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La fine del mondo non finisce mai - Gianni Vattimo

<< A parte il nome di una fermata del bus che a Patmos sale dalla spiaggia al centro del paese (e che segnala il luogo dove Giovanni Evangelista avrebbe scritto il famoso libro finale della Bibbia), il termine apocalisse evoca sempre meno il suo significato originale di rivelazione, la luce entro la quale si aprirebbe il libro «in cui tutto è contenuto e su cui il mondo sarà giudicato» (come canta il Dies Irae). Apocalittico è sempre più esclusivamente un disastro di grandi proporzioni, che fa pensare alla fine di tutto - ma appunto, senza nessun «senso» e nessun «dopo».
Già un bel libro di Eugenio Corsini, uscito nel 1980, aveva annunciato, sulla base di un accurato esame del testo giovanneo, che non c’era da attendere l’apocalisse, perché essa è già avvenuta con l’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Ora che, periodicamente (scadenze del secolo e del millennio, incombere del 2012 o 2020 che sia, e soprattutto tsunami e catastrofi ecologiche a catena...) si riparla di apocalisse in termini sempre meno «rivelativi», sembra che, non senza qualche paradosso, il richiamo di uno studioso come Corsini sia penetrato nella cultura comune. Anche nelle chiese si sente sempre meno parlare del giorno del giudizio; all’inferno ci credono ormai in pochi (lo aspetterà la stessa cancellazione del limbo?), i predicatori se ne tengono per lo più alla larga.
La fantascienza si concentra sulla fine e mai, o quasi, sul nuovo inizio (nuovi cieli e nuova terra), che pure la fine del mondo attuale sembrava promettere.
Secolarizzazione, perdita di prospettive utopiche (anche la rivoluzione non se la passa troppo bene), riduzione ai minimi termini delle virtù teologali di fede speranza; senza che questo comporti un aumento della terza, la carità, purtroppo.
Ricordate le tre domande di Kant: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare? Oggi come oggi, possiamo solo sperare che il giorno della fine del mondo non piova, insomma che, come dice del resto anche Gesù nel Vangelo, il disastro finale non comporti troppo dolore, che la faccenda si sbrighi il più in fretta possibile. Ma il giudizio universale? La punizione dei malvagi e il premio ai buoni?
Bah, abbiamo in mente una bellissima vignetta del Wizard of Id, dove un carcerato, forse in attesa di esser giustiziato, viene intervistato: «Lei crede in una vita dopo la morte?». Risposta: «Again?». Di nuovo? E non con il tono di una gioiosa aspettativa.
Per quanto si possa rimpiangere la fede e la speranza «ingenua» di cui la secolarizzazione ci ha privati, non è forse tutto negativo ciò che in tal modo è accaduto. Pensiamo, per esempio, a quanta fatica faceva San Paolo per distogliere i primi cristiani dal calcolare o cercare di accelerare, con pratiche divinatorie e magiche, la seconda venuta di Cristo, e anche dall’immaginare in termini concreti quel che sarebbe successo: «Non sapete né il giorno è l’ora; verrà come un ladro nella notte»: E: «se vi diranno: eccolo qui, o là, il Messia, non credeteci...».
Certo non è bello pensare al futuro solo come a un destino della fine. Abbiamo sempre sperato nella risurrezione della carne anche come ritrovamento di quelli che abbiamo perduto, persino come recupero dei nostri stessi corpi nella loro pienezza vitale («Renovabitur ut aquilae iuventus tua»). Tra l’altro, mentre si secolarizza e si impoverisce la nostra immagine dell’Aldilà, scienza e tecnica annunciano sempre nuovi sviluppi nello sforzo di allungare la vita e forse avvicinarci all’immortalità. Certo questa dovrebbe accompagnarsi con la colonizzazione di altri mondi: biologia più astrofisica più telecinesi...
Qui stiamo solo cercando - in base a una troppo elementare «fenomenologia dell’apocalisse» - di capire che cosa cambia della nostra esperienza di viventi, e anche di credenti, con la progressiva dissoluzione delle credenze tradizionali nell’al di là. Il genio di Clint Eastwood ci si è da ultimo applicato, nel film Hereafter dando voce ai racconti di chi è morto ed è «ritornato» (ricordi di coma e simili). Ma non è difficile immaginare che anche queste esperienze siano poco più che sogni che si prolungano appunto nel coma (in greco: sonno). Si può vivere umanamente senza immaginare un dopo, e nemmeno un tribunale finale che dovrebbe saziare anche la nostra fame e sete di giustizia? Uno come Aristotele riusciva a vivere così, e non era proprio uno stupidello.
Pensava, più o meno, che la partecipazione alla vita divina si risolvesse per noi in momenti puntuali di intensità, e che per il resto l’immortalità fosse da cercare nella generazioni di figli e nipoti; oltre che nel preparare con una vita buona quei momenti divini. Non sarà più o meno quello che Gesù dice quando parla del regno di Dio che è dentro di, o in mezzo a, noi? La liquidazione del limbo potrebbe essere solo l’inizio di una liquidazione più generale di «enti» che, in quanto si pretendano oggettivamente esistenti, sono solo idolatria, come quella che San Paolo combatteva nei destinatari delle sue lettere: bellissime fonti per l’ispirazione di artisti e poeti, ma ormai cose della nostra infanzia. Forse San Paolo sarebbe più d’accordo con chi si gode il brivido della fantascienza magari vedendovi uno stimolo ad operare nell’al di qua, senza fantasticare troppo su ciò che ci capiterà in quel momento di cui non sappiamo né il giorno né l’ora. >>
(Gianni Vattimo, "La fine del mondo non finisce mai, “La Stampa – Tuttolibri”, 15-01-2012;
 
 

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