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Venivamo da Nord. Avevamo attraversato due terzi del Paese animati dal delirio cui chiese e famiglie ci avevano condotti. Viaggiavamo in due gruppetti di otto ragazzi ciascuno, poi, arrivati dove l'Umbria penetra nel Lazio, i gruppi si ridussero a tre di cinque componenti ciascuno per la perdita improvvisa di Lorenzo. Defezione o smarrimento dopo aver  attraversato i valichi dei Sibillini ancora macchiati di neve e di impronte di lupi.
Tranne Pietro, maggiore di dua anni circa, si trattava di coetanei radunatici a Tarvisio sotto  una bandiera rossobianca raffigurante una croce.
Ora si viaggiava dall'alba fino a quando il sole non cominciava a cuocerti troppo le spalle, poi si cercava un qualsiasi posto, fosse un boschetto, un grande albero isolato o muri di fango e tronchi  di abitazioni di campagna, o frasche di capanne isolate, dove ripararsi.
 Si riprendeva a camminare dal tramonto fin quando il sonno ci prendeva.  Sorretti dalla forza della Missione. Si evitavano accuratamente villaggi e paesi.
Ci stavamo avvicinando al basso Lazio, da cui avremmo proseguito verso le mura di Cassino, prima ed unica tappa prima di raggiungere le Calabrie, dove ci avrebbero imbarcati.
Nei pressi di Alatri avvenne uno scontro con un gruppo di otto pastori che pensavano fossimo, in luogo di giovani crociati pellegrini, semplici sbandati, ladri.
In breve, brevissimo tempo, mediante fischi modulati che attraversarono i pascoli sui quali ci stavamo muovendo, si radunarono insieme e ci furono addosso, calandosi veloci alle spalle e sui nostri fianchi con i loro pali accuminati anti predatori, colpendoci di sorpresa a schiena, torace, gambe e ventre mentre urlavamo loro di essere pellegrini - crociati. E null'altro.
Solo al secondo attacco quelli di noi armati chi di una lancia che di una spada arruginita, chi di uno scudo recante un'uguale effige riuscirono a reagire ferendo  alcuni di quei pastori,  mettendoli infine in fuga.
Allora contammo quelli di noi non riversi sull'erba agonizzanti o già privi di vita o talmente feriti gravi da non poter più muoversi. Pronti a proseguire eravamo rimasti solamente in cinque.
Presi dallo sconforto, ma senza versare  lacrime, raccogliemmo dalle mani dei nostri compagni a terra due lance e uno scudo; con quelli e un gladio la cui lama stava fuoriuscendo da un angolo dell'impugnatura scavammo una fossa comune e dopo esserci assicurati che fossero veramente morti  o lo stessero, ve li seppellimmo previo caritatevole colpo finale alla gola ai due che ci imploravano di non farli più soffrire abbandonandoli ai pastori e ai loro cani.
Poi risalimmo quelle ubertose colline non distanti dalla città eterna, circospetti e stretti a torre, andando per la parte avversa a quella dove avevamo visto fuggire i pastori. Dopo tre giorni e tre notti per luoghi sconosciuti, raggiungendo le mura dell'enorme, sacro eremo dal retro.
Alla loro vista, unici tra di noi ad averle sognate la notte prima, i due Franz ebbero l'ardire di gridare, le mani rivolte al cielo, in quel loro italiano martellante e mistico, misto tra slavo, tirolese e latino e sardo: -  Frateli, tutse le strasse portano a Casino, abbite fidem. že*." 
E lì, tutti ci inginocchiammo, esausti. Consapevoli che la vita terrena è una sola ed è un telefono rosso upstairs l'azzurrino.
P.S. * o Ze, sta a significare Già, rispettivamente in lingua slovena e sarda.  
 

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