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Shahid, tra questo e quel marciapiede

 
Cammina sull’asfalto come su nuvole,
ancheggia tra una ferita chiusa e l’altra
aperta. Questo perchè il cielo, trauma
celeste, è anche gamba di una guerra
che si trascina dal primo feretro.
Cielo tribale, trincea in seguito: intimidisce
persino i cadaveri stretti nelle ossa.
La polvere li venera, ma la spoglia a volte
è aria che non molla.
 
Lui mal sopporta la nuvolaglia, vive
negli scappamenti e quando un cirro
non si ferma a dovere, drizza il medio,
gorgoglia un tuono che in un lampo
arriva dove deve. Parla a fiotti
in dialetto locale, straniero qui
come la neve, quanto un minareto. 
 
Tende il berretto, per metà rete
l’altra metà magro golfo di tela.
Oh, certo, i pesci sono poveri, ora,
ma mostrano squame d’argento pretenzioso.
Se solo uno si fermasse caritatevole,
allora sì l’acqua non gli mancherebbe.
 
Lui siede sul suo trono di cemento. Un re
che degna la terra delle sue chiappe di bronzo
e mai vorrebbe darle la schiena. Tutto sommato,
è una nuvola ed è doloroso vederlo.
 
Qualcuno si rivolga a lui: qualcuno, ho detto,
non tutti: una gamba è il cielo. 
 

 

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