del mio cazzo.>>
(Michel Houellebcq, “La possibilità di un’isola”, trad. di Fabrizio Ascari, Milano, Bompiani, 2015, pp. 20-23)
Non voglio dire che i miei sketch non fossero divertenti; divertenti lo erano. Ero, in effetti, “un pungente osservatore della realtà contemporanea”; mi sembrava semplicemente che fosse così elementare, che restassero così poche cose da osservare nella realtà contemporanea: avevamo semplificato tanto, sfrondato tanto, infranto tante barriere, tanti tabù, tante false speranze, tante errate aspirazioni; restava così poco, davvero. Sul piano sociale c’erano i ricchi, c’erano i poveri, con qualche fragile passerella – l’”ascensore sociale”, soggetto su cui era di moda ironizzare; la possibilità più seria di rovinarsi. Sul piano sessuale, c’erano coloro che ispiravano il desiderio e coloro che non ne ispiravano affatto: meccanismo esiguo con qualche complicazione di modalità (l'omosessualità, ecc.), comunque facilmente riducibile alla vanità e alla competizione narcisistica, già ben descritte dai moralisti francesi tre secoli prima. C’erano peraltro le “brave persone”, coloro che lavorano, che producono effettivamente i beni di consumo, anche coloro che – in maniera un pochino comica, o patetica se si vuole (ma ero innanzitutto un comico) – si sacrificano per i figli; coloro che non hanno né bellezza nella loro gioventù né ambizione in seguito né ricchezza mai; che aderiscono però con tutto il cuore (e persino per primi, più sinceramente di chiunque) ai valori della bellezza, della gioventù, della ricchezza, dell’ambizione e del sesso; coloro che formano, in certo qual modo, il “legante della salsa”. Costoro, mi rincresce dirlo, non potevano nemmeno costituire un “soggetto”. Ne introdussi comunque alcuni nelle mie scenette per conferire diversità, un “effetto di realtà”; ma cominciavo seriamente a stancarmi. Il peggio è che venivo considerato un “umanista”; un umanista “acido”, ma pur sempre un umanista. Ecco, per dare un’idea, una delle battute che infioravano i miei spettacoli:
“Sai come si chiama il grasso attorno alla vagina?”
“No.”
“Donna.”
Stranamente riuscivo a piazzare questo genere di spiritosaggini, senza smettere di avere buone critiche su “Elle” e “Télérama”; vero è che l’arrivo dei comici arabi aveva riportato in auge le scivolate da macho e che io scivolavo con grazia. In fondo, il beneficio maggiore del mestiere di umorista, e più generalmente dell’”atteggiamento umoristico” nella vita, è quello di potersi comportare come uno stronzo in tutta impunità, e persino di poter rendere estremamente redditizia la propria abiezione, in termini di successo sessuale o economico; il tutto con l’approvazione generale.
Il mio presunto umanesimo poggiava in realtà su basi assai misere: una vaga arguzia sui tabaccai, un’allusione ai cadaveri dei clandestini negri finiti sulle coste spagnole erano bastate a procurarmi una reputazione di “uomo di sinistra” e di “difensore dei diritti dell’uomo”. Uomo di sinistra, io? Avevo potuto introdurre occasionalmente nelle mie scenette alcuni altermondialisti, vagamente giovani, senza dare loro un ruolo immediatamente antipatico; avevo potuto cedere occasionalmente a una certa demagogia: ero, lo ripeto, un buon professionista. Peraltro avevo una faccia da arabo, il che facilita; il solo contenuto residuo della sinistra, in quegli anni, era l’antirazzismo, o più esattamente il razzismo antibianchi. Non capivo del resto molto bene da dove mi venisse quella faccia da arabo, sempre più caratteristica con il passare degli anni: mia madre era di origine spagnola e mio padre, che io sappia, bretone. Mia sorella, per esempio, la troietta, presentava indiscutibili tratti mediterranei, ma era molto meno scura di me e aveva i capelli lisci. Ci si sarebbe potuti porre degli interrogativi: mia madre era stata di una fedeltà irreprensibile? O avevo per genitore un Mustafà qualsiasi? Oppure, altra ipotesi, un ebreo? “Fuck with that”: gli arabi accorrevano in massa ai miei spettacoli – e anche gli ebrei del resto, anche se un po’ meno; e tutti pagavano il biglietto intero. Ci si sente interessati alle circostanze della propria morte, è sicuro; meno a quelle della propria nascita.
Quanto ai “diritti dell’uomo”, ovviamente, me ne sbattevo proprio; era tanto se riuscivo a interessarmi ai diritti del mio cazzo.>>
(Michel Houellebcq, “La possibilità di un’isola”, trad. di Fabrizio Ascari, Milano, Bompiani, 2015, pp. 20-23)