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La semina dell'odio

Per tutta la vita ho cercato di tallonare una specie di senso dissonante, antiorario alla vita stessa che comunque ne esprimeva l’impossibilità. Cercavo questo senso inspiegabile per tentare di dar conto di ciò che sentivo, che capivo presentarsi come un diniego, un diktat ostacolante al suo puro fluire, inteso a violarne la natura. Come se qualcosa si opponesse per via creazionale alla sua propria creazione. Una con-creazione eguale e contraria, quindi diabolica, alle profonde radici ontologiche del vivere. Esiste qualcosa, mi chiedevo, che oppone all’essere un contro-essere più inteso a decostruirlo piuttosto che fornirlo di una struttura positiva? La coscienza implica in sé un antidoto che tende ad estinguerla invece di coadiuvarsi?     
Di questo enigmatico qualcosa percepivo l’occhieggiare dalla “caverna cosmica” del pessimismo. Il pensiero “al nero” presentava in tutto il suo millenario circuito e al di là del suo latente moralismo, una sorta di oscuro doppiofondo in cui, come in un sepolcro, s’adagiasse il lemure dormiente di una rappresaglia contro l’umanità; qualcuno che dormisse soltanto per intolleranza verso la vita e che attendesse il risveglio solo per vendicarsi … Un retro-pensiero che, dietro la maschera della sfiducia nell’uomo, nascondesse solo una fame d’apocalissi, una smania di sconfiggerlo- e questo a sua volta solo per revocare dalla faccia del mondo l’icona della propria sconfitta. E in tal caso, la condotta fondamentale da darsi era rintracciare le radici di questo disprezzo, rimontare alle sementi dell’odio e della violenza onde farsi una ragione dell’irragionevole libidine a rovescio di “certa” umanità, della sua incoerente pulsione di morte.   
Quel che mi preme, coerentemente alla mia ermeneutica, è di risalire alle “unità significanti”, come si diceva un tempo, di questa dissonanza all’interno del concerto delle culture umane. Ossia, di rinvenire le cellule germinali, le prime tessere del moloch autolesionista che trama contro se stesso. Un fattore che non può che dirsi antropologico e che va quindi di sceverato fra le formazioni primarie della coscienza, cioè nella mito-semantica del pensiero simbolico selvaggio. La coscienza, o ciò che chiamiamo così, non è che l’emersione a livello del sapere di quanto già mettiamo in pratica nella realtà. Questo sapere è necessariamente lo specchio simbolico di quell’agire, perché pur essendo separato dalla prassi, la riproduce come memoria e linguaggio. La conseguenza è che le cose, attraverso la loro comprensione intellettuale, si spogliano del loro status materiale e si traducono in simboli. E questi simboli, per la loro stessa natura, si investono di significati trascendentali, portandosi fuori dal loro “dato di fatto” per subentrare nella realtà parallela dell’ideale. Così facendo, si caricano nella traslazione di significati ulteriori che rimandano al campo del mito. Questo lo possiamo annotare già a partire dal comportamento dei primati: già i cani fanno uso di un comportamento simbolico. Alcune interrelazioni canine sono di natura comunicativa e non avvengono direttamente: la via “indiretta” è quella simbolica. I primati credono in qualcosa. E l’avviamento del loro sistema simbolico è prossimo a quello umano, è mitico.      
Ora, è a questo livello che si stabiliscono quelle formazioni primarie che fungono da sementi delle successive evoluzioni. E tra queste, come filamenti di DNA, si annidano quei virus culturali che stiamo cercando. Il mito è la risposta della coscienza debole, ancora esente di logica, davanti al fato che la sola logica è in grado di decriptare. Proprio perciò è il fato, l’evento ineluttabile, che solo l’incarnazione di un mito può, e solo parzialmente, mitigare ( con i sacrifici, i doni, i riti ). Sappiamo già che il rizoma del pessimismo mitteleuropeo affonda nell’epica originaria dei Nibelunghi. Che quell’aura crepuscolare tanto cara al wagnerismo discende dalla mitologia nordica degli Ari, dell’”Edda”, di Brunilde e Sigfridi belli e dannati, il cui destino si compie fatalmente nella tragedia. In queste saghe gli eroi soccombono sempre. Persino gli dèi sono battuti dai demoni. L’eroismo sta nel resistergli, nonostante sia un contegno predestinato. Perciò il senso è che la vita è male e l’unico valore è il coraggio. Con queste due leve, più l’ingrediente frenetico di un demagogo carismatico, si può spiegare anche l’incubo nazista. In questo caso, i semi del male sono appunto quelli, le due leve tragiche del mitico epos. Cose che si possono certamente interpretare, spiegandole con le condizioni ambientali, quelle epocali, sociali, climatiche e persino nutrizionali. Ma appunto, la spiegazione coincide con la logica e questa arriva sempre molto più tardi della stratificazione di significati che illustra.
Mi avvicino ad un altro mito fondativo, aurorale, per vedere di capirci qualcosa.  Se la fondazione dell’essere, cioè della coscienza che si esprime attraverso un linguaggio, è una formazione mitica, come riteniamo, il suo sbocco necessario e primo è di natura fatalmente religiosa. È dentro la religione che vanno cercate  quelle “sementi” di cui parliamo, sulle quali, e curiosamente magari  proprio dopo un periodo positivo, fanno leva quelle forme di purismo reazionario ( il ritorno alle origini; il buon tempo antico ) che, assetate di potere, sfruttano le corde più profonde e sedimentate del pregiudizio per farsi incensare dal popolo. Ora, in particolar modo sono le religioni monoteiste quelle più rigide e intolleranti, perché di massima muovono da  questo dogmatico assunto ( compresa quella da cui siamo usciti noi occidentali ): non avrai altro Dio all’infuori di me … Con questo tetragone basamento può diventare uno scherzo liberarsi di collettività altre che ostacolino la scalata al potere. Abusando del maiestatis “noi”, si aizza la propria parte contro tali “altri”: noi “veri” credenti, contro loro miscredenti, e così si ghermisce la corona. Si diventa re.
Il nostro monoteismo, è vero, è stato mitigato dal Cristo. Non si può disconoscere la mediazione di quest’uomo su quelle strutture fondative della coscienza sul mito. Egli ha ribaltato nella non-violenza la base mitica del rapporto intollerante e violento al “miscredente”, di modo che questo è divenuto “il prossimo” ed ha inoltre investito di analogo valore il femminile. Ciononostante i Cristiani sono stati capaci di ordire in suo nome i peggiori crimini della storia. Così, se proviamo a immaginare di cosa sia potenzialmente capace la coscienza debole e selvaggia ove sia priva anche di questa mediazione, i conti sono presto fatti. Hitler si rifece ai miti nordici di prima di Cristo per trascinare la sua gente in un delirio in cui il seme fondativo del coraggio veniva ribaltato in sadica assenza di umanità. Altri, detentori di un pensiero ancora più arcaico ed elementare, restano avvinti al dogma monoteistico . Per il quale non vi sono altri dèi che quello che adorano. Gli altri sono nemici. E così arriviamo all’oggi. Il fanatismo del terrore dei giorni nostri ha il suo seme sanguinario appunto in una visione arcaica, pregiudiziale e dogmatica di un verbo che non ammette distrazioni, Si chiama Wahabismo. Questo sarebbe solo una frangia molto localizzata di una specie di estremismo politico, non religioso, inteso a scalare il potere nella penisola araba e limitrofi. Sennonché, sotto i piedi di vittime e carnefici arabi c’era il petrolio. Un mare di petrolio e questo ha portato il movimento sotto i riflettori di mezzo mondo.
Gli Wahabiti, coi Salafiti al loro seguito, si ancorano ad una lettura arcaica dei loro testo sacri, da cui deducono appunto che l’infedele ( titolo sotto cui va inteso il mondo intero, persino la totalità di tutti gli altri islamici – cioè la stragrande maggioranza ) è nemico e va sterminato. È ovvio che si tratta soltanto di un sogno di potere, delirante, crudele e quasi satanico nella sua cieca violenza. Tuttavia, bisogna tener conto di questo: il sogno crudele è esaudito nelle corti degli emirati arabi, fattispecie presso i Sauditi. E, d’altro lato, è un sogno che fa presa sulla gioventù disperata di un mondo islamico continuamente umiliato e surclassato dall’Occidente. A questi ultimi è sufficiente quella spregevole clausola del Wahabismo – l’infedele è nemico – per esprimere tutto il loro risentimento, l’invidia e il nichilismo in atti sconsiderati e insensatamente feroci. Una “banalità del male” piuttosto scontata: quando pianti il seme della violenza sul terreno mitico, quello che fiorirà prima o poi nella fertile ignoranza del “selvaggio” – sia questo allignato nella solitudine ottusa del deserto, ovvero in quella “neuro” della Banlieu – sarà il germoglio pazzo dell’odio e della vendetta. E, all’oggi, una vendetta che assume le sembianze più di una farsa che di una tragedia. Gli attori di questa pochade predicano una guerra contro l’Occidente, i cui abitanti vengono definiti “crociati”. Una vaneggiante scempiaggine, se non fosse condita con la morte omicida e suicida. Ma il lato grottesco è l’altro: si predica una guerra anacronistica di reconquista di non si sa bene cosa. Ciechi d’odio, non si rendono conto di agire per conto dei soldi, e non di Allah. E i soldi nella nostra epoca non si conquistano a cannonate, ma con altri soldi. Ergo, non metteranno mai le mani sul malloppo usando armi vecchie, per quanto “tecnologiche”, contro l’arma più potente, più distruttiva, l’arma “fine di mondo”, il denaro.    
            

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