Lewiss Carroll e la cella di Settembrini | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Lewiss Carroll e la cella di Settembrini

Brano tratto dal mio romanzo  - LA CASA DELLO SPECCHIO -
 
 
Lewiss Carroll e la cella di Settembrini
 
            Dal giorno dell’apparizione del bambino nello specchio dell’attaccapanni, Ada ebbe per quel mobile una cura davvero maniacale ed alternò giorni di normale lucidità ad altri durante i quali cadeva in un particolare stato di trance. Era allora che pronunciava parole apparentemente prive di senso:
“Amma meresseo ilgov,
anatasa oic cafotov”
Oppure filastrocche piene di tranelli linguistici sottili ed incomprensibili composte da parole inventate:
 “Serpa son dal desderìo
d’esser drema un dì piccino,
ma de sio non vuol pochino
penseraci Tasanìo”
 
Fu proprio in seguito a queste sue strane assenze che, su mio consiglio e per mio interessamento, cominciò a frequentare uno psicanalista che avevo trovato sull’elenco telefonico. Si trattava di uno di quelli la cui tecnica era stereotipata nell’uso del lettino. L’uomo cercò di convincerla che l’apparizione del bambino nello specchio di casa non era altro che il frutto della sua ossessione. La sua mente avrebbe creato i dettami di una figura idealizzata dalla delusione patita per la mancata maternità, il desiderio d’essere mamma avrebbe trovato una risposta nella capacità di generare anche dove non vi era generazione fisica. In poche parole Ada avrebbe creato con la sua stessa mente quell’immagine. Possibile che la sua potenza mentale fosse tale da trasmettere anche a me la forma che aveva creato? E come si spiega che quella aveva cercato di afferrarla?
Ad ogni modo mia moglie cominciò a frequentare sempre più spesso lo studio dello psicanalista condividendone alcune teorie: - Solo la frequenza delle sedute – mi disse – può favorire un processo evolutivo più facile e più profondo.-
In realtà Ada provava un particolare interesse per quell’uomo e ciò mi fu confermato, prima da una sua annotazione fatta sul bordo di un giornale che trovai sul letto e che esprimeva per lui una non trascurabile ammirazione: “ E’ uno psicanalista che pratica la psicanalisi e la psicanalisi è quella praticata da lui.”, e in seguito da uno scritto trovato in un cassetto del comò:
“E se lo amassi? Certo è che mi dispiace non vederlo quando non ci vado. Vorrei spiegare alla gente che vedo passare in strada che ho voglia di incontrarlo, ma la gente ha fretta e tira dritto. Mi ricordo di quando ci sono andata per la prima volta: lui era così cordiale, così allegro che, anche se solo per qualche istante, riuscì a trasmettermi il suo buon umore ed a farmi sorridere. Sorridere? Capisci, tu passante che vai per la tua strada? Fece sorridere me che non lo facevo ormai da tanto tempo. Quando fu ora di andare via mi baciò la mano, mi guardò e mi disse: - Lei è indifesa ed impaurita come una bambina-. Come va e viene la gente qua fuori! Vorrei dire loro quanta sicurezza e coraggio infonde nel cuor mio la sua presenza, ma la gente corre, corre senza guardare. Dove corre la gente? Verso che cosa?”
 
            Da ragazzo conoscevo una bambina di nome Maria. Era costei unica femmina tra sei fratelli, era magrolina, con i capelli biondi tirati su da due nastri rossi alla maniera di “Pippi Calzelunghe” e come lei teneva anche il volto interamente cosparso di lentiggini.
Aveva per me una sacra predilezione e non nascondo che, nonostante la nostra giovanissima età, avemmo un rapporto sessuale naturalmente dettato più che altro da infantile curiosità e da un desiderio alimentato da una pulsione vitale che coinvolgeva sia l’anima che il corpo.
- Ti dico che comincia la femmina a fare certe cose…- dissi alla piccola Maria, dopo essermi assicurato di aver ben chiuso la porta del gabinetto nel quale ci eravamo cacciati. Si trattava di un camerino di legno e muratura ad uso di tutti gli abitanti della loggia dove abitavamo. Era posto fuori all’aperto su un lato accanto ad un lavatoio.
- E’ la femmina che comincia!- E guardavo fuori il terrazzo deserto, spaso ad un’interminabile pioggia compagna e testimone di quel “tremendo” peccato che stavamo per fare.
- Il cavaliere…- disse come infreddolita la Maria con le guance tracciate di vermiglio e con gli occhi lucidi fermi sul mio viso paonazzo: - E’ il cavaliere a…-
- Hai le mutande Mariuccia?-
- Certo!- E quasi controllò come se non se le sentisse addosso. Allora pensai a Dio e a quanto poteva star pensando male di noi. Immaginai la soglia dell’Inferno: una bocca fiammeggiante con dentro un rosso abisso nel profondo del quale mi pareva di scorgere indistinte forme mostruose di demoni e dannati. Ma quell’angioletto biondo, complice della mia perdizione, mostrandomi, ormai nuda, il suo piccolo tesoro pallido ed acerbo, mi trasse subito da quel baratro e m’innalzò alla luce del Paradiso.
Fu durante il periodo della pubertà che, attratto da altre compagnie, mi disinteressai completamente di lei fino a quando un ragazzo, venuto chissà da dove, prese a farle la corte e dopo qualche tempo me la portò via. Solo allora, preso da irrazionale gelosia, compresi ciò che avevo perduto!
Con Ada mi capitò la stessa cosa: quando scoprii le attenzioni che aveva per il suo psicanalista, fui preda di un indicibile tormento. Cominciai a trattarla con sufficienza, non le davo più alcuna spiegazione delle mie azioni, trasformai la nostra già precaria relazione di coppia in una sorta di rapporto sado-masochista in cui punivo lei e me stesso. Pian piano emerse in lei la rabbia nei miei confronti, ma anche nei confronti di tutti coloro che, con una sorta di ricatto affettivo, le imponevano di fare e di essere come loro desideravano. Ella non accettò più di sopportare il mio “presunto” tradimento e di avermi svenduto per amore la sua personalità, così, con un lungo e paziente lavoro di elaborazione cominciò ad ascoltare i propri bisogni, i propri desideri e a dedicarsi anima e corpo all’unico uomo che non le imponeva alcun tipo di comportamento, ma che l’accettava così com’era. A lui si donò cercando dentro di sé la risposta alla sua “fame” d’amore e prendendosi cura di se stessa come mai aveva fatto prima. Sembrò essere diventata un’altra!
 
            Su Lewis Carroll avevo raccolto da Internet solo frammentarie e superficiali notizie. In realtà egli si chiamava Charles Lutwidge Dodgson, il vero nome da cui, con una complicata doppia traduzione dal latino all’inglese e viceversa, aveva tratto il suo pseudonimo.
Era nato nel Chesire a Daresbury il 27 gennaio del 1832.  La sua famiglia era del nord dell’Inghilterra, ma con una buona percentuale di sangue irlandese. La maggior parte dei Dodgson, che erano anglicani e conservatori, appartenevano a categorie tipiche della borghesia medio-alta dell’epoca: l’esercito e la chiesa.
Da qualche parte lessi che, quando nel 1845 Charles fu mandato a studiare alla “Rugby School”, scrisse:
 
“Nessuna considerazione potrebbe indurmi a ripetere i miei tre anni. Posso dire onestamente che se fossi stato risparmiato dai disturbi notturni, sopportare la durezza della vita diurna sarebbe stato, in confronto, un nonnulla.”
 
Mi chiesi a cosa si riferisse quando parlava di “disturbi notturni”, quale potesse mai essere stata la loro natura? Come mai essi erano così particolari che  “la durezza della vita diurna” che pur era difficile, “sarebbe stata in confronto” addirittura “un nonnulla”?
Dodgson lasciò la  “Rugby” nel 1850 e si iscrisse appena un anno dopo alla “Crist Church” di Oxford dove, poi, gli fu conferita una cattedra di matematica che tenne per tutta la vita. Nel 1856 conobbe una bambina di quattro anni di nome Alice Liddell alla quale, in appresso, dedicò la sua opera “Alice nel paese delle meraviglie” ed il seguito “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”. Morì di bronchite a Guilford il 14 gennaio del 1898.
 
            Era davvero poco quello che avevo saputo e, soprattutto, non avevo trovato da nessuna parte conferma della presenza di Dodgson a Napoli né alcun accenno al mio specchio. Confidavo però in Anna, più capace, più tenace, anche più preparata di me in questo genere di cose. Ella aveva scoperto molto di più, e precisamente che Carroll fu ordinato prete nel 1862 presso la “Crist Church”; che fu un matematico geniale; che fu un uomo schivo (era balbuziente e timido) e solitario; che scoprì la fotografia nel 1856 e le sue foto furono delle vere e proprie poesie.
- Praticò l’irregolarità di una fantasia svincolata da ogni schiuma mondana – riferì Anna – Amò il teatro, giocò con i numeri e con le parole, ma più di ogni cosa amò l’innocenza delle fanciulle impuberi alle quali dedicò doti di ingegno, scrisse poesie, scrisse lettere piene di estro.
Ho visto i ritratti di bambine di Carroll. Essi mostrano subito che la macchina fotografica è capace di celebrare momenti, fratture o memorie che varcano l’immediato nel quale i ritrattati sono fotografati e nei quali egli coglie ciò che vuole: il furto della loro anima. Egli ha la straordinaria capacità affabulativa di istantaneizzare un universo immaginabile del quale non sempre il soggetto fotografato ha pienamente coscienza di ciò che rappresenta per il fotografo.-
Mi parlava di queste cose in macchina, una sera che ci eravamo appartati in una stradetta buia e solitaria. Era nuda tra le mie braccia e mi fece sprofondare nella più assoluta incertezza: non sapevo se apprezzare di più il suo corpo o la sua mente.
La serata era tranquilla e stellata e, accompagnato dalla musicalità della sua voce, istintivamente aprii il finestrino, alzai lo sguardo e mi persi nell’immensità di uno straordinario firmamento di astri che luccicavano ad intermittenza. Fu allora che mi sentii piccolo piccolo ed intesi ricompormi, mentre all’interno dell’auto altri due astri scintillavano di luce intensa: erano i suoi occhi.
- La passione di Dodgson per le bambine e la sua collezione di foto portarono alla nascita di una teoria su una sua presunta pedofilia. –disse Anna – Ma io non credo che fosse un pedofilo. Credo, invece, che egli non avesse una vita adulta e che si trovasse a suo agio solo in un mondo infantile. -
Ed è in quel suo mondo bambinesco che dovevamo trovare tracce del terzo libro nel quale pare ci fossero chiari riferimenti allo specchio del mio attaccapanni, probabilmente alla sua storia ed al suo motivo d’essere.
 
            Da quando avevo avuto sentore della simpatia di mia moglie per quel suo psicanalista nel mio animo si erano affollati i pensieri più disparati e combattuti: mi sentivo alla continua ricerca di me stesso avendo lasciato alle spalle quella “tranquillità” domestica che non mi consentiva tuttavia di vedere la realtà della vita e di spalancare gli occhi su di essa con curiosità, ansietà e sbigottimento. Nell’antichità le famose “Colonne d’Ercole”, poste agli estremi lembi di Gibilterra e della costa africana, rappresentarono a lungo il punto geografico oltre il quale la vita era avvolta dall’ignoto; eppure, quando i marinai furono esperti e lasciarono da parte le superstizioni e i pregiudizi, essi vi si avventurarono, con la coscienza che la storia dell’uomo richiedeva loro per quel passo. Ebbene, anch’io, incallito pantofolaro, “divoratore" di scialbi programmi televisivi, “chattologo” di squallide domeniche sera, mi ero ormai avventurato oltre lo stretto della porta di casa e tuffato tra le braccia di una nuova e stimolante avventura con Anna.
Di Ada seppi che si vedeva ormai costantemente con quell’uomo anche fuori dallo studio. Infatti, una volta li incontrai casualmente per una via del centro. Lei teneva in braccio un micino bianco.
- Ti presento il dottor Salvetti, il mio psicanalista- disse lei. L’uomo allungò il braccio per stringermi la mano, ma io non mi mossi.
- Dove hai preso questo gatto? – chiesi.
- Il micino bianco non c’entra affatto. – farfugliò Ada – La colpa è tutta del nero. La gatta madre aveva lavato la faccia al micino bianco, è, quindi, chiaro che  esso non ha potuto aver parte al misfatto…-
- Il micino? La gatta madre? Ma che dici?-
- Permette? – Fece il dottore prendendomi per un braccio e portandomi qualche passo lontano.
Ada, - disse, parlando sottovoce – è in preda ad una forte depressione dovuta a motivi che lei dovrebbe ben sapere. Ella sembra fortemente condizionata da un mobile che avete in casa, ed attraverso, forse, alcune sue letture, è suggestionata dalla personalità di Lewis Carroll, l’autore di “Alice nel paese delle meraviglie”.
Mi stia a sentire: si disfi di quel mobile, per il bene di sua moglie! Ella ora ha solo bisogno di tranquillità e di non sentirsi più sola. Per questo motivo le ho regalato il micino.-
- Non ce n’era bisogno. C’è lei che le fa buona compagnia!
- Cosa vuol dire?-
- Non dovrebbe approfittare della sua debolezza, bastardo!- Gli fui addosso e lo presi per il bavero del cappotto.
E lui, divincolandosi: - E lei, allora? Non ne ha approfittato? Io sono qui per aiutarla.-Andai via prima di venire alle mani.
 
            Quel giorno me ne tornai a casa con la mente confusa, col cuore pieno di tristezza, di rabbia, di sconforto e di rimpianti. Mi ero trovato di fronte l’amante di mia moglie e non l’avevo preso a pugni! Forse temetti di far del male a me stesso.
Appena entrato mi fermai davanti allo specchio e per qualche minuto rimasi a guardare le maschere di ferro dai volti bestiali e la mia immagine riflessa. Alle mie spalle riuscivo a vedere parte del corridoio e, appena, un angolino della stanza da pranzo. Notai che da un mal chiuso cassetto della consolle fuoriusciva in parte un libro evidentemente lasciato da mia moglie. Così entrai nella stanza, lo presi e ne lessi il titolo: “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”. Poi ne lessi a caso un passo:
“…Una cosa era certa: che il micino bianco non c’entrava affatto; la colpa era tutta del nero. Durante l’ultimo quarto d’ora Dina, la gatta madre, aveva lavato la faccia al micino bianco: era quindi chiaro che esso non aveva potuto aver parte nel misfatto…”
In appendice al libro c’era “Caccia allo Snark”, una sorta di poemetto, una filastrocca composta da parole paradossali proprie del mondo dei bambini, ma di un senso ritmico eccezionale:
 
“Così che bompresso veniva confuso
ahimè col timone, il che era uso,
dicea capitano, ai tropici spesso
ad ogni vascello”snarkiato” si dice
che il mare attraversi sicuro e felice”
 
- Capisci? – dissi ad Anna il giorno dopo – Ho sentito Ada recitare lo stesso tipo di filastrocca in un gioco di parole che sembrano catturare occhio ed orecchio…-“Serpa son del desderìo d’esser drema un dì piccino, ma de sio non vuol pochino penseraci Tasanìo”-
- Sembrano parole anagrammate…- disse Anna – “Serpa son del desderìo”…desderìo…potrebbe essere “desiderio”…Poi cosa dice?-
- “D’esser drema un dì piccino…”-
D’esser…drema? D’esser madre di un piccino!-

-“…Ma de sio non vuol pochino…”-
-…Se Dio non vuol pochino!-
- “…Penseraci Tasanìo…” Chi o cos’è Tasanìo? – chiesi.
- Tasanìo…Tasanìo?- fece Anna alzando gli occhi al cielo e portandosi l’indice al mento. Poi risolse: - Tasanìo è quasi l’anagramma di Satana!-
Le riferii anche delle altre parole senza senso pronunciate da mia moglie: “Amma meresseo ilgov, anatasa oic cafotov”. Anna se le scrisse su un foglio, restò qualche minuto a pensare, poi prese uno specchietto dalla sua borsa, fece in modo che lo scritto vi si riflettesse e disse: - Guarda, anche se sono mal separate adesso si leggono bene: “ “Voglio esser mamma. Voto faccio a Satana”-
- Oddio! –esclamò – Sembra come se Ada fosse influenzata da qualcuno o qualcosa che c’è nello specchio! Forse da un suo precedente possessore. Forse da quel Lewis.-
- Forse da qualcosa di lui che è ancora prigioniera lì dentro…- concluse Anna.
 
            Don Michele Diddio ci diede appuntamento in un tardo pomeriggio mentre su tutta Napoli incombeva una tale massa di nuvole nere che tutta la città era già precipitata nel buio. Ci aspettò presso una porticina laterale di una delle torrette dell’antico palazzo della Vicarìa. Appena ci vide arrivare, mi fece il solito sarcastico sorrisino. Lo guardai con insistenza: mi parve di averlo già visto ancor prima che ci aprisse la porta dell’archivio, ma non riuscivo a ricordare.
Dopo essere entrati, attraversammo un lungo ed oscuro corridoio ai cui lati si innalzavano due file interminabili di scaffali dai quali traboccavano dimenticati fascicoli usurati dal tempo e mangiucchiati dai topi. Il suolo era lastricato da riggiole larghe e sconnesse, rovinate per l’umidità che in quel posto regnava sovrana. L’oscurità, l’acro odore della muffa ed il silenzio conferivano a quel luogo tappezzato di carta il senso (o nonsenso?) del tempo che passa sulle nostre vite, sulle nostre cose più care. Era come se tutte le fatiche della nostra esistenza fossero riposte e dimenticate in quelle scansie logore e decrepite. In esse giaceva l’inutilità delle nostre azioni scritte tutte su quei documenti ingialliti, incartapecoriti dall’incuria e dall’indifferenza. Ed i nostri desideri? I fiori che non abbiamo colto? Il vento che non abbiamo sentito sul nostro volto e le voci che non abbiamo ascoltato? I nostri propositi, le nostre idee, le nostre pene? Le nostre diatribe, il nostro odio? E gli amori? Ed i baci che abbiamo dato? Quelli che abbiamo ricevuto? E quel che poteva essere e non è stato? Tutto seppellito sotto un cumulo puzzolente di carta!
Mentre io ed Anna temevamo di inciampare, Diddio procedeva in quella oscurità con passo spedito e sicuro. Impiegammo qualche minuto ad attraversare quel corridoio, alla fine del quale giungemmo in un altro più ampio ai cui lati si aprivano qua e là porte di diversi uffici. L’eco dei nostri passi si rincorreva ritmicamente profanando il silenzio, ma da lontano mi parve di sentire altri passi, così mi fermai di colpo.
- Che c’è?- chiese don Michele.
- Che hai sentito? – chiese anche Anna.
- Mi pare…di aver sentito altri passi…-
- Altri passi? – disse l’anziano usciere.
- Forse mi sono sbagliato…-
- Sicuramente vi siete sbagliato. - replicò l’uomo.
Continuammo ad andare avanti, ma questa volta don Michele apparve meno sicuro. Egli assunse uno strano atteggiamento come di chi sa qualcosa che sta per accadere. Ogni tanto si girava indietro e ci lanciava un’ occhiata, quasi nel timore di perderci. Giunti che fummo davanti alla porta dell’archivio, tirò fuori un grosso mazzo di chiavi, ne scelse una, la infilò nella toppa ed aprì. Prima di entrare accese le luci. Così come avevamo fatto tempo prima, scendemmo per quei scalini sconnessi e fiocamente illuminati, attraversammo la saletta con l’altare e ci inoltrammo poi nel profondo del sotterraneo, in fondo al quale vi era la cella dove Luigi Settembrini fu rinchiuso nel 1851 da Ferdinando II di Borbone perché ritenuto cospiratore, e dalla quale, con l’aiuto del figlio, evase un anno dopo.
Appena giunti davanti alla porta di quella segreta, sentii di nuovo, e questa volta più chiaramente, i rumori di passi. Allora mi girai di scatto e vidi due ombre scivolare oltre una porta laterale.
- Per Diana! Qua c’è qualcuno! – gridai fortemente.  
- Anch’io ho sentito questa volta! – disse Anna, poi aggiunse – Diavolo! Diavolo non siamo soli qua dentro.-
- E nun annummenate ‘o diavolo, signurì!- fece l’usciere mentre le sue mani cercavano freneticamente nel mazzo un’altra chiave e quando la trovarono aprì la porta della cella.
Un tanfo di muffa più intenso di quello avvertito nel corridoio attraversato prima si scontrò con le nostre facce e penetrò con tale forza nei nostri polmoni da renderci difficile la respirazione. Stranamente quella cella non ci svelò alcunché di nuovo; essa era completamente vuota: non un mobile, non un qualsiasi oggetto appariva nello squallore della timida luce di una lampadina appesa al soffitto direttamente con del filo elettrico. Da un piccolo finestrino posto in alto si poteva vedere come ormai fuori si fosse fatto buio. Attraverso quella fessura, chiusa da due robuste sbarre di ferro, rimbalzavano gocce di pioggia e saettavano bagliori di lampi. - Qui dentro non c’è assolutamente nulla…- disse Anna. - Eppure c’è qualcosa che mi sfugge…- risposi, per niente convinto che quel luogo non ci avesse riservato alcuna sorpresa. C’era, infatti, qualche particolare che non riuscivo a mettere a fuoco, qualcosa che avevo visto ma che la mia mente non inquadrava per bene. Senza neanche capirne il motivo, cominciai allora a girare per la cella ed a palparne i muri. Anna mi guardava dal centro della cella, mentre il vecchio usciere mi dava le spalle. Fuori tuonava e lampeggiava ed ogni tanto violente raffiche di vento entravano dentro e facevano dondolare la lampadina. Per effetto di quel movimento le nostre ombre si allungavano e si accorciavano sulle pareti.
Improvvisamente toccai un pezzo di muro che al tatto mi apparve più liscio; anche il suo colore era diverso, più chiaro. Mi accorsi che in realtà si trattava di una copertura di legno rimovibile. La spostai e scoprii che sotto, in un piccolo incavo, c’era una leva.
- Guardate…- dissi – Una leva! -
Senz’altro dire infilai una mano nel piccolo anfratto e la spostai tirandola verso di me.
 

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