Scritto da © Winston - Gio, 08/01/2015 - 14:09
O della seconda virtù romana: le Tavole etnografiche.
Gitone ed Ascilto, nel frattempo accoccolatisi ai piedi di Encolpio, iniziano a ridere come pazzi, sia per lo stato confusionale del loro compare, sia per il battibecco sorto tra egli ed Eumolpo sulla storiella di Filomela e Corace, sia per i ghiri ed i fischioni spiedati, sia per la storia dei due Germani Maxx&Gretel senza denti, incatenati in quella che ora pare una grande piazza d'armi; storia appena appena illustrata ai convitati da Anfitrio- Trimalchio. È a questo punto che il crapulone Nicerote, pensando che irridano al suo caro amico e benefattore Anfitrione, si alza su dal letto manducatorio sul quale sta steso sul gomito e fianco sinistro, o destro, quando, giunta l'occasione del pernacchio, con buona educazione si volta, e si infuria con essi.
- Cribbio, Anfitrione, come puoi permettere che questo pel di carota, questi parrucconi debosciati ti satireggino in tal modo? E a casa tua in fondo, mangiando del tuo porco, dei tuoi ghiri, del tuo miele, bevendo del tuo Falerno. Che mica ne hanno di portare del loro! Alla fin fine dove pescano costoro, questi idioti fannulloni?
Anfitrione:- Via via, Nicerote; sono miei ospiti anch'essi. E non dobbiamo rovinarlo, questo convivio, per così poco. Per Giove. Ridono? Non mi hanno capito?
Per tutti gli dei, cosa me ne viene, in più di quel che ho già, che ridano o piangano? Ma Nicerote, datosi uno sguardo intorno, percepito a volo d'uccello un tacito consenso tra tutti i crapuloni colà pervenuti, persiste nella propria filippica.
Seleuco subentra ad un tratto nei conversari di questo mangiatore e di Ganimede, che gli ha dato man forte.
- “Ego” inquit rivolto in particolar modo ai tre giovani Ascilto, Encolpio e Gitone, “non cotidie lavor, baliscus enim fullo est; aqua dentes habet, et cor nostrum cotique liquescit. Sed cum molsi pultariem obduxi, frigori laecasin dico. Nec sane lavare potuit; fui enim hodie in funus. Homo bellus, tam bonus Chrysantus animam ebullit. Modo, modo me appellavit. Videor mihi cum illo loqui. Heu, eheu, utres inflati ambulamus! Minoris quam muscae sumus... Sed antiquus amor cancer est”.
Anche Ganimede vorrebbe dire la sua, ma Filerote è presto a riprendere in mano il discorso.
- Ab esse crevit et paratus fuit quadrantem de stercore mordicus tollere. Itaque crevit, quicquid crevit, tanquam favus... De re tamen ego verum dicam, qui linguam caninam comedi: durae buccae fuit, linguosus, discordia, non homo...
A questo punto Abinna ordina al cuoco di portare in sala ulteriori Delikatessen.
Su tre cocchi da guerra, da parte dei cucinieri armati di coltelli da trancio, sbucati dai locali del retro, vengono trainati al centro dell'emiciclo tre gigantesche anfore che vengono subito agganciate a ganci da macello, di modo che siano equamente divise per tutto il triclinio.
I cucinieri armati vi si avventano contro come fossero nemici da infilzare e lasciare sul campo ed ecco da quegli squarci uscire, come per incanto, bianche colombe con il collo ornato di lauro, e pernici sarde, dalla cresta e dal barbaglio rossastri, multicolori sui fianchi ed una bellissima schiena, ed un bellissimo collo cinerini, che s'involano per l'aria.
Contemporamente a tal volo, fagocitando l'attenzione ed il palato di tutti i presenti, dalle fenditure, da ogni crepa creatasi, dalle tre anfore iniziano a sboccare fino a terra, salsicce, prosciutti, viscere di porco insaccate e legate mediante sanguinacci, culatelli stagionati, salami magri o lardellati con le etichette in bella evidenza della Gallia Cisalpina di produzione, e in genere dell'intera filiera, dall'alimentazione al territorio del brado al modo in furono uccisi.
Tutti i pater familias ed i loro familiari, nel contempo, si lanciano, chi a mani ignude, chi con reticelle per miracolo apparse da sotto le tavolate, a zompare addosso ai pennuti che ancora non s'erano per l'intero alzati, chi facendosi male per imperizia, chi uscendone indenne.
Le femmine a gridare agli inserventi, sia da sopra gli imbandimenti dove si trovavano in bilico, sia da terra ove le più si erano gettate per non abbandonare le prede, facendo seguire gesti da trivio, in prima linea Fortunata e Scintilla, che avrebbero gradito alquanto che, prima di graticolarli, pure fossero loro spennati.
In tutta la confusione, i soli Anfitrio- Trimalchio ed Eumolpo erano rimasti seduti sullo scranno ad osservare, a godersi la sorpresa senza nulla fare.
Allora, da parte di codesti cucinieri e delle donne bistrate, si vide quanto essi fossero obbedienti alle donne ed in queste sorgesse una decisa speranza: la speranza di una foglia di elleboro, di un fior di cinnamomo, di un petalo di cardo selvatico.
Su quei pavimenti di puro marmo di Rodi, i cucinieri giannizzeri tiraron fuori una enorme rete quale quella che usano i nostri pescatori al traino ed altre più piccole, simili a quelle delle vedette delle navi, arrampicate sui gabbiotti delle medesime per catturare gli uccelli acquatici nei periodi di carestia marittima, ed avvolte in esse tutti i nodi, gli uccelli colà liberatisi, liberandosi a vicenda le nocche, le giunture, gli sguardi avvinti nello scambio promesso, li traportarono nelle cucine per gettarli nelle pentole dopo averli previamente fiammeggiati, denudati a puntino delle penne, tagliato loro, sui tavolacci, le parti cornee e le zampe.
Molte, di tali zampe, rimasero nell'illusione, nella rete. Quella che un cuciniere, oppure due, o tre, e non un dio, bastassero, quando il sentimento trae origine da una mancanza nella propria evoluzione.
L'orda improvvisa di cibo calata quale fa la grandine su noi tutti aveva fatto si che, chi non aveva vomitato prima vomitasse ora, e che nelle elocuzioni, pur se in parte giustificate, di Nicerote e gli altri si producesse una pausa.
Seppur temporaneo riparo ai vituperi che avevano trafitto la particolare indole dei tre giovani, ella fu la molla perché Encolpio tornasse ad un'espressione mesta e grave e si producesse in lui ciò che il suo vero animo gli stava dettando.
Encolpio: - Svestito come mi fui, addentratomi nel bosco
lupi e uomini vennero a me incontro
tal quale era stato nella mia precedente
vita, così li riconobbi ad uno ad uno
ed in questa guisa gli parlai, con le mani
e gli occhi additandoli: Tu Romolo e tu
Remo, e voi Gracchi, tu Bruto, voi Annibale
e Scipione, Sabine, tu Cesare, immenso duce
delle strade, per qual motivo non siete rimasti
nudi sulle sponde del grande padre vostro
a dilettarvi con tuffi e lazzi ed una volta detersi
del sudore e della ghiaia spalmarvi d'unguento,
ripuliti i denti dello sfilatino? Perché non
v'abbeveraste alla fresca rupe, gli interstizi render
come gigli a Ramarino, l'indice precursore di tante morti
di cinghiale - vi rodeva la perdita di ghiande, di radici,
volevate il mare, Ostia bella da dove le navi si dipartono
e non tornano, talvolta? Le nubi procellose che dopo
lampi e tuoni il legname, che una volta ben piallato,
a terra vi riparerebbe, torcere e far vibrare al suono
delle onde, nel grande viaggio del ritorno?
Voi miseri, che non pensaste al controllo delle nascite
che sbigottite che a un Salomone piaccia scaldarsi
i piedi come fanno i babbuini e non vedete le foreste
dell'isola di Pasqua, non vedete, non sentite i lunghi
traferimenti nelle praterie invernali dei nostri fratelli
pellirosse, non vedete, non sentite le balene, lo schizzo
al cielo dei sifoni d'acqua prima degli accoppiamenti,
prima d'immergersi nel buio del mistero; i tonni
dalle pinne rosse, gialle, a quanto vengano venduti
sul mercato a Tokio.
A cosa servivano le tavole di Ur, della Babele mitica,
quelle delle Cronache delle scritture ebraiche dopo il diluvio,
le ridisegnate, con enorme lavorio notturno, da Erodoto,
Polibio, dal Kitab al-Magali, oltre a sapere come si fossero
divisi i figli e le bestie, sulla terra e sotto, e quali fossero
le oasi dove il loro spirito riposa?
Non una serie di geometrie, di linee, come insegnò, a noi
figli di Jafet, gli aperti, Talete; bensì una serie di tribù che
unite ognuna dalle diverse tradizioni loro, si aggregano,
dipartono, perdono la visione dell'insieme, finché
si sfascieranno, sul monte nel Caucàso. Stavolta, spero
per sempre, come Lida.
- Ti sei dimenticato di Demostene, delle sue Filippiche, ahahah. Gli fa eco Seleuco.
- Non vi ci vorremmo nemmeno lavare, nel vostro bagno. Preferiamo rubare come abbiamo fatto finora, tenerci la nostra scabbia. Gli risponde Encolpio.
E i tre giovani si alzano e se ne vanno, seguiti, quatto quatto, da Eumolpo. Sorvegliati a vista dagli uomini della Security.
Ma non trovano la porta.
Ovvero, come spiega loro il portinaio dello stabile: la porta da cui sono entrati è soltanto d'ingresso. La porta di uscita è un'altra, la potranno trovare da tutt'altra parte.
La villa di Trimalchione-Anfitrone, dove è stata celebrata l'opulenza ed il consumo "illimitato" del cibo e del linguaggio, dove la "misura", il μέτρον, il metro del mondo greco classico, vi risulta abbandonato, assume, allora, una forma labirintica. La quale porta alla critica del "cattivo infinito", alla critica della storia dei concetti filosofici hegeliana, ed economica marxiana: cioé del travalicamento, alla condanna della metafisica dell'illimitatezza.
Fino, per citare solo alcuni tra i maggiori autori filosofico-letterari, in Italia la visione disincantata melanconicamente persa, del Leopardi, ed in Germania di Hölderlin.
E Petronio, l'autore del Satyricon, viene riconosciuto, come è stato scritto, il primo grande poeta romanziere della latinità. Cui seguiranno, via via avvicinandosi a noi, anche qui rammentandone alcuni a caso tra quelli alla memoria per un certo stile, e d'eloquio a tratti violento e satirico sia nei confronti del Potere che delle Masse, che con la preordinata l'attenzione al sociale, portatrice di analisi critica e lucida, (scusandomene fin da ora per la pochezza d'elencazione)tralasciando ll'insanabile dicotomia tra Dante e Petrarca, la difesa degli eroi dell'Ariosto, alla rivolta verso un mondo fittizio di Cervantes, Rabelais, Shakespeare con le sue panoramiche a tutto tondo, il drammaturgo poeta J.Racine, Montaigne che si rifugia in se stesso, Sade e von Masoch che cercano il "lupo in sé uomo", il Baudelaire dello spleen, del disfacimento cié e dell'inedia, il poeta tragico P.P. Pasolini con le sue trilogie I° e II°: Porcile, Orgia ec, Bestia da Stile::: lo scrittore saggista L.- F. Céline. che non risparmia nulla a nessun; non può.
Si è detto di tutti questi grandi; a centinaia ne potrebbero essere aggiunti e, se si volessero guardare anche i dettagli, le particolarità, probabilmente a migliaia. Ma è mia personale opinione, che mai nessuno spaccò il mondo della"misura", quello dell'uomo misurato classico greco, bastevole a se stesso, logico seppur nelle sue passioni, in perenne dialettica con gli Dei, rappresentato da Omero e dai tragici Eschilo e Sofocle, quanto il grandissimo Euripide con le sue Baccanti; allorché introdusse nella complessità del "Finito" l'ulteriore elemento dionisiaco,il Dio straniero, già di per se stesso diviso, non logico, né dialettico; spiazzante.
Un'uguale grandezza la si dovrebbe riconoscere al Darwin della nostra più recente memoria: un altro Geometra, come lo fu Talete.
- Tu, Winston, a chi le racconti tutte le nefandezze per cui sei passato, dove ti sei immerso, per cui non smetti ormai più di defecare, povero "individuo"?
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