Violate innocenze | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Violate innocenze

Ultimo  racconto del mio libro
 
 
 
VIOLATE INNOCENZE
 
 
Dalla finestra della sua camera, il giovane Walter, bello come il sole e dalla pelle bianca come la luna, guardava la gente che, con passo incerto e caracollante, vagava dabbasso nel giardino fiorito di fresco. Alcuni si muovevano in circolo con le braccia penzoloni lungo il corpo e la testa bassa, altri andavano e venivano sempre dagli stessi posti, altri ancora giravano su se stessi con il capo alzato e lo sguardo perduto nel vuoto di un cielo azzurro. Il vecchio Giona, una vera istituzione lì dentro, tanto che nessuno più ricordava quando vi fosse entrato e perché, si dondolava su una panchina fumando la sua pipa. Era bello e dolce sentirlo parlare quando ne aveva voglia: diceva dell’orrore delle guerre, non di quelle che si combattono tra eserciti nemici, ma di quelle che ognuno di noi combatte con se stesso, con la sua coscienza. Eppure egli, saggio come pochi, era lì dentro, a dondolarsi ogni giorno su quella panchina ed a fumare la sua pipa (privilegio concesso soltanto a lui).
Attirato da un improvviso riflesso, rivolse il suo sguardo verso Walter che aveva chiuso la sua finestra, e stette ad osservarlo per qualche secondo, prima che scomparisse dietro la vetrata. Poi riprese di nuovo a fumare ed a dondolarsi. L’aria sapeva di primavera, il giardino era in fiore e tutto intorno le colline erano variopinte dei colori di un maggio odoroso come non mai.
Walter si adagiò sul suo lettino con le mani incrociate dietro la testa. Dall’esterno, arrivavano appena lamenti confusi, frasi sconnesse, cantilene lunghe e ripetitive. All’interno, fuori della stanza del giovane, regnava un grande silenzio. I pavimenti riflettevano il sole che penetrava attraverso i vetri delle tante finestre che si aprivano lungo i corridoi bianchi e deserti.
Nella camera di Walter c’era poca roba: un tavolo, una sedia, un armadietto di ferro, un letto con accanto un comodino sul quale c’era un bicchiere ed una foto che ritraeva suo padre. Costui era un bell’uomo di nome Guglielmo che, al tempo della foto, aveva più o meno cinquant’anni. Era agente di commercio incaricato da più ditte di promuovere contratti di vendita in varie zone d’Italia e per questo era costretto a spostarsi in luoghi diversi, quasi sempre lontani da casa. Spesso viaggiava in compagnia di un rappresentante di commercio, tale Gaspar Jackquet, un francese di Marsiglia trapiantato in Italia da molti anni, dipendente di una ditta specializzata in infortunistica, per la quale vendeva caschi da lavoro, guanti ed utensili isolanti, tute, scale e scaletti. Guglielmo era alto, di corporatura possente (così come il suo collega), ma aveva un carattere debole, facilmente demoralizzabile. Il suo volto, naturalmente accigliato, esprimeva un’enorme stanchezza. Nel suo viso erano evidenti tutti i duri anni di lavoro ai quali si era dovuto piegare per portare avanti la famiglia, ma, nonostante tutto, anche una palese delusione per alcune incomprensioni che si erano create con la moglie, a dispetto di un benessere che egli aveva conquistato con fatica e tenacia, e, grazie al quale, nulla mancava alla donna ed a suo figlio.
Gaspar era, invece, un single, puntiglioso, scontroso, indifferente ai problemi altrui, tradizionalista e metodista. Aveva perduto il padre in tenerissima età ed aveva vissuto i primi anni della sua vita a Rue de la Loge, a pochi passi da Quai du Port di Marsiglia e da Rue de la Prison, dove all’Ethography Museum era impiegata la madre. Da questa donna aveva ricevuto una dura educazione, un senso fondamentalistico della religione secondo il quale il corpo era completamente assoggettato all’anima ed il solo scopo di vita su questa terra era la sua purificazione attraverso le sofferenze materiali.
Alla morte prematura della madre, rimasto solo, se ne venne a vivere in Italia in casa di uno zio, del quale sembrò essere vittima predestinata di violenza fisica e morale. Quest’uomo più volte abusò sessualmente di lui costringendolo, per la vergogna, ad un silenzio assurdo, complice e colpevole, e minandone il carattere già di per se stesso fragile e pernicioso. Tuttavia si diplomò ragioniere e cominciò ben presto a lavorare come apprendista con un commercialista amico dello zio. Il suo destino di vittima, però, non cambiò perché anche quest’ultimo era un omosessuale e lo plagiò in modo tale da convincerlo, senza violenza, ad avere rapporti con lui.
Alla morte dello zio lasciò anche lo studio del commercialista e fu assunto come rappresentante da una ditta di materiale edile. Da qui iniziò la sua professione di viaggiatore commerciale che lo portò poi, per pura combinazione, a conoscere Guglielmo.
Il treno regionale delle 12,56 li stava portando da Mestre (dove erano giunti separatamente per motivi diversi e si erano incontrati), a San Marino, località nella quale entrambi avrebbero dovuto concludere vantaggiosi affari. Il convoglio sferragliava veloce attraverso il Territorio della Grande bonifica Ferrarese tra Berra e Serravalle mentre Guglielmo, che era un assiduo lettore di fumetti, leggeva tranquillamente l’ultimo numero di Tex. Gaspar, che era, invece, intento a scrivere qualcosa sulla sua agenda, si fermò un attimo, portò la penna al mento senza distogliere lo sguardo dall’agenda, e chiese:
- A che ora arriviamo a San Marino, mon ami?
- Se tutto va bene, alle 14,39 – rispose Guglielmo.
- Sai che ci sono già stato più di una volta?
- Ah, si?
- Oui! La Rocca Guaita, la Fortesse Cesta, l'Immeuble Public1, la Basilica del Santo, la chiesetta di San Pietro…
- Io non ci sono mai stato, e dubito che nel poco tempo in cui rimarrò lì possa darmi al turismo.
- Vista dal versante appenninico, la cima del Titano2sembra una nave di pietra.- disse Gaspar, rinchiudendo la sua agenda: - Sai cosa pare? Una suggestiva isola che sorge nel bel mezzo della terra.
- Ne parli con molta enfasi…
- Oui, mais mes souvenirs de cette place ne sont pas très bons…
- Dici?
- Dico che I miei ricordi di quel posto non sono molto buoni.
- Come mai?
- Litigai di brutto con alcuni clienti. Anzi, ce sera le cas3 che non mi faccia troppo vedere in giro. Mi farai il favore di far firmare i contratti tu stesso.
- Bè, non mi costa…
- …E non dire poi nulla di questo, s'il vous plaît.
Giunsero a San Marino con un ritardo di oltre tre quarti d’ora sul previsto. Gaspar sembrò pervaso da una forte eccitazione ed ebbe una particolare fretta nel raggiungere la pensione in Piazzale Campo della Fiera, dove avevano prenotato.
Il territorio sammarinese ha la forma di un quadrilatero collinare con al centro il monte Titano. Gran parte della sua superficie è occupata da terreni coltivati e da un notevole patrimonio boschivo e floreale. La lavorazione della pietra, estratta proprio dalle cave del monte Titano, fu un tempo la principale attività economica della piccola Repubblica, ma, dagli anni sessanta in poi, lo sviluppo industriale si diffuse rapidamente e i principali prodotti della zona diventarono i mobili, i dolciumi, i liquori, la ceramica e le vernici. Il contatto che Gaspar e Guglielmo dovevano avere era proprio con una fabbrica di vernici situata non molto distante da dove avevano preso alloggio.
Per anticipare il rientro nelle rispettive case, i due erano partiti da Mestre di sabato, nonostante la mezza giornata festiva, e nonostante che il giorno dopo, essendo domenica, non avrebbero potuto concludere alcunché.
La pensione affacciava proprio sul piazzale, e la proprietaria, tale signora Rosa, era una donna amabile e brillante.
- Lei è già venuto qui da noi, signor Gaspar?- chiese mentre mostrava le stanze.-
- Sono già stato a San Marino…Non in questa pensione, però.
- Eppure io l’ho già veduta da qualche parte…- fece la signora Rosa, scrutandolo.
- In giro. Le ho già detto che sono già stato qui a San Marino. Pour le diable, madam! Non mi faccia perdere tempo! Sono stanco!
- Già, mi scusi. Sono un po’ impicciona, sa, io. E poi, non ci faccia caso, non sono quel che si dice una fisionomista.
Presero una camera con due letti, nella quale, per l’intero pomeriggio, Gaspar non fece altro che parlare del posto dove stavano soggiornando.
-Un momento molto suggestivo, qui a San Marino è l'échange de la garde4 al l'Immeuble Public. Si effettua durante i mesi estivi, dalle ore 8,30 alle 18,30 ogni ora. L’uniforme della guardia di Rocca che effettua il cambio è molto suggestiva: giacca a doppio petto di colore verde scuro, ornata con cordelline bianche; pantalons rouges5 con banda verde: copricapo con pon-pon rouge e ghette bianche.-
Guglielmo era poco interessato a quel discorso sulla guardia, alla sua istituzione ed a tutto quanto disse di seguito il suo collega a proposito dei castelli di Acquaviva, Borgo Maggiore, Chiesanuova, Domagnano e Montegiardino. Egli era rimasto piuttosto incuriosito dalle parole che Gaspar aveva detto in treno: “Litigai di brutto con alcuni clienti. Anzi, ce sera le cas che non mi faccia troppo vedere in giro. Mi farai il favore di far firmare i contratti tu stesso.”. Così, mentre l’altro parlava e, fumando lanciava cerchietti di fumo per l’aria, lo interruppe e gliene chiese spiegazione.
- Cosa ti posso dire…- fece Gaspar – E’ la solita solfa: loro vogliono risparmiare, tu vuoi guadagnare di più…Così, spesso, si finisce col litigare, e qualche volta si esagera un po’: Sai come si dice in Francia? “Rester calme est la vertu des forts!”-.
Dopo questa massima il discorso si spostò su temi filosofici ed esistenziali e continuò dopo cena toccando argomentazioni religiose.
- Gesù Cristo- disse Gaspar – sopportò con enorme forza la physique douleur, ma a questo ci si abitua. Ho preso tante botte da mio padre prima e da mio zio dopo che le percosse non mi facevano ormai più male. Quello che invece ti colpisce di più, quel dolore che non va mai via è quando ti feriscono lo spirito: “Blessure d'âme, toujours ouverte”6 dicono in Francia. L’anima non si può medicare come il corpo, quando inizia a sanguinare lo farà per tutta la vita, ed allorché questo avviene, le sue conseguenze sono imprevedibili, inimmaginabili. Ti accorgi di far cose…
- Cose?
- Cose che umiliano la tua condizione umana. Cerchi di annullare il tuo spirito così com’è stato oltraggiato ed annullato il tuo corpo. Cerchi di autodistruggerti senza ammazzarti, e così facendo finisci col fare del male a chi ti sta intorno, alle cose più belle che vedi, a quelle più piene di candore e di vita.
Non volle più parlare e si addormentò. Guglielmo uscì per un po’ sul balcone a respirare l’aria ancora fresca di primavera. In basso la piazza era deserta e la gran parte delle luci tutto intorno si erano ormai spente. Le case, tutte ben allineate, dipinte di bianco, rosa e giallo, avevano i muri pulitissimi, senza una scritta, una macchia, un manifesto. Le tegole rosse dei tetti brillavano sotto il chiarore della luna che illuminava quel religioso silenzio e splendeva in alto, in un cielo magicamente terso, tappezzato da altri mille astri che ad intermittenza mandavano la loro lucente testimonianza d’armonia.
Ripensò a tutto quello che gli aveva detto Gaspar, alle sue citazioni in Francese, a quella “Blessure d'âme, toujours ouverte” con la quale aveva alluso a qualcosa di personale. Guglielmo non sapeva cosa era capitato al suo collega in passato!
Dabbasso qualcuno attraversò la piazza in bicicletta, pedalando stancamente. Lo stridio dei pedali lo distolse da quei pensieri e lo indusse ad andarsene a letto. Si era da poco coricato, quando udì Gaspar parlare nel sonno. Egli masticava a stento una ninna nanna: - “Ninna oh, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Se lo do alla befana se lo tiene una settimana, se lo do all’uomo nero se lo tiene un anno intero…”.
Quella cantilena, che avrebbe suonato dolcemente e diffuso serenità, se detta da una qualsiasi mamma, in quella occasione, invece, nel buio e con la voce roca di quell’uomo, suonò strana ed angosciosa. La cosa durò per alcuni secondi, durante i quali Gaspar si agitò fortemente girandosi e rigirandosi nel letto. Poi si calmò ed aggiunse una frase con un tono di voce freddo e glaciale che non lasciava trasparire alcuna emozione: - Era bella, era bella…- . Infine stette zitto e finalmente Guglielmo, perplesso come non mai, adagiò la testa sul cuscino e si addormentò.
Il mattino dopo fu svegliato dal canto di un gallo che da un podere chiamava e, da un altro podere, un altro gallo rispondeva. Si alzò, mentre Gaspar era ancora a letto e gli disse:
- Vorrei approfittare del giorno di festa per girare un po’…
- Potresti andare a visitare la Rocca Cesta, la seconda torre su al Borgo Maggiore. All’interno vi è il museo delle armi antiche.
- No, niente armi. Me ne andrò un po’ a zonzo…-rispose Guglielmo. Aprì la finestra ed un alito gelido di vento gli soffiò in faccia. –Ah, fa freddo oggi!. Bizzarrie della primavera!- disse strofinandosi le mani.
- Ho con me cappotto e cappello.- fece Gaspar – Puoi prenderli tu. Non sei stato previdente…-
- Questa notte parlavi nel sonno…
- Cosa dicevo? – chiese, evidentemente preoccupato, Gaspar.
- Dicevi: “Era bella, era bella…” Chi era?
- Una.
Intanto dabbasso il piazzale si era andato popolando man mano di gente che passeggiava, venditori di palloncini e venditori di zucchero filato. Il clamore dei bambini che giocavano, giungeva fin nella stanza dei due.
- Che qualcuno li faccia smettere! – Urlò all’improvviso Gaspar.
- Ma cos’hai? – chiese Guglielmo, meravigliato da quell’inaspettato scatto – Sono solo dei bambini che si divertono.-
- Petits animaux pervers!7 –rispose irato Gaspar ed infilò la testa sotto il cuscino.
Il suo cappotto e cappello erano davvero particolari, si trattava di due capi esclusivi
(amava vestire di fino), confezionati appositamente per lui. Il paltò era di pelle di cammello ed aveva il collo rivestito da pelliccia di lontra, mentre il cappello, di quelli tipo “Borsalino”, era di colore verde scuro tutto circondato da una fascia amaranto.
Guglielmo li indossò e se ne uscì. Decisamente quella mattina faceva veramente freddo, tanto che, per coprirsi meglio, fu costretto ad alzare il bavero del soprabito e ad abbassarsi il cappello sugli occhi. Se ne andò a passeggio senza una meta fissa e senza neanche allontanarsi troppo dalla pensione. Imboccò Via Bartolomeo Borghesi e giunse fino alla biforcazione con via Amaducci, dove si sedette su una panchina di uno splendido giardino pubblico. L’aria frizzantina del mattino, l’acqua che zampillava da una fontana, i bambini che giocavano mentre le mamme chiacchieravano tra loro, infondevano nell’animo un dolce senso di vitalità, bellezza e serenità insieme. Guglielmo, con le mani in tasca, appoggiato alla spalliera, si compiacque di tanta armonia e gli venne in mente di quando Walter era piccolo, del fatto che, per motivi di lavoro, gli fosse stato sempre lontano e di come non ne avesse vissuto la fanciullezza, non ne avesse assecondato i capricci, non ne avesse sentito i pianti, non gli avesse mai fatto una carezza. Si ricordò, allora, dell’unica volta che, tenendolo per mano, lo portò a passeggio nei giardinetti vicino casa. Walter correva con gli altri bambini pencolando incertamente. Poi si mise a tirare la coda di un cane e la povera bestia lo lasciò fare fino a quando, troppo infastidito, fuggì via lontano.
Su una panchina poco lontana da quella sulla quale c’era seduto Guglielmo, c’era un uomo. Si trattava di un signore dall’aspetto distinto, alto e magro. Portava un paio di occhiali con il doppio vetro, di quelli che adoperano i miopi. Aveva tra le mani un libro di versi di Giosuè Carducci e stava leggendo una poesia intitolata “Pianto antico”.
 
“L’albero a cui tendevi la pargoletta mano…”
 
Un pallone sfuggì dalle mani di un bimbo ed andò a rotolare tra i piedi di Guglielmo.
 
“ …Tu, fior della mia pianta percossa e inaridita…”
 
Il bambino si avvicinò a Guglielmo per andare a riprendersi il pallone.
 
“…Tu dell’inutil vita estremo unico fior…”
 
- Mi scusi, signore…- fece il bambino – Mi ridà la palla?-.
 
“…Sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra…”
 
- Ma certo! – rispose Guglielmo. Prese il pallone e lo porse al bimbo.
 
“Ne il sol più ti rallegra…”
 
- Grazie. – disse il bambino – Ti posso dare un bacio?-
- Sicuramente!-
Il piccolo si avvicinò al volto di Guglielmo e gli baciò la guancia.
 
“…Né ti risveglia amor. “
 
L’uomo che stava leggendo i versi alzò gli occhi dal libro e la sua espressione da serena e soave qual era, divenne immediatamente corrucciata. Si alzò, indicò con un dito Guglielmo e disse quasi urlando:
- Quel cappotto…Quel cappello…Ma io ti conosco! Tu sei…Cosa stai facendo a quel bambino?- Si avvicinò minacciosamente attirando l’attenzione dell’altra gente presente. Guglielmo, colto di sorpresa, balbettò: - Ma cosa vuole? Chi è lei? -
- Guardami bene, bastardo! - rispose l’uomo indicando con il dito se stesso – Non mi riconosci?-. Tirò fuori la foto di una bambina sui dodici anni e la mostrò: - E questa? Questa la riconosci?-. Poi, rivolto ai presenti, indicando Guglielmo, urlò ancora: - Siamo in presenza di uno psicopatico, un impotente violento che ha distrutto la mia vita e quella di mia figlia…-.
- Ma guardi, signore, che lei si sbaglia, io non…- disse Guglielmo alzandosi.
L’uomo con uno spintone lo fece sedere di nuovo, poi continuò: - Bastardo, come vuoi che mi sbagli? Sei tu che, neanche un anno fa, hai adescato ignobilmente la mia bambina. La portasti in un vecchio casolare e lì cercasti di usarle violenza. Per fortuna io stesso ti vidi, intervenni, e tu facesti appena in tempo a fuggire. Ti riconoscerei fra mille, degenerato!-.
Un altro uomo tra i presenti, uno spazzino che, attirato dalle grida, aveva sospeso il suo lavoro e si era avvicinato, gridò: - E’ un pedofilo! Un perverso! –
- Forse è solo un malato mentale…- intervenne una donna.
- Non è certo un poveraccio da assistere! – rispose un’altra donna.
- Rivolgere la propria sessualità verso i bambini è assassinio! – urlò un’altra donna ancora.
- E gli assassini vanno repressi!- disse lo spazzino alzando minacciosamente una scopa di saggina che aveva con sé. Prima che potesse colpirlo, però, Guglielmo scattò in piedi e riuscì a fuggire. Inseguito da quel gruppo di gente urlante ed inferocita, attraversò i giardinetti in un baleno, passando da un’aiuola all’altra e si portò sul ciglio della strada. Si voltò indietro e vide che l’uomo e lo spazzino stavano ormai per raggiungerlo, così si buttò nella via, ma, mentre attraversava, non s’avvide del sopraggiungere di un pesante camion e vi finì sotto, morendo sul colpo.
 
 
L’arrivo del vecchio Giona era sempre preannunciato dal lezzo della sua pipa, e quando bussò alla porta di Walter il giovane aveva già avuto sentore della sua visita.
- Cosa vuoi? – chiese, senza neanche alzarsi dal letto.
- Ho voglia di parlare – smozzicò il vecchio.
- Io, no!
- Magnifico! Allora posso entrare. – Spinse la porta che non era di certo chiusa a chiave, ed entrò nella stanza, poi aggiunse:
- Ho voglia di parlare, non di ascoltare. –
Walter si rigirò di spalle nel lettino mettendo la faccia al muro.
- Vent’anni fa moriva Franco Basaglia, – fece Giona, portandosi alla finestra e guardando giù dabbasso – il padre della legge 180 che dispose la chiusura dei manicomi e con essa la “libertà” di stare in strada ai malati mentali. Sessant’anni fa, invece, si spegneva Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, colui che ha tramandato l’idea del bambino polimorfo perverso. I mass-media non perdono occasione per celebrare questi due “geni” dell’umanità, specialmente quando due bambine, (l’ho visto in televisione), una di cinque e l’altra di otto anni, sono uccise l’una a coltellate da un rumeno, e l’altra arsa viva da un giovane italiano. Incredibili coincidenze, non è vero? Due bimbe – secondo Freud polimorfe perverse – uccise per mano di un clandestino e di uno psicolabile liberato e perduto. Pedofilia! E le contromisure? La pena di morte e la castrazione fisica! Questi soggetti attaccano e distruggono ciò che non sopportano più: la bellezza, la salute e la vitalità. Non hanno più affetti, la vita degli altri non ha nessun valore. Bisognerà educare i bambini perché li riconoscano, perché imparino ad identificare i loro carnefici.
 
All’epoca della morte del padre, Walter era un giovanotto a modo, un po’ riservato, taciturno, che riscuoteva notevole successo tra le ragazze, ed a Rita, una di esse, le stava particolarmente a cuore. Si erano conosciuti giovanissimi sui banchi di scuola, ma si frequentavano saltuariamente perché Walter non aveva nessuna intenzione di stabilire con lei un rapporto duraturo. Per questo la ragazza, innamoratissima, sopportava cercando di non essere troppo invadente e sperando che un giorno egli potesse avere per lei un particolare riguardo.
La tragedia fu comunicata dalla gendarmeria Sammarinese e i funerali si svolsero dopo l’arrivo del cadavere in una bara di zinco. La sera stessa della sepoltura l’apparecchio telefonico squillò più volte nel buio della stanza da pranzo di casa, prima che Walter ne alzasse il ricevitore.
- Pronto…- disse con voce sommessa.
Dall’altra parte non rispose nessuno, si udiva solo uno strano rumore, come di un leggero soffio di vento. Dopo aver più volte cercato di ottenere risposta, egli depose il ricevitore e se ne tornò nella sua camera. Questa era la classica stanza di un giovane, con poster di cantanti e attori alle pareti; dietro la porta una grande foto che ritraeva la grinta di Silvester Stallone nei panni di Rambo.
Da un cassetto trasse fuori un piccolo album di foto di famiglia e cominciò a sfogliarlo. Si fermò ad osservare particolarmente una foto di quando era bambino che lo ritraeva col padre. Poi rinchiuse l’album e si sedette sul suo lettino con le mani penzoloni tra le gambe alle quali aveva appoggiato i gomiti. Dabbasso squillò di nuovo il telefono; questa volta andò a rispondere la madre, ma anche questa volta dall’altra parte non c’era nessuno e altro non si udiva che quello strano rumore che pareva simile ad un soffio di vento.
Durante la notte si verificò lo stesso fenomeno, tanto che la donna fu costretta a staccare l’apparecchio, rimettendolo poi in funzione il mattino dopo prima di uscire di casa. Quel giorno Walter era rimasto a letto e stava ancora dormendo profondamente, quando il telefono squillò di nuovo. Il giovane si svegliò di colpo e corse in camera da pranzo. Nell’alzare il ricevitore, vide, attraverso il vetro di una finestra, la madre che saliva in auto con uno sconosciuto. Così, come già era avvenuto le volte precedenti, al telefono non rispose nessuno e si udiva sempre lo stesso soffiare del vento.
Due sere dopo affrontò la donna e le chiese:
- Chi era l’uomo col quale sei uscita in macchina l’altra mattina?
- Un amico…
- Che tipo di amico?
- Cos’è questo, un interrogatorio?
Walter non rispose e non fece altre domande. Ma che tipo di amico era quello di sua madre Alda e da quanto tempo lo conosceva? In realtà lo aveva conosciuto un paio d’anni prima, quando già da tempo si era deteriorato il rapporto con suo marito. Guglielmo, che, sia pure per lavoro, era sempre via, sempre quasi estraneo alla vita ed alle vicissitudini della sua famiglia. Walter era praticamente cresciuto senza di lui, ne aveva avvertito la mancanza e ne aveva osservato l’estraneità nei rari momenti in cui il padre era a casa. Eppure, nonostante tutto, lo aveva amato, rispettato, ne aveva intuito la solitudine, ne comprendeva le scelte, il sacrificio. Guglielmo non litigava mai con Alda, forse perché, come già detto, era troppo distante da lei e da tutte le altre cose familiari. Così la donna si sentiva sola, non valutata, neanche desiderata perché il marito, quando tornava a casa dopo un estenuante viaggio, era stanco; non aveva neanche voglia di parlare e rispondeva a monosillabi alle sue domande, dedicando il poco tempo che aveva, prima di ripartire, a sistemare le sue cose.
Una mattina ai grandi magazzini la donna conobbe Massimo, un avvocato di qualche anno più giovane di lei.
- Faccio un po’ di shopping fra un’udienza ed un’altra – le disse l’uomo. – Vuole aiutarmi a prendere qualcosa di buono al miglior prezzo?-.
Fu quello il primo approccio, e da allora i due cominciarono a frequentarsi. Alda ritrovò in Massimo tutto quello che ormai aveva perduto in Guglielmo: si sentì desiderata, oggetto di mille attenzioni, sito di concupiscenza carnale, terminale di passione irrefrenabile.
Dalla morte di Guglielmo erano trascorsi più di due mesi, durante i quali i rapporti di Walter con la madre erano peggiorati via via sempre di più, fin quasi a raggiungere uno stato di separazione in casa: non si parlavano, appena si vedevano. Ognuno, insomma, per quanto possibile, conduceva la sua vita senza dar conto all’altro. Il giovane aveva anche smesso di frequentare l’Università, i suoi amici, le ragazze. Solo Rita continuava a mantenersi in contatto con lui telefonandogli spesso e recandosi di tanto in tanto a trovarlo. Ma Walter era ossessionato ormai dal modo di come era morto il padre. Aveva saputo che era stato scambiato per Gaspar, del quale si erano perse le tracce.
- Quello non era il suo giorno…la sua ora…- ripeteva ogni tanto fra sé.
Cosa aveva combinato di preciso, Gaspar a San Marino? Egli era un pedofilo, malato mentale, già rinchiuso da giovane in un istituto psichiatrico perché violento e distruttivo, poi dimesso, libero di nuocere ai bambini definiti da Freud “perversi animaletti” con idee che purtroppo fanno parte della nostra cultura, del nostro pensiero attuale.
Fatto sta che più di una volta aveva molestato delle innocenti ragazzine. L’ultima volta accadde in un autunno, qualche anno prima della tragedia di Guglielmo, proprio a San Marino, dove si era recato per lavoro. Fortuitamente, per strada, conobbe una ragazzina che poteva avere pressappoco sette od otto anni. La bambina si era recata da un gelataio ed aveva comprato un bel cono alla fragola. Qualcosa di incontrollabile scattò nella mente dell’uomo: un desiderio irrefrenabile di possedere tanta innocenza, tanta candida bellezza. Si avvicinò e le disse: Ne vuoi uno molto molto più grande?-.
La bambina annuì e gli chiese: - Chi sei?-
- Sono un amico di papà.- sudava tutto ed a stento riusciva a trattenere un violento tremore.
- Perché tremi?- chiese la piccola.
- Ho freddo.
- Con quel cappotto e quel cappello?
- Certo! Ho tanto freddo.
Prese la bimba per mano proprio nel momento in cui, poco lontano, si trovò a passare il padre.(L’uomo dei giardinetti, quello che aveva inseguito Guglielmo per un tragico scambio di persona). Costui fece appena in tempo a vedere Gaspar con la sua piccola che si infilavano in un portoncino. Dopo qualche istante sentì la bambina urlare; corse con quanta forza avesse nelle gambe, entrò nel portoncino e vide la sua creatura, quasi denudata, nelle grinfie di quell’assurdo maniaco. Senza perdere un istante, alzò il pugno per colpire, ma Gaspar fu lesto a fuggire via ed a far perdere le sue tracce.
 
 
 
- Tuo padre è morto per errore – disse Giona al giovane Walter che gli voltava sempre le spalle stando disteso sul lettino: - Ma tu? Quali panni hai indossato per determinare il tuo destino? Cosa ti ha spinto ad uccidere? E ce ne sarà voluto a quella povera donna di tua madre per tirarti fuori dal manicomio criminale e metterti qua dentro! Qui si sta bene…la nostra presenza è profumatamente pagata! Pensa, siamo indispensabili per l’arricchimento altrui. Noi, poveri matti, indispensabili! -
Il fumo della sua pipa aveva invaso l’intera stanza ed il lezzo ne aveva devastato il profumo di pulito che vi aleggiava. Il vecchio decise allora che era il momento di spegnerla, così la rivoltò cacciandone il tabacco fuori dalla finestra.
- Vendetta! Disse sedendosi sull’unica sedia che c’era nella stanza. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse dargli altre argomentazioni per discutere, fin quando il suo sguardo si posò sulla foto di Guglielmo. La prese tra le mani, la squadrò per bene, poi la depose e disse: - Tutto sommato, ha l’aspetto di quel che sarebbe potuto essere un padre amorevole. Ma cos' è l’amore? Qualcuno crede che sia possesso, indecenza di immischiarsi nella vita altrui, pretesa di decidere per il bene d’altri…No! L’amore, il vero amore è rinuncia! E’ vero amore tenersi al margine della vita altrui, rispettarne l’esistenza, la libertà…Come dicono i cattolici? Concedendo il libero arbitrio. E’ vero amore soffrire in silenzio per le scelte sbagliate di chi ti sta vicino, senza distruggerlo con le critiche, senza assalirlo con il tuo “saper fare”. Ognuno crede di saper fare meglio di un altro. Ognuno sa cosa farebbe in una determinata occasione, ma se poi vi si trova in quella occasione?-
Si alzò dalla sedia e si portò di nuovo alla finestra:
- Ecco, guarda quei poveri dementi che vagano senza meta giù in giardino! Essi rappresentano la vera essenza della vita! Essi sono il vero amore. Guardali! Ognuno vive la sua pazzia senza giudicare l’altro. Si guardano, a volte si toccano, si accarezzano anche, ma nessuno pretende di comprendere, di sapere cosa c’è nella mente di un altro. Io sono il vero demente! Io che cerco nei pensieri altrui! Io che ho…deciso per altri!
 
 
 
 
Era trascorso, ormai, quasi un anno dalla morte di Guglielmo, quando, una sera, mentre Walter era solo in casa, squillò il telefono.
Allorché il giovane alzò il ricevitore, udì subito quel sibilo di vento che aveva già sentito altre volte. Si mise così in attesa con l’orecchio incollato alla cornetta. Ad un tratto, dall’altra parte, suonò una voce sommessa che lo chiamò per nome: - Walter…-.
Riconobbe subito che era quella del padre e strinse il ricevitore fino a farsi male. – Walter…- ripetè la voce, poi di nuovo il sibilo del vento, poi più nulla. Abbassò il ricevitore. Tremava tutto e sudava. Andò a rannicchiarsi su una poltrona che c’era nella stanza, senza distogliere lo sguardo dal telefono. Quando questo squillò di nuovo, fece un balzo che quasi cadde dalla poltrona. Poi, mentre l’apparecchio continuava a trillare, si avvicinò lentamente e rialzò il ricevitore.
-Walter…- era Rita – Pensavo non fossi in casa…-
Il giovane si rinfrancò nell’udire la voce della ragazza, così, cercando di dominarsi, dopo qualche attimo, rispose:
- Ero…ero di là…
- Cos’hai? Non ti senti bene?
- No, sto…sto…bene…
- Non credo proprio. Sai cosa faccio? Vengo da te a vedere.
Rita abitava lì vicino, così, in pochi minuti, giunse a casa di Walter. Lo vide pallido, era tutto sudato. Gli chiese cosa avesse, ma il giovane continuava a dire che non aveva nulla di cui preoccuparsi, che si trattava solo di stanchezza.
-Tua madre dovrebbe badare di più a te invece di andarsene continuamente in giro.- disse la ragazza.
- Non è affar tuo! – rispose Walter scontrosamente.
Il telefono squillò di nuovo ed il giovane lanciò uno sguardo repentino alla ragazza. C’era terrore in quegli occhi, smarrimento e sconcerto.
- Bè? Che fai? Non rispondi? – disse Rita.
Walter si avvicinò lentamente all’apparecchio, ne alzò il ricevitore. Ecco il sibilo del vento e quella voce: - Walter…-
- Dio!!!- Urlò il giovane lasciando cadere la cornetta ed incespicando nelle sue stesse gambe. Rita corse al telefono ed ascoltò: - Ma, non è nessuno…- disse – Non c’è neanche linea!
Dopo quell’episodio trascorse ancora un mese durante il quale Alda aveva portato in casa il suo amico, invitandolo spesso la sera a cena. Walter, suo malgrado, doveva ora accettare la presenza di quell’uomo, spesso invadente ed indiscreto. Finiva così col ritirarsi anzitempo nella sua stanza e mettersi a letto.
Una sera li sentì perfino fare l’amore. Udì il respiro affannoso di quell’uomo sopraffare i gemiti della madre, sentì pronunciare paroline sconnesse e frenetiche che si accavallavano in un turbine di eccitazione che giunse al culmine con un urlo soffocato dei due. Poi più nulla.
- Walter…- Quella voce al telefono risuonava nella sua mente, ne percorreva i meandri più reconditi, gli faceva male. Quella voce sembrava provenire da un luogo lontano eppur vicino. E quel vento? Quel vento non impetuoso, ma continuo e costante, del quale si avvertiva l’alito gelido.
 
 
 
- Era la voce della tua coscienza! – disse Giona mentre si accendeva di nuovo la pipa. – Ma cosa ti diceva? Perché hai ucciso? Ecco, questo vorrebbe sapere quest’uomo disamorato! -
Diede un paio di boccate alla pipa e cacciò di nuovo fuori una grossa nuvola di fumo puzzolente: - Cosa dice la coscienza degli uomini? Chiede loro di cercare, razionalizza secondo carattere i ricordi, decide del futuro. Ma essa è condizionata dall’ambiente familiare, da quello religioso, da quello lavorativo, dalla cultura dell’individuo, e non è assolutamente facile essere consapevoli del proprio condizionamento che s’insinua lentamente dentro di noi, progressivamente seduce la mente fino a soggiogarla del tutto. Irrompono, allora, nella stessa mente, espressioni assolutistiche e suggestive che divertono spaventosamente gli ignari adepti, trasformati in meri spettatori di se stessi dalla realtà delle cose e dei fatti. Ciò che avviene durante la nostra formazione ci appare quanto mai spontaneo, poiché avviene gradualmente. In realtà ci si trova prigionieri in quella stessa rete da noi tutti lentamente e pazientemente intessuta. E tu…ed io, siam prigionieri!
Una leggenda narra che nel medioevo fioriva una particolare rosa, ora estinta, dai petali neri detta “nocturna”. Essa veniva deposta sulle tombe dei defunti per propiziare la realizzazione delle loro ultime volontà.
Questa leggenda mi riguarda. Tutto cominciò una notte quando, svegliandomi di soprassalto, ebbi la sensazione che la grande stanza dove dormivo si stesse restringendo. Tutto si deformava e rimpiccioliva, tranne la finestra sul balcone. Attraverso questa, sebbene fosse chiusa, entrò un’ombra che si portò ai piedi del mio letto: era la morte, la nostra eterna compagna, sempre lì ad un passo di distanza da noi che ci osserva, ci sussurra all’orecchio. Sentii il suo gelo! Quella saggia consigliera mi osservava, sapeva che avevo bisogno di lei. Prese d’un tratto le sembianze di un bell’uomo tutto vestito di scuro, capelli corvini, occhi neri, volto compassato dai lineamenti bellissimi, dolci. Gli dissi che si trattava di mia moglie, che, malata da tempo, era ricoverata nel reparto malattie terminali di un ospedale. Un cancro al cervello l’aveva praticamente consumata tutta. Gli provocava forti e continui dolori che non gli davano alcuna tregua, neanche dietro somministrazione di medicinali ai quali si era ormai assuefatta. Ormai era quasi paralizzata, veniva alimentata artificialmente perché il suo stomaco non digeriva più niente, non vedeva quasi più, né, ormai, più parlava. Eppure ella era lucida, consapevole del suo stato quasi esclusivamente vegetativo, ben desta nel dolore. Ed io assistevo impotente al suo disfacimento, al suo lento, tormentoso morire, e non riuscivo, per quanto facessi, a trovare un qualsiasi rimedio che potesse alleviarle le sofferenze o, pur anche a trovare più una sola parola che potesse davvero darle conforto. Quell’uomo, la morte…era il rimedio, era lei la parola che non riuscivo più a trovare.
 
 
 
Massimo, ormai, non si limitava più a venire in casa di Walter e della madre solo per la cena ma vi si era quasi del tutto trasferito. Dormiva nel letto di Alda, al posto di Guglielmo, nella sua stanza, utilizzando la sua roba, il suo pigiama, il suo rasoio, il suo accappatoio, il suo dopobarba. Nell’animo del giovane Walter dimorava ora un leone che ruggiva tutta la sua rabbia. Una notte il telefono squillò di nuovo e Walter balzò giù dal letto, corse in camera da pranzo ed alzò il ricevitore.
- Walter…- suonò la voce di suo padre, quindi il sibilo di vento. Il giovane stette qualche secondo ad ascoltare, poi abbassò il ricevitore, si recò in cucina e prese da un cassetto un grosso coltellaccio. Nella camera da letto Alda dormiva tranquillamente col suo amico, quando il figlio aprì la porta con un calcio e, gridando forsennatamente, si avventò su Massimo e lo pugnalò dieci, venti, trenta volte! Si fermò solo quando il letto era ormai diventato una spugna di sangue che era schizzato dappertutto: sulle pareti, sul volto della madre paralizzata dal terrore, sul suo, sulle sue mani, sulle sue braccia, sui suoi capelli.
 
- E cosa andasti a dire? Che tuo padre aveva ordinato la sua vendetta? Che eri il prescelto essendone il figlio? Certo, deve aver avuto un altro buon avvocato tua madre per tirarti fuori da quel fetido buco del manicomio provinciale! Anche mio nipote lo ha fatto. Del resto, con quel che gli ho lasciato, poteva permetterselo. Ma io non volevo che mi tirasse fuori di lì, non me lo meritavo…E neanche tu! E sai perché? Perché hai sbagliato persona! Hai sbagliato vendetta! Ma cosa aveva fatto quell’uomo? Ah, era entrato nel letto di tua madre? Bè, se volessimo uccidere tutti quelli che entrano nel letto delle donne, il mondo sarebbe un cimitero! Aveva preso il posto di tuo padre? Forse! Ma non lo aveva usurpato! -
Giona si mise a girare per la stanza: - Quando avrai di nuovo un telefono, questo squillerà ancora e tu continuerai a sentire la voce terribile della tua coscienza, il suono del tuo incubo, e sai perché? Perché hai sbagliato uomo! Io no, non avevo sbagliato. La morte mi chiese per quando doveva essere, ed io risposi che doveva accadere l’indomani stesso. Ecco è tutto scritto qui…-Mostrò un ritaglio di giornale che depose sul comodino di Walter.
- Morire è dolce…- Mi disse la morte, ed io:
- Capirà?
E lei:- Nessuno capisce mai. Quasi tutti muoiono impreparati a morire.-
Il fatto è che la morte mi chiese se mia moglie voleva o no morire, ed io decisi per lei, capisci? Ecco perché non sono un uomo d’amore! Non ho rispettato l’esistenza di mia moglie, non ne ho considerato il naturale istinto di sopravvivenza, nonostante il dolore.
Chiesi a quell’uomo quale fosse il suo compenso e mi rispose che lo avrei saputo a tempo debito. Poi vidi il simbolo che portava sul taschino della giacca: si trattava di una magnifica, grande rosa dai petali tenebrosi, neri come la notte e lui mi parlò della leggenda medioevale: - La mia stirpe è antica più del mondo. – mi disse - Io c’ero quando nulla c’era. Ora sono l’ultima visione di tutto ciò che vive e vede, raccolgo gli estremi aneliti d’ esistenza, sono testimonianza di ultime volontà.-
Quando la morte uccise mia moglie, provai grande pietà per le e, per me. La mia vita non fu più la stessa, niente fu più lo stesso! Neanche quelle cose che uno fa sempre, così macchinalmente, senza farci caso, come accendere la luce, cambiarsi la camicia, chiudere la porta…-
Stette un attimo in silenzio, si affacciò ancora alla finestra, poi si ritirò e la chiuse. Si sedette sul letto accanto a Walter che aveva ascoltato i suoi discorsi sempre girato di spalle: - Adesso ascoltami, figliolo - gli disse – Prima di morire mia moglie espresse il desiderio di non staccarsi da me, e la morte lasciò sul suo cadavere una “nocturna” che coltivava nel suo giardino. Mia moglie non poteva rimanere con me in vita, ma io potevo essere con lei in morte. Sono trascorsi tanti anni da allora, durante i quali sono stato indegno di morire, non ero pronto, ma ora lo sono.-
Staccò il bocchino dalla caldaia della pipa e mostrò che questi in realtà altro non era che un acuminato coltello. – Ho, però, bisogno d’aiuto…-
La lama del coltello rifletté un raggio di sole che si era intrufolato nella stanza.
- Se imparerai a farlo senza vani timori, ti sbarazzerai delle maledette meschinità, proprie degli uomini che vivono senza mai cercare di capire cosa sia la morte, e tirano avanti come se la morte non dovesse mai toccarli.-
Mise l’arma sul comodino, si alzò dal letto e si sedette sulla sedia. Poi allargò le braccia, abbassò la testa e disse: - Fallo adesso!-
Walter si girò lentamente, vide Giona seduto in quella posizione e quasi lo identificò con un Cristo in croce. Si alzò dal letto, prese la pipa-coltello, la guardò e balbettò: - Ma, io…- E l’altro, senza neanche sollevare il capo: - “Colui che conosce tutto, ma ignora se stesso, è privo di ogni cosa.”- Il giovane poggiò la lama sul petto del vecchio, poi con un sol colpo l’affondò nel suo cuore. Giona ebbe un fremito che l’attraversò tutto il corpo, poi più nulla. Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla ferita.
Walter si allontanò dal cadavere ed andò a prendere il ritaglio di giornale rimasto sul comodino. Su di esso lesse: “Un uomo impazzito soffoca la moglie gravemente malata nel suo letto d’ospedale”.
Trascorse l’intera giornata, seduto sul letto a guardare il corpo di Giona, le cui ultime parole gli frullarono di continuo nella mente.
A notte fonda, con la luna nascosta dalle nubi di un cielo tempestoso, uscì dalla stanza, attraversò il corridoio, scese in cortile, scavalcò il muro di cinta, e si mise alla ricerca di Gaspar.
 
 
Qualiano, 15 maggio 2004
 
 
 
 
 
1 Il Palazzo Pubblico
2 Monte di San Marino
3 “Sarà il caso”
4 Il cambio della guardia
5 Pantaloni rossi
6 “Ferita di spirito, sempre aperta”
7 “Animaletti perversi”. Definizione data da Freud ai bambini.

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