Scritto da © maria teresa morry - Lun, 07/10/2013 - 16:11
Nel mio albo di fotografie, ce n’è una in bianco e nero, dai bordi frastagliati. Ho nove anni, capelli cortissimi, sono sorridente. Mi trovo sopra la diga del Vajont, nell’estate del 1963. Si vede benissimo la strada che la percorre al suo apice, larga circa tre metri. La famosa diga “ a vela” già del tutto edificata. Ricordo l’invaso colmo abbastanza da formare un lago dal colore grigio e innaturale. Acque ferme che urtavano contro il cemento del possente bastione. Qualche mese dopo, soltanto ad ottobre di quell’anno, accadrà l’immane sciagura della frana che, dal monte Toc, scaricherà oltre 260 milioni di metri cubi di roccia nel lago artificiale contenuto dalla fiancata della diga. Se l’enormità delle cifre ha un senso, a seguito di quella frana - preannunciata, nota ai responsabili dell’opera e monitorata da tempo..- la valle del torrente Vajont, fino a Longarone e al Piave, sarà rasa al suolo da un sollevamento d’acqua di circa 50 milioni di metri cubi. Come noto, la grande diga, alta oltre 250 metri, la più alta in assoluto, venne solo sbrecciata al vertice e fu del tutto scavalcata da quel maremoto.
Verso la primavera del 1964, mio padre mi portò a Longarone. La viabilità era stata ripristinata. Non quella ferroviaria poiché i binari della linea verso Belluno erano stati divelti e strappati via come fettucce. Ci andammo a bordo della Fiat 1100 D grigia, che mio padre utilizzava per il suo lavoro. Avevo allora dieci anni. Ricordo un' immensa sassaia, una valle tutta colma di pietre, sassi, tegole sminuzzate e resti di ferro attorcigliati. Decine e decine di pali della luce spezzati. Di Longarone rimanevano solo alcune case, pochissime, integre. Certune, alte anche tre quattro piani, erano ritte ma spaccate a metà, come se un enorme coltello le avesse recise di netto, così come si fa con una fetta di pane. Non un albero, non una pianta, niente di niente. Una chiesa “sbranata “ da un immaginario morso d’orco, indicata solo dalla presenza di uno stretto campanile miracolosamente rimasto in piedi in mezzo alla desolazione delle pietre. Il fiume Piave scorreva nel suo alveo, acque ancora marroni, quasi nere. Da mesi il fiume portava in pianura carcasse di animali e detriti di tutti i tipi. I poveri corpi di persone erano stati recuperati quasi fino alla pianura. Mio padre ed io camminammo in silenzio in mezzo a quel pietrisco, qua e là c’erano persone in azione per il recupero, ma si vedeva che oramai restava molto poco da fare. Rovistavano quasi a casaccio. C’era solo un' immane, silenziosa desolazione. Ricordo di essere passata vicino ad una costa di roccia: da alcuni segni si capiva che eravamo già dentro a quello che un tempo era stato Longarone, ma quale fosse la via o il punto del paese, era impossibile capire. Mi stupì di vedere che incassato dentro la roccia c’era un forno a legna tipico di una panetteria. Lì c’era stata una panetteria che ogni giorno, fino al 9 ottobre, aveva sfornato buon pane fragrante. La bocca nera del forno si apriva come una ferita nella roccia. Tutto, all’intorno, era stato strappato via dalla furia dell’acqua, tranne lo sportello in ferro del forno, che pencolava ancora dai suoi cardini.
Verso la primavera del 1964, mio padre mi portò a Longarone. La viabilità era stata ripristinata. Non quella ferroviaria poiché i binari della linea verso Belluno erano stati divelti e strappati via come fettucce. Ci andammo a bordo della Fiat 1100 D grigia, che mio padre utilizzava per il suo lavoro. Avevo allora dieci anni. Ricordo un' immensa sassaia, una valle tutta colma di pietre, sassi, tegole sminuzzate e resti di ferro attorcigliati. Decine e decine di pali della luce spezzati. Di Longarone rimanevano solo alcune case, pochissime, integre. Certune, alte anche tre quattro piani, erano ritte ma spaccate a metà, come se un enorme coltello le avesse recise di netto, così come si fa con una fetta di pane. Non un albero, non una pianta, niente di niente. Una chiesa “sbranata “ da un immaginario morso d’orco, indicata solo dalla presenza di uno stretto campanile miracolosamente rimasto in piedi in mezzo alla desolazione delle pietre. Il fiume Piave scorreva nel suo alveo, acque ancora marroni, quasi nere. Da mesi il fiume portava in pianura carcasse di animali e detriti di tutti i tipi. I poveri corpi di persone erano stati recuperati quasi fino alla pianura. Mio padre ed io camminammo in silenzio in mezzo a quel pietrisco, qua e là c’erano persone in azione per il recupero, ma si vedeva che oramai restava molto poco da fare. Rovistavano quasi a casaccio. C’era solo un' immane, silenziosa desolazione. Ricordo di essere passata vicino ad una costa di roccia: da alcuni segni si capiva che eravamo già dentro a quello che un tempo era stato Longarone, ma quale fosse la via o il punto del paese, era impossibile capire. Mi stupì di vedere che incassato dentro la roccia c’era un forno a legna tipico di una panetteria. Lì c’era stata una panetteria che ogni giorno, fino al 9 ottobre, aveva sfornato buon pane fragrante. La bocca nera del forno si apriva come una ferita nella roccia. Tutto, all’intorno, era stato strappato via dalla furia dell’acqua, tranne lo sportello in ferro del forno, che pencolava ancora dai suoi cardini.
Sono tornata altre volte alla diga, l’ultima è stato due anni fa, in una giornata serena di maggio. La vedi sbucare percorrendo la statale Alemagna che porta alle valli del Cadore. La diga se ne sta incassata tra le montagne, altissima , come stesse a contenere qualche cosa di misterioso; sembra un formidabile bastione a contenimento di un inenarrabile male. A vederla così , oggi, gigante inutilizzato, concepito per produrre milioni di kilowatts, uno dei più grandi bacini idroelettrici del mondo, sembra solo un controsenso. Bella, è davvero bella. Un’opera assoluta nel suo genere. Avrebbe dovuto produrre energia elettrica per tutto il Nord Italia, all’epoca del boom economico; doveva rispondere allo sviluppo industriale contro le povere e modeste economie montane ed agricole di queste vallate bellunesi. Ci hanno lavorato per anni centinaia di operai e di tecnici, ci sono stati anche morti sul lavoro, operai caduti dalle impalcature. Ci sono stati in assoluto morti, circa 1917, dispersi in molti.
Là, dove conteneva il fatale lago che ricordo da bambina, l’invaso è stato colmato dalla frana e sui massi è cresciuta nel tempo prima l’erba, dopo gli abeti. La diga oggi contiene abeti, un bosco praticamente. Il cemento si sta martoriando, a cinquant’anni di distanza, e si sta inscurendo. Al vertice , la diga è ancora percorribile, la stretta strada che corre sui due lati è stata riparata dalla piccola sbrecciatura che la gigantesca ondata le aveva procurato. Quello che però lascia senza fiato è la profonda ferita a forma di M , ossia la frana del monte Toc, tutt’ora visibile come un immenso scalpo che ha denudato la montagna, senza che nulla più vi si rigenerasse. Uno slittamento di roccia esteso per oltre due chilometri in orizzontale che s’è portato via , in quella notte ottobrina del 1963, boschi e montagna scaraventandoli nel bacino sottostante. E’ la frana individuata dal professor Muller , importante geologo tedesco interpellato dalla SADE fin dal 1957 e confermata poi anche dal geologo italiano Edoardo Semenza, in tempi precedenti alla sciagura, quando v’era tutto il tempo per sospendere l’opera, soprattutto con riguardo al riempimento d’acqua dell’invaso. Le loro relazioni, i loro ammonimenti furono insabbiati nell’omertà. E sull’ omertà e sull’irresponsabilità è maturata la sciagura. Non si dica, non si osi dire che la tragedia del Vajont è nata da una “ fatalità”, da una serie di circostanze negative. La responsabilità umana, in questa sciagura, è stata provata e comprovata da decine di relazioni scientifiche, l’ultima delle quali risale al 1985,ad opera di geologi statunitensi.
Là, dove conteneva il fatale lago che ricordo da bambina, l’invaso è stato colmato dalla frana e sui massi è cresciuta nel tempo prima l’erba, dopo gli abeti. La diga oggi contiene abeti, un bosco praticamente. Il cemento si sta martoriando, a cinquant’anni di distanza, e si sta inscurendo. Al vertice , la diga è ancora percorribile, la stretta strada che corre sui due lati è stata riparata dalla piccola sbrecciatura che la gigantesca ondata le aveva procurato. Quello che però lascia senza fiato è la profonda ferita a forma di M , ossia la frana del monte Toc, tutt’ora visibile come un immenso scalpo che ha denudato la montagna, senza che nulla più vi si rigenerasse. Uno slittamento di roccia esteso per oltre due chilometri in orizzontale che s’è portato via , in quella notte ottobrina del 1963, boschi e montagna scaraventandoli nel bacino sottostante. E’ la frana individuata dal professor Muller , importante geologo tedesco interpellato dalla SADE fin dal 1957 e confermata poi anche dal geologo italiano Edoardo Semenza, in tempi precedenti alla sciagura, quando v’era tutto il tempo per sospendere l’opera, soprattutto con riguardo al riempimento d’acqua dell’invaso. Le loro relazioni, i loro ammonimenti furono insabbiati nell’omertà. E sull’ omertà e sull’irresponsabilità è maturata la sciagura. Non si dica, non si osi dire che la tragedia del Vajont è nata da una “ fatalità”, da una serie di circostanze negative. La responsabilità umana, in questa sciagura, è stata provata e comprovata da decine di relazioni scientifiche, l’ultima delle quali risale al 1985,ad opera di geologi statunitensi.
Oltre Longarone, sono stati distrutti dall' enorme massa d'acqua (e dal vento furioso che la stessa aveva provocato precipitando a valle) , i villaggi montani di Le Spesse, Pineda, Ceva, Frasèn, Il Cristo,San Martino, Marzana,Fée Fortogna, Erto bassa, Pirago, Maè, Rivalta e Villanova.
Vajont resta un nome e un luogo legato anche alla valorosa giornalista del giornale L’Unità, Tina Merlin, bellunese, scomparsa nel 1991, la quale denunciò costantemente in quegli anni – fino a subire un processo penale – quanto si stava perpetrando a rischio e pericolo della vita delle popolazioni di quelle valli. Ci restano, oltre ai suoi articoli dell’epoca, il suo coraggioso libro di denuncia “ Sulla pelle viva: come si costruisce una catastrofe” , pubblicato soltanto nel 1983.
P.S. Per riferimenti storici vedasi tra le più recenti pubblicazioni con fotografie d’archivio e inedite “ Vajont, cronaca di una tragedia annunciata” di Renato Zanolli , Dario De Bastiani ed., Vittorio Veneto 2013.
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