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Confessione.

 
La mia vita, da sempre innervata sul solco della negazione, si è sempre concretata come male, come dolore. Non volevo goderla, la vita, perché il suo godimento recava inevitabilmente qualcosa di abominevole – la sessualità come abiezione; o la ricchezza, il potere, come sopraffazione. Per difendermi da queste offese e per ottundere quel senso di male che me ne veniva, mi concessi dei palliativi, delle pillole di anima come lenitivi dell’insopportabilità di tale condizione, ove, mi pareva, onde addolcire gli spasmi del corpo avrei dovuto assecondare le sue bassezze: per combattere un male dovevo arrendermi ad un altro. 
Queste “pillole” si cangiavano poi in “cose”, in elementi concreti, visibili, palpabili, odorabili, senza neanche che lo volessi. Non mi interessava la “cosalità”: anche la carne era “cosa” e io volevo trasformare il dolore che traduceva dentro la mia vita in qualcosa di essenziale da contrapporle. Un contraccettivo del dolore della vita che credevo, immaginavo, derivasse proprio di lì, dalla sua incarnazione.
Oddio, c’era anche l’altra possibilità, l’altra via d’uscita: fare esattamente il contrario. Gettarsi nel gorgo dei sensi e coadiuvarli fin l’ultima briciola. Inebriarsi all’eccesso, oscurando con ciò ogni rimasuglio di addolorata coscienza rimasto a fare da bastione morale a chissà cosa … Ma insultare la morale, trasgredire borghesemente al dogma borghese, non mi diceva alcunché. Mai stato borghese … Solo, non potevo soffrire fino all’afflizione, fino al nichilismo. Ed erano queste le vie che si diramavano dal “godimento della vita”. Quando la vita vi avrà dato tutto, lo vedrete, resterà soltanto il nulla.
Così, se l’unica altra “uscita” portava al nulla, non mi restavano che le pillole, la mia prognosi antinevralgica alla vita. Sì, se questa è nulla e il nulla giuro che fa un male cane, non esiste soluzione. Solo le pillole.
Il solo difetto delle mie pillole è che restavano. Non c’era modo di evacuarle, né avevo cuore di distruggerle. Restavano lì a testimoniare della anestesia della impossibilità della vita che soltanto così diventava sopportabile. Anzi, interessante persino. E queste “cose” che restavano, via via, finirono per esser viste e impresero addirittura a destare un certo interesse, per il che mi sentii quasi di dovermi difendere da una indesiderata diffusione delle mie cure al di fuori del mio habitat.
Ma divenni paziente. Compresi anche che se lenivano me,  potevano magari funzionare altrettanto anche fuori da me. È perciò che adesso, mentre tu improbabile lettore scorri queste righe, ne stai ingoiando una.  Perché gli altri chiamarono “arte” ciò che per me era un balsamo di sopravvivenza. L’arte non è un “lavoro”, né una disciplina. Ma pillole: solo il prezzo esistenziale di pochi sciagurati che non sono proprio in grado di arrampicarsi sulle guglie del proprio destino.
Come scrisse Thomas Mann, quella dell’arte è una vera vita da cani, ma non perché venga scelta come una carriera poco conveniente, ma perché la “vittima” è scelta dall’arte stessa, non viceversa, a ingaggiarsi come una specie di ammalato con la sua strampalata e a tratti velenosa cura.
 
 
 
 
 
 

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