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Deus ex machina

Oggi recuperavo la visione di un filmato che ricordavo sempre con simpatia. Un vecchio filmato (1973) ove Fellini, il regista, invitato a parlare di un’opera d’arte a suo piacimento, si mise a raccontare la sua predilezione per un quartiere. E si trattava dell’EUR, il quartiere oggi residenziale alle porte di Roma, ma concepito con intenti monumentali nell’età del fascismo. Condividevo già allora le idee del regista riminese e ora mi preme di chiarirle.
Già, perché l’EUR venne pensato come un enorme allestimento propagandistico del regime. Ricordo, scritta su uno dei complessi, la retorica: La terza Roma si dilaterà sulle sponde del Tevere fino al mare…eccetera. La gigantesca fondazione doveva illustrare il gigantismo ideologico del fascismo e del suo leader, equiparando le glorie attuali a quelle imperiali dell’antichità. Un’altra Roma, con un altro impero e una nuova gloria. Concezioni di un qualunquismo pacchiano e quasi patetico nella sua improbabile, improponibile, esilarante simmetria con le grandezze passate dell’urbe. Tuttavia, furono chiamati grandi nomi dell’arte contemporanea a collaborare all’”eroica” impresa. A parte l’archistar di regime, autore del grandioso progetto originario, Piacentini, che di grande aveva soltanto la mania di grandezza, basta citare l’apporto di Sironi e di Terragni, per dire che il talento non vi era del tutto estraneo. Fatto si è che, nel maldestro tentativo di ricalcare la monumentalità degli antichi e del Rinascimento, gli artefici fascisti riuscirono nell’impresa irreale di concretare una estetica che non era nei loro intendimenti. Grazie anche al “non-finito”, dovuto alla interruzione dei lavori a causa della guerra e della estinzione delle risorse, l’EUR restò, abbandonato, come un gigantesco giocattolo, mai goduto.
Così, dice Fellini, esso ha il sapore di un “sogno interrotto”, di un metafisico patchwork di marmo, disegnato “come lo disegnerebbe un bambino”. E sta qui il bello. Quegli architetti erano pur sempre razionalisti e movevano culturalmente dal futurismo. Così, il loro futurismo attempato, dejà vu, si cangia in una specie di speranza onirica che, spezzandosi, diventa metafisica. L’EUR ha il sapore di questo sogno delirante che, non realizzandosi, né potendolo, cambia di segno e si trasforma in un’arte arcana, indecifrabile, in cui aleggiano gli spettri dell’inconscio. E la sua spettrale elementarità diventa invece monumento di una metafisica ridotta all’osso e perciò tanto più sconvolgente. Le prospettive ovvie e  lineari degli enormi portici smaglianti e degli archi ridotti alla pura citazione geometrica, rivelano il debito razionalista dei suoi creatori, ma anche il senso di una fantascienza retrò che, alla nascita, è già vetusta; un avvenirismo alla Jules Verne che, in pieno novecento, suona un po’ una musica scordata. Ma questa “pazzia” reazionaria finisce per risplendere appunto come pazzia e lascia dietro di sé una catena di montagne geometriche, marmoree, appariscenti, più prossime alla psichiatria che all’architettura. Un grandioso manicomio monumentale dove l’angoscia della pochezza culturale si trasforma in bianche tenebre metafisiche che, invece di decantare la possanza del deus ex machina che l’ha concepito, mette un po’ paura.
E la paura, è noto, è uno degli attributi dell’estetica
 
 

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