Scritto da © Winston - Ven, 01/08/2014 - 14:39
U fistinu - terzo episodio
Dopo avere contribuito, più o meno volontariamente, più o meno per giustificati motivi, alla morte del figlio Vito, Rosa Lilia ovvero Rosalia, dovette tornare ad occuparsi di tutto: della casa, dei figli, delle capre, del campetto seminato a grano.
Senza che venisse loro richiesto, l'aiutavano come potevano i figli rimasti, tranne naturalmente l'ultimo avuto, dell'età di due anni.
L'anacoreta cui il tocco di pane era stato negato poiché mancava la materia prima, non se ne era per questo avuto a male in quanto la donna gli aveva, in sostituzione, offerto una manciata di erbe di campo appena raccolte e la metà di un caprino.
Ricordatosene, egli, passato circa un anno, toccò di nuovo quella casa.
Rimaneva sul polveroso sentiero ad una distanza di una trentina di passi dalla capanna, non osando, secondo propria natura ed intenzioni, entrarvi, e fu ad esso che Rosa Lilia ebbe a narrare, con estrema parsimonia, l'accaduto, dovendo in qualche modo liberarsi dei dubbi insorti in seguito alla morte del primogenito.
Intanto Nigro, il cane pastore mannara della donna, legato alla catena un cui anello faceva perno sul lungo ramo di frassino parallelo alla medesima capanna, trotterellava in continuazione da Rosalia all'uomo ammansendosi o digrignando a secondo di chi trovasse nelle sue più immediate vicinanze.
Era per scelta e non per incapacità, che l'eremita tirava con i denti la propria esistenza. Era stato, per una lunga frazione della propria vita, amanuense in un cenobio benedettino situato sui Monti Sicani. Uscendone infine, nonostante i comandamenti della Regola, per dedicarsi all'ascetismo con la benedizione dell'Abate. “Un fratello non tutto d'un pezzo”, in quell'occasione l'aveva definito il sant'uomo, congedandolo con tutta la benevolenza possibile, baciandolo sulle guance.
Era stato, nella propria posizione di maestro amanuense, un testimone e fautore della riforma di Cluny, con la quale l'Ora et Labora veniva riportato, nei cenobi, al suo smalto originario, ma tutto quanto ciò comportava l'aveva trovato necessario, eppure non sufficiente.
Era un uomo sul quale pesava sulle spalle la croce di aver abbandonato a se stessi i propri fratelli per cercare Dio da solo. Il motivo, questo, per il quale, una volta all'anno, lasciava la propria grotta sugli stessi monti e scendeva a valle per rivedere in viso i suoi simili.
Anche in questo, disubbidiente a quanto stabilito.
Pancrazio, però, di quest'ultima indisciplinatezza, pensava fosse una questione ancora tutta da risolvere tra l'Entità suprema e lui.
In quell'istante, Nigro, nonostante il grido di Rosalia per dargli l'alt, gli si avventò contro con un terribile stridore di ferro, quasi fosse in guerra con quell'estraneo ed avesse anch'egli un'impellente, non procastinabile questione in sospeso.
Il cane mirò deciso, le fauci spalancate, i canini sguainati che rilucevano nei bagliori del pomeriggio tali spuntoni di quarzo riportati alle superfici della terra, agli unici strumenti ora essenziali per l'ex cenobita: al collo del piede destro del monaco.
- Sentivo di dovergli spezzare gli stinchi. Era l'unica maniera per non permettergli di spostarsi, lasciare la grotta, O, meglio, fargli cambiare strada. Puzzava di uomo più dei pastori, più di Vito, ma Vito era anch'esso mio padrone. Era stato lui a raccogliermi, nutrirmi, curarsi di giocare con me.
- Mi ero fermato in quel punto preciso del sentiero appositamente, calcolando con molta prudenza la lunghezza della catena. Ne avevo misurato la grossezza degli anelli, poi solo il Signore poteva sapere se avessero tenuto testa allo slancio del mannara.
A Nigro si pararono improvvisamente davanti le gambette di Vincenzino che, accoccolandosi nella polvere dello spiazzo, continuava a piangere e contemporaneamente si gustava il moccolo appena infilatosi in bocca.
Il cane, accortosi che il questuante era troppo distante per morderlo, perseverò però a ringhiare in direzione del'eremita.
Appena diminuito il suo furore cagnesco i due, Rosa Lilia e Pancrazio, si ritrovarono simultaneamente a urlarsi dalle rispettive posizioni:" Cosa c'è?"
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