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Voglio che mi fai venire con gli occhi - Jonathan Safran Foer

<< C’era stata una notte in un alberghetto di campagna in Pennsylvania, all’inizio del loro matrimonio. Lei e Jacob si erano fumati una canna insieme – per tutti e due era la prima da quando avevano finito il college – e, nudi nel letto, si erano promessi di condividere tutto, tutto senza eccezione, senza preoccuparsi della vergogna o dell’imbarazzo o di quanto avrebbe potuto ferirli. Era sembrata la promessa più ambiziosa che due persone potessero farsi. Raccontarsi la nuda verità era sembrata la rivelazione.
“Niente eccezioni” disse Jacob.
“Ne basterebbe una per copmpromettere tutto.”
“Pipì a letto. Cose così.”
Julia prese la mano di Jacob e disse: “Sai quanto ti amerei per avere condiviso con me una cosa del genere?”
“Non è che io faccia la pipì a letto, comunque. Stavo solo tracciando i confini.”
 
“Niente confini. Il punto è questo.”
“Esperienze sessuali del passato?” chiese Jacob, perché sapeva che quello era il punto su cui era più vulnerabile e quindi quello che la condivisione sarebbe andata a toccare. Sempre, anche dopo che aveva perso il desiderio di toccarla o di essere toccato da lei, gli faceva orrore il pensiero di lei che toccava un altro o, peggio, di lei toccata da un altro. Persone con cui era stata, piacere che aveva dato e ricevuto, cose che l’ avevano fatta gemere. In altri ambiti non era un insicuro, ma il suo cervello,  come chi rivive all’infinito il ripetersi di un trauma senza riuscire a liberarsene, era ossessionato dall’immagine di lei in intimità con altri. Che cosa diceva a loro che aveva già detto a lui? Perché sentiva quella ripetizione come il tradimento supremo?
“Certo che sarebbe doloroso” disse lei. “Ma il punto non è che voglio sapere tutto di te. E’ che non voglio che tu ti tenga dientro niente.”
“E allora non lo farò.”
“E neanch’io.”
Si passarono qualche volta la canna avanti e indietro, con la sensazione di essere coraggiosissimi, di essere ancora giovani.
“Cosa ti stai tenendo dentro adesso?” gli chiese lei, quasi euforica.
“In questo preciso momento, niente.”
“Ma ti sei mai tenuto dentro qualcosa?”
“Dunque sono.”
Lei rise. Amava la sua arguzia, il calore stranamente confortante della sua prontezza mentale.
“Qual è l’ultima cosa che ti sei tenuto dentro?”
Lui ci pensò. Lo spinello gli rendeva più difficile pensare, ma più facile condividere i pensieri.
“Okay” disse. “E’ una cosa piccola.”
“Le voglio tutte.”
“Okay. L’altro giorno eravamo a casa. Mercoledì, forse. E io ti ho preparato la colazione. Ti ricordi? La frittata con il caprino.”
“Sì” disse lei, mettendogli una mano sulla coscia, “è stato bello.”
“Ti ho lasciato dormire e senza fare rumore ti ho preparato la colazione.”
Lei espirò una colonna di fumo che mantenne la forma più di quanto sembrasse plausibile e disse: “Potrei mangiarmene una montagna, in questo momento.”
“Te l’avevo preparata perché volevo fare una cosa carina per te.”
“L’ho capito” disse lei, mentre con la mano gli risaliva la coscia, facendoglielo venire duro.
“E ti avevo messo tutto bene nel piatto. Con l’insalata vicino.”
“Come al ristorante” disse lei, prendendoglielo in mano.
“E dopo il primo boccone…”
“Sì?”
“C’è un motivo per cui la gente si tiene dentro le cose.”
“Noi non siamo la gente.”
“Okay. Va bene, dopo il primo boccone, invece di ringraziarmi o di dirmi che era squisita, mi hai chiesto se ci avevo messo il sale.”
“E allora?” chiese lei, muovendo la mano su e giù.
“E allora ci sono rimasto di merda.”
“Perché ti ho chiesto se ci avevi messo il sale?”
“Forse non rimasto di merda. Mi ha irritato. Deluso. Qualunque cosa abbia provato, non te l’ho detta.”
“Ma la mia era solo una domanda pratica.”
“Che bello.”
“Bello, amore.”
“Ma capisci che in quella situazione, considerato lo sforzo che stavo facendo per te, chiedendomi se ci avevo messo il sale mi comunicavi una critica più che gratitudine.”
“Per te è uno sforzo prepararmi la colazione?”
“Era una colazione speciale.”
“E così è bello?”
“E’ fantastico.”
“Allora, per il futuro, se penso che un piatto manca di sale devo tacere?”
“O forse sono io che dovrei tacere il mio dispiacere.”
“La tua ‘delusione’. ”
“Potrei già venire.”
“Allora vieni.”
“Non voglio ancora venire.”
Lei rallentò, rallentò fino a una stretta ferma.
“Che cosa ti stai tenendo dentro, adesso?” chiese lui. “E non rispondermi che sei un po’ dispiaciuta, irritata e delusa del mio dispiacere, della mia irritazione e della mia delusione, perché non è quello che ti stai tenendo dentro.”
Lei rise.
“Allora?”
“Non mi sto tenendo dentro niente” disse lei.
“Scava.”
Lei scosse la testa e rise.
“Cosa?”
“In macchina, stavi cantando ‘All apologies’ e continuavi a dire ‘I can see from shame’.”
“E allora?”
“E allora non fa così.”
“Ma certo che fa così.”
“ ‘Aqua seafoam shame’.”
“Ma figurati!”
“Già.”
“ ‘Aqua. Seafoam. Shame?’ ”
“Già. Mano sulla Bibbia ebraica.”
“Vuoi dire che la frase perfettamente sensata ‘I can see from shame’ – sensata in sé e nel contesto – è solo un’espressione inconscia di un mio nonsocosa represso e che Kurt Cobain invece aveva messo insieme intenzionalmente le parole ‘aqua seafoam shame?’ ”
“Proprio quello che ti sto dicendo.”
“Be’, non ci posso credere. E mi sento molto in imbarazzo.”
“Non sentirti in imbarazzo.”
“Che funziona sempre quando uno è in imbarazzo.”
Julia rise.
“Ma questa non vale” disse lui. “E’ da dilettanti. Tirane fuori una buona.”
“Buona?”
“Una davvero difficile.”
Julia sorrise.
“Cosa?” chiese lui.
“Niente?”
“  ‘Cosa?’ ”
“ ‘Niente’. ”
“A me sembra che qualcosa ci sia.”
“Okay” disse lei. “Mi sto tenendo dentro qualcosa. Qualcosa di proprio difficile.”
“Ottimo.”
“Ma non credo di essere abbastanza evoluta da condividerlo.”
“Come dicevano i dinosauri.”
Julia si premette un cuscino in faccia e chiuse le gambe a forbice.
“Sono solo io” disse lui.
“Okay” fece lei con un sospiro. “Okay. Bene. Sdraiata qui, fumata, tutti e due nudi, mi è venuta una voglia.”
D’istinto lui le allungò una mano tra le gambe e la trovò già tutta bagnata.
“Dimmela” le disse.
“Non posso.”
“Scommeto che puoi.”
Lei rise.
“Chiudi gli occhi” disse lui. “Sarà più facile.”
Lei chiuse gli occhi.
“No” disse lei. “Non è più facile. Se tu chiudi i tuoi?”
Lui chiuse gli occhi.
“Mi è presa questa voglia. Non so da dove mi venga. Non so perché ce l’ho.”
“Ma ce l’hai.”
“Sì.”
“Dimmela.”
“Mi è presa voglia.” Rise di nuovo e gli incastrò la faccia nell’incavo dell’ascella. “Ho voglia di allargare le gambe e voglio che tu metta la testa lì in mezzo e mi guardi finché vengo.”
“Solo guardarla?”
“Niente dita. Niente lingua. Voglio che mi fai venire con gli occhi.”
“Apri gli occhi.”
“E tu apri i tuoi.”
Jacob non disse una parola e non emise suono. Con una certa forza, ma non troppa, la fece rotolare sulla pancia. Intuiva che quello che lei voleva c’entrava con l’impossibilità di vedere lui che la guardava, con la rinuncia a quell’ultima misura di sicurezza. Lei gemette, facendogli capire che aveva ragione. Lui fece scivolare il proprio corpo lungo il corpo di lei. Le divaricò le gambe, gliele fece allargare ancora. Le infilò la faccia in mezzo così vicina da sentire il suo odore.
“Mi stai guardando?”
“Ti guardo.”
“Ti piace quello che vedi?”
“Voglio quello che vedo.”
“Ma non puoi toccarla.”
“Non la toccherò.”
“Ma puoi accarezzarti mentre mi guardi.”
“Lo sto facendo.”
“Ti vuoi scopare quello che vedi.”
“Certo.”
“Ma non puoi.”
“No.”
“Vorresti sentire quanto sono bagnata.”
“Certo.”
“Ma non puoi.”
“Ma lo vedo.”
“Ma non puoi vedere quanto mi si stringe quando sto per venire.”
“Non posso.”
“Dimmi come sono e vengo.” Vennero insieme, senza toccarsi, e poteva finire lì. Lei avrebbe potuto rotolare sul fianco, appoggiargli la testa sul petto. Si sarebbero potuti addormentare. Ma accadde qualcosa: lei lo fissò, sostenne il suo sguardo e chiuse di nuovo gli occhi. Jacob chiuse gli occhi. E poteva finire lì. Avrebbero potuto esplorarsi a vicenda nel letto, ma Julia si alzò ed esplorò la stanza. Jacob non lo sapeva – capica che non doveva aprire gli occhi – ma la sentiva. Senza dire niente, si alzò anche lui. Toccarono tutti e due la panchetta del letto, la scrivania e la tazza con le penne dentro,  i fiocchi sui nastri che legavano le tende. Lui toccò lo spioncino, lei toccò la manopola che controllava il ventilatore al soffitto, lui premette il palmo sul top tiepido del minifrigo.
Julia disse: “Tu hai senso per me.”
Jacob disse: “E tu per me.”>>
 
 
(Jonathan Safran Foer, “Eccomi”, trad. di Irene Abigail Piccinini, Milano, Guanda, 2016, pp. 42-47)

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