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Casanova autore di fantascienza, ovvero una lettura moderna dell’Icosameron

Ogni libro ha una storia, e il modo in cui ciascun libro giunge nelle mani del lettore è una storia a parte fatta di strani collegamenti. Nell’attuale era digitale i collegamenti saltano fuori spesso dal web ed in particolar modo da Wikipedia, sempre più simile alla “biblioteca di Babele” immaginata da Borges. Non ricordo per quale catena di ricerche sono finito nella pagina dell’ “Icosameron”, ma questo libro mi ha incuriosito fin dall’inizio, sia per l’autore (si tratta proprio di lui, Giacomo Casanova, il grande seduttore e avventuriero settecentesco) sia per la tematica “fantascientifica”. Trattandosi di un’opera settecentesca le virgolette sono d’obbligo, tuttavia c’è molto che accomuna quest’opera alla fantascienza moderna. Riuscito ad ottenerne una copia in prestito in biblioteca (la ricerca è stata complicata dal fatto che l’unica edizione disponibile nello SDIAF era catalogata col titolo di “Jcosameron”, con la J) mi sono immerso nella lettura.
Due parole sul libro che ho effettivamente letto. Non si tratta né di un’edizione in lingua originale (benche l’autore fosse italianissimo, ha deciso di scrivere in francese per il semplice fatto che era più diffuso della sua lingua madre – oggi avrebbe scritto sicuramente in inglese) né si tratta di un’edizione integrale: il romanzo che Casanova diede alle stampe a Praga nel 1787 era in cinque volumi per complessive 1800 pagine, mentre l’edizione che ho letto io – stampata in Italia da Lerici Editori nel 1960 – riportata in italiano moderno, consta di 354 pagine e riporta nel titolo “Edoardo ed Elisabetta”. Nel frontespizio si legge il chilometrico titolo completo (tipico settecentesco) che in italiano suona “Jcosameron ovvero Storia di Edoardo ed Elisabetta che passarono ottant’un anni presso i Megamicri abitanti aborigeni del Protocosmo nell’interno del nostro globo”.
Il titolo svela già buona parte della trama. Anticipando una tematica che sarà ripresa nella fantascienza ottocentesca e primo-novecentesca (Verne, Wells, Burroughs…) Casanova illustra la teoria della Terra cava: il nostro pianeta sarebbe vuoto all’interno, ossia sarebbe una crosta di terra spessa diversi chilometri, di forma sferica, che racchiude un piccolo sole interno il quale illumina le terre concave ivi racchiuse. I protagonisti sono due giovanissimi inglesi, fratello e sorella, che in seguito ad un naufragio nei pressi del “Maelstrand” a Nord (il Maelström del racconti di Edgar Allan Poe?), finiscono nel mondo interno alla Terra, incontrano la strana popolazione che lo abita, vivono mirabolanti avventure e tornano nella loro cara Inghilterra presso i loro ultracentenari genitori a cui raccontano il tutto alla presenza di Lord Bridgent e altri nobili. Il ritorno dei due fratelli, quasi centenari ma con l’aspetto ancora giovanile (nei mondo dei Megamicri il tempo scorre più lentamente), avviene nel 1615: facendo un po’ di calcoli il loro naufragio si colloca nel 1534.
Edoardo ed Elisabetta si salvano dal vortice nefasto a bordo di una speciale cassa imbarcata sul vascello da un marinaio che desiderava esservi sepolto, in mare. All’interno dell’improbabile navicella i due attraversano la crosta terrestre e risbucano nel mare interno alla Terra: quivi vengono salvati dagli indigeni, esseri umani alti cinquanta centimetri, completamente nudi e con la pelle di vari colori. I “giganti” vengono portati al cospetto delle autorità per trovare loro una sistemazione: in fondo sono elementi estranei che irrompono nella quotidianità di un mondo già perfettamente organizzato e che arriveranno poi a turbarne profondamente l’ordine.
Le prime “giornate” (il titolo “Icosameron” – che in greco significa “venti giornate” – allude proprio alla durata del racconto dei due protagonisti) sono dedicate alla descrizione della società dei Megamicri (altro termine derivato dal greco, traducibile con “grandi-piccoli”) e sono a mio parere le più interessanti. Dopo la minuziona e noiosa descrizione del salvataggio di Edoardo ed Elisabetta, assistiamo a questo incontro di civilità: un incontro inizialmente pacifico. I “giganti” vengono accolti con cortesia dal pacifico piccolo popolo ed introdotti gradualmente nelle loro bizzarre usanze. I Megamicri sono ermafroditi e legati a coppie per la vita: ciascun individuo ha un suo “inseparabile” da cui trae e a cui dà nutrimento attraverso il latte-sangue che viene succhiato dai reciproci seni. Il progresso tecnologico appare maggiore in questo strano mondo, ma il lettore non s’inganni: la società apparentemente futuribile (ci sono alcune invenzioni prettamente fantascientifiche, per l’epoca, come l’automobile) è in realtà estremamente arcaica e primitiva, come d’altronde l’epoca stessa dell’autore. La pacifica popolazione dei Megamicri è suddivisa in caste, esiste la povertà e la nobiltà e uno stato teocratico (“idolatra”, come lo definisce l’autore-narratore) basato sul culto del Sole (quello interno alla Terra). Il clero presso i Megamicri non è meno corrotto, arrogante, superstizioso e assetato di potere rispetto a quello che conosciamo. Vi sono repubbliche e monarchie, ma da nessuna parte c’è democrazia o uguaglianza (stupisce, visto che il ‘700 è l’età dell’illuminismo e il romanzo è uscito un paio d’anni prima della Rivoluzione Francese) né ne viene deplorata la mancanza.
Un aspetto dei Megamicri a cui l’autore accenna appena, ma che io trovo più notevole degli altri, è il fatto che ciascuno di loro conosce in anticipo la data della propria morte e l’accetta con filosofia, ritirandosi sei mesi prima dell’infausto giorno per prepararsi. Una tale conoscenza è un bene o un male? Se lo chiedete a me risponderei che non vorrei assolutamente saperlo e che se lo sapessi non la prenderei così bene…
Se il mondo in cui sono capitati appare fantasioso, non meno stravagante è il comportamento di Edoardo ed Elisabetta. Non si capisce come i due ragazzini (fratello e sorella, ricordiamo), la prima volta che si vedono reciprocamente nudi (in questo mondo il nudismo è la regola, probabilmente perché il clima è costante e temperato) vengono presi da raptus erotico ed iniziano ad accoppiarsi come cani in calore, continuando così per tutta la loro permanenza nel sottosuolo. Ciò stranamente non va a cozzare con i loro principi cristiani (l’intero romanzo è percorso da disquisizioni religiose e dalla tipica mentalità catto-colonialista): basta che si dichiarino marito e moglie e tutto va a posto. L’incesto diventa anzi la regola: Elisabetta partorisce una coppia di gemelli (tutti maschio e femmina) dietro l’altra, come se non ci fosse un domani, ed Edoardo trova del tutto logico sposare le varie coppie di figli e figlie tra di loro, fondando una stirpe incestuosa che stranamente non risente delle leggi genetiche che sconsigliano tale pratica: nascono tutti sani, nessun mostro, nessuna tara genetica. Non viene spiegato come mai nascano sempre due gemelli, maschio e femmina: forse la spiegazione è nella parte che è stata tagliata. Diciamo che all’uomo settecentesco piace molto la simmetria, a discapito della credibilità. La tribù cresce esponenzialmente, tanto che Edoardo si trova patriarca e padrone di una discendenza che raggiunge e supera, al suo ritorno in patria, i quattro milioni di individui. Qualcuno dei figli o figlie ha qualcosa da obiettare sui matrimoni combinati e incestuosi? No, assolutamente, anzi tutti trovano naturale la cosa. Solo alcune coppie preferiscono fare cambio con i cugini…
C’è poi la faccenda dei serpenti. Sì, perché, come il lettore avrà intuito, questo mondo interno alla Terra non è altro che il perduto paradiso terrestre, l’Eden. È un immenso giardino su cui splende sempre il sole e in cui il tempo è misurato con la fioritura di certe piante e con strani incendi periodici. Vi sono anche qui “frutti proibiti” di cui si cibano minacciosi serpenti sibilanti che vengono temuti e odiati dai Megamicri. C’è un tabù religioso su questi frutti: nessuno, giganti inclusi, se ne può cibare. Edoardo non ci pensa però due volte a trasgredire il divieto e, in una rivisitazione a ruoli rovesciati della Genesi, ne offre alla moglie-sorella Elisabetta. Il “crimine” viene scoperto e punito con la prigione (solitamente nelle prigioni dei Megamicri non c’è oscurità, in quanto in un mondo in cui è sempre giorno il buio è gradito e ricercato, ma per loro fanno un’eccezione…), ma poi vengono liberati ed esiliati in un regno vicino. Qui fanno amicizia col regnante locale e trovano il modo di rendersi utili (il loro cruccio era proprio quello di essere sulle spalle dei loro ospiti, senza poter far nulla per ricambiare l’ospitalità). Edoardo ha l’idea di impiantare una cartiera e di inventare una scrittura monocromatica al posto di quella policromatica e dispendiosa usata fino a quel momento. Inoltre inizia a fare esperimenti con la polvere da sparo, con i fuochi d’artificio e con i gas tossici (per eliminare i serpenti), costruisce teatri, scrive commedie e si improvvisa perfino oculista, ridando la vista a diversi Megamicri ciechi. Col tempo cresce il prestigio dei giganti e della loro prole che si fa via via più numerosa, finché ad Edoardo viene affidato un feudo ed entra a pieno titolo nella nobiltà di quel mondo.
Passano gli anni megamicrici e la vita scorre serena e tranquilla. La figliolanza aumenta e si fonde sempre di più con gli indigeni, sempre comunque educata al “vero” culto cristiano. Gl’intrighi di palazzo non tardano comunque a turbare la prosperità raggiunta, e ad un certo punto c’è anche una prevedibile guerra tra giganti e Megamicri su cui sorvolo dal momento che ho saltato a pié pari quelle pagine, esercitando il mio diritto riconosciuto anche da Pennac (da pacifista qual sono le guerre mi fanno schifo nel mondo reale e mi annoiano mortalmente nella narrativa, tanto che ho saltato tutte le descrizioni di battaglie nel “Signore degli anelli”). La seconda parte del libro infatti l’ho trovata piuttosto noiosa. L’interesse è tornato nel finale, quando a causa di un’esplosione Edoardo ed Elisabetta vengono catapultati in un mondo sotterraneo intermedio tra quello interno e quello esterno. Impossibilitati a tornare tra i Megamicri, non possono che cercare di risalire al nostro mondo. Portano con se un servo megamicro, rimasto intrappolato con loro, il quale morirà a causa dell’impossibilità di nutrirsi. Il viaggio di ritorno ricorda molto la salita al monte Fato di tolkeniana memoria: i tre personaggi attraversano sofferenze di ogni tipo prima di giungere al vulcano da cui riusciranno infine a “riveder le stelle” e a tornare alla natia Inghilterra.
 
Non oso immaginare come sia l’edizione integrale in cinque volumi: non è un caso che il romanzo non abbia avuto nessuna fortuna e sia caduto presto nel dimenticatoio, riscoperto solo in tempi più recenti. Casanova si aspettava l’immortalità letteraria da quest’opera: l’ha fatta stampare a sue spese e si è indebitato fino alla bancarotta. Si vede che il libro intero era un mattone anche per i suoi contemporanei, se addirittura l’autore, nella prefazione, lasciava libero il lettore di saltare le parti più tecniche che potevano annoiarlo. Si tratta di un’opera enciclopedica, in cui si spazia tra le varie scienze ed arti: Casanova mette in mostra la sua cultura libresca (era pur sempre bibliotecario del conte di Waldstein, in Cecoslovacchia, mentre scriveva quest’opera monumentale) e se ne compiace: certo non immaginava che la tanto agognata gloria sarebbe giunta con le Memorie e non con l’Icosameron o Jcosameron che dir si voglia.
Questa lettura lascia un senso di amaro per la disillusione di questo Eden nascosto che pare corrotto ed infelice nonostante l’apparente armonia tra i Megamicri (presso cui esiste pure il razzismo basato sul colore della pelle: i rossi sono nobili e spadroneggiano sugli altri colori): certo Casanova era figlio del proprio tempo e non poteva immaginare che un paio di secoli dopo il mondo sarebbe stato molto migliore di quello che descriveva nella sua utopia megamicrica ma, come si dice, “il futuro non è più quello di una volta”.
 

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