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Recensione al "Cuore nero dei papaveri" di Amara

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Viene sempre il sospetto, a leggere i poeti, che un risentimento arrivi da lontano e qualcosa ci sveli, quasi fossimo noi stessi la forma ch’essi indagano, mentre narrano il mondo. Risentimento senza offesa, se fosse possibile, tirato fuori da un lumino di coscienza: attesa e speranza di una voce che tutto dice, tacendo. Ed è proprio questa vocazione al sentire, a trattenere mostrando, il carattere forse più autentico, più denso e indicativo, della poesia di Amara, (la sua cifra, se posso dire) capace di colmarsi scolpendo, di  arrivare netta al cuore pulsante delle cose nominandogli  il passo, perdendolo, svelandogli piano il segreto che lo tiene; e sembra quasi toccarlo il senso, la formula avvitata nel tempo di un occhio, in un battito che incide sottopelle tutti i significati per estrarne uno a memoria che dica la ferita dell’esserci, così, nel mondo, integri e tuttavia scomodi; incogniti e vivi, con un piede a trattenersi ed uno ad andare, fosso e cometa:  
 
è in giornate così/ nitide di luce/ come quando indovini le lenti/ che tutto sembra ancora poter accadere/ lungo le strade di curve/ a strapiombo sull’acqua
 
così riaggalla la poesia, in Amara, facendosi aerea nella presa d’un punto di sutura: lasciando colpi grevi nel segno d’un piede che gioca con le altezze; staccando fotogrammi al tempo, facendone impressioni: ed è gioco serissimo soffiare gli elementi, tirargli ogni piccola corda con la voce, sentirne smisurato il prodigio, insolito e distinto, del volo:
 
Ho il difetto del volo/ Facile preda/  Di ogni minima corrente ascensionale
 
Che un “difetto di volo” venga, quindi, dopo tanta terra, ad alzarci: che ci dia il verso, quello giusto, in cui cadere, forse, a precipizio, con la follia nel cuore: perché in Amara le parole hanno sempre un tremito, una fiamma che le tiene a mezz’aria come in agguato: orecchio fertilissimo sulla voce dei fiori: sogno a planare tra le dita come un ricamo d’ali: mancamento e pienezza: ecco: dicotomia dell’amore baro, per cui tutto si afferma negandosi, comprendendosi appena:
Comprendo e non comprendo/Quello che l’amore sia/ e davvero non so/ se sbavare su un cuore apra/ l’accedere al nirvana/ o se meglio possa fare/ una combinazione astrale/ che spicchi mandati di cattura all’anima.
E sono giunto forse al tratto più caratteristico del “Cuore nero dei papaveri” (edizioni Opposto, Ottobre 2014), e forse della sua intera poetica: quella mania a cercarsi in qualcosa che sfugge o che non c’è; oppure di sfuggire a un troppo: trovarsi nell’istante di un segno che riveli: ecco: forse la qualità di un verso che cattura, prima ancora d’esser catturato. In questo senso trovo puntualissima l’osservazione di Manocchia, che nell’intelligente prefazione al “cuore nero”, parlandoci della qualità ipnotica di un verso che “ci legge”, tira un elogio che non possiamo non condividere sulla ricettività, (tout court, direi) di una poetessa, che nel tempo di un verso, e nel corpo di una voce che si fa immagine, raddensa  le voci del mondo, le colpe latenti e le afflizioni di chi  spera di trovarsi, umano quanto basti, a ridosso di ogni spina, in un pungolo a caso del tempo, spuntandola magari, ad arte, perché:
Spuntare è un’Arte/ si impara sui graffi/ di tutte le capocchie di zolfo/ sfregate per accendere giorni.
 
Giovanni Perri
 

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