Scritto da © taglioavvenuto - Gio, 12/11/2015 - 21:32
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“Ora sei il padre del mio bambino.”
S'erano incantonati, Ghurantatò e Guandalù. Nel senso che avevano preso varie cantonate di cui questa l'ultima. Ed altre ancora, grazie al cielo sopravvivendo, ne avrebbero prese per i giorni che sarebbero loro rimasti sino al finire dell'evoluzione.
Il tifone delle radure, quella particolare specie di tifone adattatasi in milioni d'anni per atterrare ed alzarsi in spazi ristretti come un pallone in un campo di calcetto da cui poi avremmo ricavato l'intuizione degli elicotteridi, aveva lasciato un altro superstite, oltre alla nuova coppia di coniugi nel frattempo formatasi ed i coniugi Strengo-neh.
Il primo a riconoscer la superstite, nonostante fossi impantanato nella posizione missionaria che nella grande generalità dei casi, perlomeno dalla massima parte di noi “forrest”- così noi stessi ci definiamo mentre i rossicci – l'altra popolazione conosciuta - li definiamo “étran-gé”, e definita dell'Ikpon dai popoli caucasici, stranamente, fui io.
E ciò, considerando che la moglie di mio padre che m'aveva seguito dopo lo schioppone della buon'anima se ne stesse in quegli attimi, capitali per una identificazione subitanea di chi ti sorge all'improvviso davanti, non in posizione prona, ma supina, mi parve alquanto strano, dandomi modo di proseguire nelle mie riflessioni epigenetiche, di cui, rivangando, parlerò alquanto più avanti.
-”Non sono più la tua bambina!”
Aveva esordito Mazza - bu – bu - bù, atterrando, togliendoci dall'empasse: mostro in quanto divenuto, nel breve volgere tra un'andata immaginifica-turbolenta e un ritorno pedestre, mezzo essere umano e mezzo essere vegetale.
Difatti, la mia sorellina maggiore si stava presentando a noi, suoi residui familiari, memore dell'esatto luogo in cui ci aveva visto infossarci prima di definitivamente involarsi, dopo aver ripercorso all'indietro, in quel tragitto arcano in mezzo a stupefacenti specie arboree, almeno da due a cinque, forse sei, chilometri di foresta amazzonica.
Resa quasi irriconoscibile dall'impatto con l'unica specie conosciuta: un ramo basso, fiorito, di una robinia portata fin lì, in prossimità dello spiazzo, dalla madre, quand'era ancora una giovanissima piantina.
Il ramo fiorito della” robinia o acacia confusa”, basso, ai primi albori spinto in avanti da quella fanciullina, s'era vendicato, prima rinculando, e, una volta raggiunto il punto inerziale, infine risospintosi in avanti, traforandole con una spina l'occipite destro, riuscendo a far fuoriuscire il grande fiore giallo dall'occhio sorpreso della bimba, fortunosamente senza ledere altri organi vitali.
Ora, Mazza - bu – bu – bù, piangendo dal solo occhio rimastole, il sinistro, stava raccontando alla madre ed al fratellastro quanto il viaggio di ritorno del suo fantastico volo elicoidale fosse stato, in luogo di un piacere, dolorosissimo.
Poiché avremmo rischiato, togliendole quel fiore, di pungerci in qualche modo le dita oltre a rischiare di imbruttirle il viso poiché era ancora di là da venire la tecnica della chirurgia estetica, glielo lasciammo così come si trovava.
Sicuri che le ghiandole lacrimali dell'occhio perso, da sole, avrebbero provveduto esse stesse a tenere quel bel fiore crema a lungo in fresco e la visione dell'orbita ossea avrebbe assunto a surrealistico simbolo di un vaso ad apertura longitudinale, dando luogo a sinapsi neuronali che ci avrebbero ricondotto, in un futuro non lontano, al comune concetto di astrazione, arte, natura e conseguenti contraddizioni.
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